Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1890)/XVIII

XVIII
LA NUOVA SCIENZA

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XVII XIX


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XVIII.


LA NUOVA SCIENZA.


La letteratura non poteva risorgere che con la risurrezione della coscienza nazionale. Come negazione, ebbe vita splendida, che si chiuse col Folengo e l’Aretino. Arrestato quel movimento negativo dal Concilio di Trento, nacque un’affermazione ipocrita e rettorica, sotto alla quale senti una delle forme più deleterie della negazione, l’indifferenza. In quella stagnazione della vita pubblica e privata, non rimane alla letteratura altro di vivo che un molle lirismo idillico, il quale si scioglie nel melodramma, e dà luogo alla musica.

Ma quel movimento non era puramente negativo. Vi sorgeva dirimpetto l’affermazione del Machiavelli, una prima ricostruzione della coscienza, un mondo nuovo in opposizione dell’ascetismo, trovato e illustrato dalla scienza. È in questo mondo nuovo che la letteratura dovea cercare il suo contenuto, il suo motivo, la sua novità. Accettarlo o combatterlo era lo stesso. Ma bisognava ad ogni costo avere una fede, lottare, poetare, vivere, morire per quella.

I principii furono favorevoli. Insieme con la nuova letteratura si era sviluppata un’agitazione filosofica nell’Università e nelle accademie, indipendente dalla teologia cattolica o riformista, o piuttosto in opposizione mascherata alla teologia e all’aristotelismo dominante ancora nelle scuole. I liberi pensatori eran detti filosofi moderni, o i nuovi filosofi, come predicatori di nuove dottrine, e vedemmo come il Tasso nella sua giovinezza soggiacque alla loro autorità. Tra questi nuovi filosofi, che proclamavano l’autonomia della ragione, e la sua indipendenza da ogni autorità di teologo e di filosofo, [p. 233 modifica]disputando soprattutto contro Aristotile, era Bernardino Telesio, dell’Accademia Cosentina, nel quale è già spiccata la tendenza all’investigazione de’ fatti naturali e al libero filosofare, lasciate da parte le astrazioni e le forme scolastiche. Tra questi uomini nuovi, come li chiama Bacone, ebbe qualche fama il Patrizii, e Mario Nizzoli da Modena, che combattè ugualmente Aristotile e Platone, fuggì il gergo scolastico, e fu detto dal Leibnitz exemplum dictionis philosophiae reformatae. Gli uomini nuovi chiamavano pedanti gli avversarii, e come portavano i tempi, alternavano le villanie con gli argomenti. Il carattere di questo nuovo filosofare era l’indipendenza della filosofia dirimpetto la fede e l’autorità, il metodo sperimentale, e la riabilitazione della materia o della natura, risecato dalla investigazione tutto ciò che è soprannaturale e materia di fede. Filosofia e letteratura andavano di pari passo; il Machiavelli e l’Ariosto s’incontravano sullo stesso terreno, ciascuno co’ suoi mezzi. L’ironia dell’Ariosto ha il suo comento nella logica del Machiavelli. Come negazione, la nuova filosofia era troppo radicale, perchè non solo negava il Papato, ma il cattolicismo, e non solo il cattolicismo, ma il cristianesimo, e non solo il cristianesimo, ma l’altro mondo, e non solo l’altro mondo, ma Dio stesso. Non è che queste cose apertamente si negassero, anzi il linguaggio era pieno di cautele e di ossequi, maestro il Machiavelli; ma coi più umili inchini le mettevano da parte, come materia di fede, e vi sostituivano la natura, il mondo, la forza delle cose, la patria, la gloria, altri elementi ed altri fini. Era in fondo l’umanismo e il naturalismo, appoggiato alla ragione e all’esperienza, che prendeva il suo posto nel mondo. Questo grande movimento dello spirito che segna l’aurora de’ tempi moderni, e che si può ben chiamare il rinnovamento, avea nell’intelletto italiano la sua posizione più avanzata. Tutte [p. 234 modifica]le idee religiose, morali e politiche del medio evo erano parte affievolite, parte affatto cancellate nella coscienza degli uomini colti, anche de’ preti, anche de’ papi: l’indifferenza pubblica avea la sua espressione nell’ironia, nel cinismo, nell’umorismo letterario. Ora questa negazione e indifferenza universale non potea produrre un organismo politico e sociale, anzi era indizio più di dissoluzione, che di nuova formazione. La negazione non era effetto di una energica affermazione, come fu per la Riforma, reazione contro il paganesimo e il materialismo della Corte romana prodotta da un vivace sentimento spiritualista, religioso e morale, secondato da passioni e interessi politici. La riforma riuscì, perchè fu limitata nella sua negazione e nelle sue conclusioni, perchè avea a sua base lo spirito religioso e morale delle classi colte, e perchè, combattendo il papa e sostenendo i principi nella loro lotta contro l’imperatore, seppe metter dalla sua gl’interessi e le ambizioni. Presso noi, la negazione era un fatto puramente intellettuale, e quanto più assolute le conclusioni dell’intelletto, tanto più era debole la volontà e la forza di effettuarle. L’ideale stava a troppa distanza dal reale. La stessa utopia ne’ suoi voli rimaneva inferiore a quella posizione così avanzata dell’intelletto. Rimasero dunque conclusioni accademiche, temi rettorici, investigazioni solitarie nell’indifferenza pubblica. Le stesse audacie del Machiavelli passarono inosservate. La libertà del pensiero non era scritta in nessuna legge, ma ci era nel fatto, e si filosofava e si disputava sopra qualsivoglia materia senz’altro pericolo che degli emuli e invidiosi, che talora concitavano contro gli uomini nuovi le ire papali. Se il movimento avesse potuto svilupparsi liberamente, non è dubbio che avrebbe trovato il suo limite nelle applicazioni politiche e sociali, fermandosi in quelle idee medie, che meno sono lontane dalla realtà, e che si trovano già [p. 235 modifica]delineate nel Machiavelli, il più pratico e positivo di quegli uomini nuovi. Avremmo forse avuto la patria del Machiavelli, una chiesa nazionale, una religione purgata di quella parte grottesca e assurda che la rende spregevole agli uomini colti, e una educazione civile dell’animo e del corpo. Ma appunto allora l’Italia perdette la sua indipendenza politica e la sua libertà intellettuale; anzi la vittoria della Riforma in molte parti di Europa rese timidi e sospettosi i governanti, e cominciò feroce persecuzione contro gli uomini nuovi, eretici e filosofi, e più gli eretici, come più pericolosi. Avemmo il Concilio di Trento e l’Inquisizione, e, cosa anco peggiore, l’educazione gesuitica, eunuca e ipocrita. I più arditi esularono; e venne su la nuova generazione, con apparenze più corrette, e con una dottrina ufficiale che non era lecito mettere in discussione. Salvar le apparenze era il motto, e bastava. E ne uscì una società scredente, sensuale, indifferente, rettorica nelle forme, insipida nel fondo, con letteratura conforme. Religione, patria, virtù, educazione, generosità, sono temi poetici e oratorii frequentissimi, con esagerazioni spinte all’ultimo eroismo, perchè in nessuna relazione con la serietà e la pratica della vita.

Ma nè l’Inquisizione co’ suoi terrori, nè poi i gesuiti co’ loro vezzi poterono arrestare del tutto quel movimento intellettuale, che avea la sua base nel naturale sviluppo della vita italiana. Poterono bene ritardarlo tanto e impedirlo nel suo cammino, che ci volle più di un secolo, perchè acquistasse importanza sociale.

La reazione aveva anche i suoi uomini dotti. Ma la differenza era in questo, che ne’ suoi uomini era stagnata ogni attività intellettuale ed ogni vigore speculativo, volto il lavoro della mente agli accidenti e alle forme, più che alla sostanza, com’era pure de’ letterati; dove negli altri hai un serio progresso intellettuale, [p. 236 modifica]vivificato dalla fede, e stimolato dalla passione. La reazione avea vinto pienamente, avea seco tutte le forze sociali, e l’opposizione cacciata via dalle accademie e dalle scuole, frenata dall’Inquisizione e dalla censura, toltale ogni libertà e forza di espansione, era una infima minoranza appena avvertita nel gran movimento sociale. Perciò alla reazione mancò la lotta, dove si affina l’intelletto e si accendono le passioni, e per difetto di alimento rimase stazionaria e arcadica. L’attività intellettuale e l’ardore della fede rimase privilegio dell’opposizione, sì che dove trovi movimento intellettuale, ivi trovi opposizione più o meno pronunziata, e spesso involontaria e quasi senza saputa dello scrittore. La storia di questa opposizione non è stata ancora fatta in modo degno. Pure là sono i nostri padri, là batteva il core d’Italia, là stavano i germi della vita nuova. Perchè infine la vita italiana mancava per il vuoto della coscienza, e la storia di questa opposizione italiana non è altro se non la storia della lenta ricostituzione della coscienza nazionale. Cosa ci era nella coscienza? Nulla. Non Dio, non patria, non famiglia, non umanità, non civiltà. E non ci era più neppure la negazione, che anch’essa è vita, anzi ci era una pomposa simulazione de’ più nobili sentimenti con la più profonda indifferenza. Se in questa Italia arcadica vogliamo trovare uomini, che abbiano una coscienza, e perciò una vita, cioè a dire che abbiano fede, convinzioni, amore degli uomini e del bene, zelo della verità e del sapere, dobbiamo mirare là, in questi uomini nuovi di Bacone, in questi primi Santi del mondo moderno, che portavano nel loro seno una nuova Italia e una nuova letteratura.

E inchiniamoci prima innanzi a Giordano Bruno. Cominciò poeta, fu grande ammiratore del Tansillo. Aveva molta immaginazione e molto spirito, due qualità che bastavano allora alla fabbrica di tanti poeti e letterati; [p. 237 modifica]nè altre ne avea il Tansillo, e più tardi il Marino e gli altri lirici del seicento. Ma Bruno avea facoltà più poderose, che trovarono alimento ne’ suoi studii filosofici. Avea la visione intellettiva, o, come dicono, l’intuito, facoltà che può esser negata solo da quelli che ne son senza, e avea sviluppatissima la facoltà sintetica, cioè quel guardar le cose dalle somme altezze e cercare l’uno nel differente. Non era di ugual forza nell’analisi, dove non mostra pazienza e sagacia d’investigazione, ma quell’acutezza sofistica d’ingegno, che fa di lui l’ultimo degli scolastici nelle argomentazioni, e il precursore dei marinisti ne’ colori. Supplisce all’analisi con l’immaginazione, fantasticando, dove non giunge la sua visione, saltando le idee medie, e sforzandosi divinare quello che per lo stato allora della cognizione non può attingere. Spesso le sue idee sono immagini, e le sue speculazioni sono fantasie e allegorie. Ci era nel suo petto un Dio agitatore, che sentono tutt’i grandi ingegni; ed era un Dio filosofico, attraversato e avviluppato di forme poetiche, che gli guastano la visione e lo dispongono più a costruire lui il mondo, che a speculare sulla costruzione di quello. Con queste forze e con queste disposizioni si può immaginare qual viva impressione dovettero fare sul suo spirito gli studii filosofici. La sua cultura è ampia e seria; si mostra dimestico non solo de’ filosofi greci, ma de’ contemporanei. Ha una speciale ammirazione verso il divino Cusano, e molta riverenza pel Telesio. Il suo favorito è Pitagora, di cui afferma invidioso Platone. Alla sua natura contemplativa e poetica dovea riuscire sommamente antipatico Aristotile, e ne parla con odio, quasi nemico. Cosa dovea parere a quel giovine tutto quell’edifizio teologico-scolastico-aristotelico sconquassato dagli uomini nuovi, ma saldo ancora nelle scuole, sul quale s’innestava una società corrotta e ipocrita? Il primo movimento del suo spirito fu negativo e [p. 238 modifica]polemico, fu la negazione delle opinioni ricevute, accompagnata con un amaro disprezzo delle istituzioni e de’ costumi sociali. Era il tempo delle persecuzioni. I migliori ingegni emigravano, regnava l’Inquisizione. E Bruno era frate, e frate domenicano. Come uscì dal convento, e perchè esulò, s’ignora. Ma a quel tempo bastava poco ad essere battezzato eretico: ricordiamo i terrori del povero Tasso. Fuggì Bruno in Ginevra, dove trovò un papa anche più intollerante. Fuggì a Tolosa, a Lione, a Parigi, dove ebbe qualche tregua, e pubblicò il suo primo lavoro. Era il 1582. Aveva una trentina di anni.

Cosa è questo primo lavoro? Una commedia, il Candelaio. Bruno vi sfoga le sue qualità poetiche e letterarie. La scena è in Napoli, la materia è il mondo plebeo e volgare, il concetto è l’eterna lotta degli sciocchi e de’ furbi, lo spirito è il più profondo disprezzo e fastidio della società, la forma è cinica. È il fondo della commedia italiana dal Boccaccio all’Aretino, salvo che gli altri vi si spassano, massime l’Aretino, ed egli se ne stacca e rimane al di sopra. Chiamasi Accademico di nulla accademia, detto il Fastidito. Nel tempo classico delle accademie il suo titolo di gloria è di non essere accademico. Quel fastidito ti dà la chiave del suo spirito. La società non gl’ispira più collera; ne ha fastidio, si sente fuori e sopra di essa. Si dipinge così: «L’autore, se voi lo conosceste, ave una fisonomia smarrita; par che sempre sii in contemplazione delle pene dell’inferno; un che ride sol per far come gli altri. Per il più lo vedrete fastidito, restio e bizzarro». Il mondo gli parve un gioco vano di apparenze, senza conclusione. E il risultato della sua commedia è in tutto non esser cosa di sicuro; ma assai di negozio, difetto abbastanza, poco di bello e nulla di buono. Nessuno interesse può destare la scena del mondo a un uomo, che nella dedica conchiude così: «Il tempo tutto toglie e [p. 239 modifica]tutto dà; ogni cosa si muta, nulla si annichila; è un solo, che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente, uno, simile e medesimo. Con questa filosofia l’animo mi s’ingrandisce, e mi si magnifica l’intelletto». Ma non gli s’ingrandisce il senso poetico, il quale è appunto nel contrario, nel dar valore alle più piccole rappresentazioni della natura, e prenderci interesse. Un uomo simile era destinato a speculare sull’uno e sul medesimo, non certo a fare un’opera d’arte. Non si mescola nel suo mondo, ma ne sta da fuori e lo vede nelle sue generalità. Ecco in qual modo dipinge lo innamorato: «Vedrete in un amante sospiri, lacrime, sbadacchiamenti, tremori, sogni, e un cuor rostito nel fuoco d’amore, pensamenti, astrazioni, collere, maninconie, invidie, querele, e men sperar quel che più si desia.» E continua di questo passo, ammassando tutt’i luoghi topici della rettorica e tutte le frasi della moda, cuor mio, mio bene, mia vita, mia dolce piaga e morte, dio, nume, poggio, riposo, speranza, fontana, spirito, tramontana, stella, un bel sol che all’alma mia tramonta, crudo core, salda colonna, dura pietra, petto di diamante, cruda man che ha le chiavi del mio core, mia nemica, mia dolce guerriera, bersaglio sol di tutt’i miei pensieri, e bei son gli amori miei, non quei d’altrui. È il vecchio frasario de’ petrarchisti, venutogli a noia e ammassato qui alla rinfusa. Ci è il critico; non ci è il poeta comico che ci viva dentro e ci si trastulli. Fino il titolo, il Candelaio, lo mena a questa considerazione filosofica, che è la candela destinata a illuminare le ombre dell’idee. Perciò costruisce il suo mondo comico a quel modo che costruisce il suo universo, guardando nelle apparenze l’essenza e la generalità, «Eccovi avanti agli occhi oziosi principii, debili orditure, vani pensieri, frivole speranze, scoppiamenti di petto, scoverture di corde, falsi [p. 240 modifica]presuppositi, alienazioni di mente, poetici furori, offuscamento di sensi, turbazioni di fantasia, smarrito peregrinaggio d’intelletto, fede sfrenata, cure insensate, studi incerti, somenze intempestive, e gloriosi frutti di pazzia.» Con queste disposizioni non individua, come fa l’artista, ma generalizza, mette insieme le cose più disparate, perchè nelle massime differenze trova sempre il simile e l’uno, e profonde antitesi, similitudini, sinonimi, con una copia, un brio, una novità di relazioni che testimoniano straordinaria acutezza di mente. Chi legge Bruno si trova già in pieno seicento, e indovina Marino e Achillini. Ecco un periodo alla sua donna: «A voi, coltivatrice del campo dell’animo mio, che dopo di avere attrite le glebe della sua durezza, acciò che la polverosa nebbia sollevata dal vento della leggerezza non offendesse gli occhi di questo e quello, con acqua divina, che dal fondo del vostro spirito deriva, m’abbeveraste l’intelletto.» Sembra un periodo rubato a Pietro Aretino, che ne facea mercato. Il difetto penetra anche nella rappresentazione, essendo i caratteri concepiti astrattamente, perciò tesi e crudi, senza ombre e chiaroscuri, con una cinica nudità, resa anche più spiccata da una lingua grossolana, un italiano abborracciato e mescolato di elementi napolitani e latini.

In questo mondo comico i tre protagonisti, che sono i tre sciocchi beffati e castigati, abbracciano la vita nelle sue tre forme più spiccate, la letteratura, la scienza e l’amore nella loro comica degenerazione. La letteratura è pedanteria, la scienza è impostura, l’amore è bestialità. Il personaggio meglio riuscito è il pedante che finisce sculacciato e rubato. E il pedante sotto varii nomi diviene parte sostanziale anche del suo mondo filosofico, diviene il suo elemento negativo e polemico. Dirimpetto alla sua speculazione ci è sempre il pedante aristotelico, che rappresenta il senso comune o le opinioni volgari, [p. 241 modifica]ed è messo alla berlina. La speculazione si sviluppa in forma di dialogo, dove il pedante rappresenta la parte del buffone resa più piccante dalla solennità magistrale. A questo elemento comico aggiungi un altro elemento letterario, l’allegorico e il fantastico, che lo dispone a inviluppare i suoi concetti sotto immagini e finzioni, come è nel suo Asino cillenico e nello Spaccio della bestia trionfante. Qui arieggia Luciano, come in altri dialoghi più severamente speculativi arieggia Platone. Il suo dialogo Degli eroici furori ricorda la Vita Nuova di Dante, una filza di sonetti, ciascuno col suo comento, il quale nella sua generalità è una dottrina allegorica intorno all’entusiasmo e alla ispirazione. Il contenuto nel Bruno è in molta parte nuovo, ma le sue forme letterarie non nascono dal contenuto, sono appiccate a quello, e sono forme invecchiate e corrotte dal lungo uso, perciò senza grazia e semplicità, e senza calore intimo. Se non disgustano e non annoiano, si dee al suo acuto spirito e alla sua attività intellettuale, che non ti fa mai stagnare, e ti sorprende di continuo con sali, frizzi, antitesi, bizzarrie, concetti e finezze, che è il cattivo gusto degli uomini d’ingegno.

Ma quest’uomo così inviluppato in forme tradizionali e già guaste, che accennavano già ad una prossima dissoluzione della letteratura italiana, era nella sua speculazione perfettamente libero, e costruiva un nuovo contenuto, da cui dovea uscire più tardi una nuova critica e una nuova letteratura. La sua filosofia è la condanna più esplicita delle sue forme e dei suoi pregiudizii letterarii.

Non vo’ già analizzare il suo sistema filosofico: chè non fo storia di filosofia. Ma debbo notare le idee e le tendenze che ebbero una decisa influenza sul progresso umano.

Ne’ suoi primi scritti, tutti in latino, si vede il giovane, a cui si apre tutto il mondo della cognizione, e [p. 242 modifica]cerca riassumerlo, costruire l’albero enciclopedico. Raimondo Lullo avea già tentata questa sintesi, come aiuto della memoria. Bruno rifà il suo lavoro, stabilisce categorie e distinzioni, note mnemoniche, o idee generali, intorno a cui si aggruppino i particolari, come cielo, albero, selva. Queste note le chiama suggelli, a cui è aggiunto sigillus sigillorum, cioè le idee prime, da cui discendono le altre. Il suo entusiasmo per quest’architettura lulliana, titolo di un suo scritto, è tale, che la chiama arte delle arti, perchè vi si trova quidquid per logicam, metaphysicam, cabalam, naturalem magiam, artes magnas atque breves theoretice inquiritur. Bruno non avea attinto, che il meccanismo della scienza, perchè queste categorie o distribuzioni per capi e per materia sono distinzioni formali e arbitrarie, e rassomigliano un dizionario fatto per categorie a soccorso della memoria. Il volgo ci dà molta importanza e crede imparando quelle categorie di avere imparato a così buon mercato tutte le scienze. Dicesi che molti gli stessero attorno per aver da lui il secreto di diventar dottori in qualche mese, e che beffati gliene volessero, anzi a queste inimicizie plebee si attribuisce la sua fuga da Parigi e la sua andata a Londra. Ivi continuò i suoi studii lulliani e pubblicò Explicatio triginta sigillorum, con una introduzione intitolata: Recens et completa ars reminiscendi. In questi studi meccanici e formali si rivela già un principio organico, che annunzia il gran pensatore. L’arte del ricordarsi si trasforma innanzi alla sua mente speculativa in una vera arte del pensare, in una logica che è ad un tempo una ontologia. Ci è un libro pubblicato a Parigi nel 1582, col titolo: De umbris idearum, e lo raccomando a’ filosofi perchè ivi è il primo germe di quel mondo nuovo, che fermentava nel suo cervello. Ivi tra quelle bizzarrie mnemoniche è sviluppato questo concetto capitalissimo, che le serie del [p. 243 modifica]mondo intellettuale corrispondono alle serie del mondo naturale, perchè uno è il principio dello spirito e della natura, uno è il pensiero e l’essere. Perciò pensare è figurare al di dentro quello che la natura rappresenta al di fuori, copiare in sè la scrittura della natura. Pensare è vedere, ed il suo organo è l’occhio interiore, negato agl’inetti. Ond’è che la logica non è un argomentare, ma un contemplare, una intuizione intellettuale non delle idee che sono in Dio, sostanza fuori della cognizione ma delle ombre o riflessi delle idee ne’ sensi e nella ragione. Bruno parla con disprezzo dantesco del volgo, a cui è negato il lume interno, la visione del vero e del buono riflesso nella ragione e nella natura, e premette al suo libro questa protesta:

Umbra profunda sumus, ne nos vexetis inepti,
Non vos, sed doctos tam grave quaerit opus.

Che vuol dire in buono italiano: chi non ci vede, suo danno, e non ci stia a seccare.

Questo concetto rinnovava la scienza nella sua sostanza e nel suo metodo. Il dualismo teologico filosofico del medio evo, da cui scaturiva il dualismo politico, Papa e Imperatore, dava luogo all’unità assoluta. E il formalismo meccanico aristotelico-scolastico cedeva il campo a un metodo organico, cioè a dire derivato dall’essenza stessa della scienza. Il nuovo concetto era la chiave della speculazione di Bruno.

A Londra Bruno sostenne una disputa sul sistema di Copernico, lungamente da lui narrata e con colori molto comici nella Cena de le ceneri, cioè del primo dì di quaresima. Poi sviluppò più ampiamente le sue idee nel Dialogo della Causa, principio e uno, e nell’altro dell'infinito, universo e mondi, pubblicati a Londra nel 1584. Quei tre libri sono la sua metafisica.

Ciò che ti colpisce dapprima in questa speculazione [p. 244 modifica]è la riabilitazione, anzi l’indiamento della materia scomunicata, chiamata peccato. Bruno ha chiara coscienza di ciò che fa. Perchè mette in bocca al pedante aristotelico le opinioni volgari che correvano intorno alla materia. Il pedante è Polinnio, ed è descritto così: «Questo è un di quelli che quando ti aran fatta una bella costruzione, prodotta una elegante epistolina, scroccata una bella frase dalla popina ciceroniana, qua è risuscitato Demostene, qua vegeta Tullio, qua vive Salustio; qua è un Argo, che vede ogni lettera, ogni sillaba, ogni dizione. Chiamano all’esamina le orazioni, fanno discussione delle frasi con dire: queste sanno di poeta, queste di comico, questa di oratore! questo è grave, questo è lieve, quello è sublime, quell’altro è humile dicendi genus; questa orazione è aspera, sarebbe lene, se fosse formata così; questo è un infante scrittore, poco studioso dell’antiquità, non redolet arpinatem, desipit Latium; questa voce non è tosca, non è usurpata da Boccaccio, Petrarca e altri probati autori. Con questo trionfa, si contenta di sè, gli piacciono più che ogni altra cosa i fatti suoi: è un Giove che dall’alta specula rimira e considera la vita degli altri uomini suggetta a tanti errori, calamitadi, fatiche e miserie inutili; solo lui è felice, lui solo vive vita celeste, quando contempla la sua divinità nello specchio di uno spicilegio, un dizionario, un Calepino, un lessico, un cornucopia, un Nizolio. Se avvien che rida, si chiama Democrito, se avvien che si dolga, si chiama Eraclito: se disputa, si chiama Crisippo; se discorre, si chiama Aristotile; se fa chimere, si appella Platone; se mugge un sermoncello, s’intitula Demostene, se costruisce Virgilio, lui è il Marone. Qua corregge Achille, approva Enea, riprende Ettore, esclama contro Pirro, si condole di Priamo, arguisce Turno, scusa Didone, commenda Acate, e infine mentre verbum verbo reddit, e infilza salvatiche [p. 245 modifica]sinonimie, nihil-divinum a se alienum putat, e così borioso smontando dalla sua cattedra, come colui ha disposti i cieli, regolati i senati, domati gli eserciti, riformati i mondi, è certo che se non fosse l’ingiuria del tempo, farebbe con gli effetti quello che fa con l’opinione. O tempora! O mores! quanti son rari quei che intendono la natura dei participii, degli avverbii, delle congiunzioni!» Polinnio sarebbe immortale, se fosse in azione così vivo e vero, come è dipinto qui, ma l’artista è inferiore al critico, nè il Polinnio che parla è uguale al Polinnio descritto con così felice umore sarcastico. Polinnio sa a mente tutto quello che è stato scritto intorno alla materia, e tutto solo, ita inquam solus ut minime omnium solus, come fosse in cattedra, ti sciorina sulla materia una lezione, anzi, come dice lui, una nervosa orazione: «La materia dal Principe de’ peripatetici, non meno che dal Platon divino, or caos, or selva, or massa, or potenza, or attitudine, or privationi admixtum or peccati causa, or maleficium ordinata, or per se non ens, or per se non scibile, or per analogiam ad formam cognoscibile, or tabula rasa, or indepictum, or subiectum, or substratum, or substerniculum, or campus, or infinitum, or indeterminatum, or prope nihil, or neque quid, neque quale, neque quantum ― tandem femina vien detta, tandem, inquam, ut una complectantur omnia voculabula, foemina dicitur.» Ebbene, questa materia, che Polinnio per disprezzo chiama femmina, la causa del peccato, la tavola rasa, il prope nihil, neque quid, neque quale, neque quantum, è proclamata da Bruno immortale e infinita. Passano le forme; la materia resta immutabile nella sua sostanza. «La natura, variandosi in infinito, e succedendo l’una all’altra le forme, è sempre una materia medesima. Quello che era seme, si fa erba, e da quello che era erba, si fa spica, da che era spica, si fa pane, da pane chilo, da [p. 246 modifica]chilo sangue, da questo seme, da questo embrione, da questo uomo, da questo cadavere, da questo terra, da questo pietra. Bisogna dunque che sia una e medesima cosa, che da sè non è pietra, non terra, non cadavere, non uomo, non embrione, non sangue, ma che dopo ch’era sangue, si fa embrione, ricevendo l’essere embrione, dopo ch’era embrione, riceve l’essere uomo, facendosi uomo.»

E poichè tutte le forme passano, ed ella resta, Democrito e gli epicurei quel che non è corpo, dicono esser nulla, per conseguenza vogliono, la materia sola essere la sustanza delle cose, e anche quella essere la natura divina, le forme non essendo altro che certe accidentali disposizioni della materia, come sostengono i cirenaici, cinici e stoici. Bruno avea dapprima la stessa opinione, diffusa già in molti contemporanei, soprattutto nei medici, parendogli che quella dottrina avesse fondamenti più corrispondenti alla natura, che quei di Aristotile. Cominciò dunque prettamente materialista; ma considerata la cosa più maturamente, non potè confondere la potenza passiva di tutto e la potenza attiva di tutto, chi fa e chi è fatto, la forma e la materia: onde venne nella conclusione esserci nella natura due sustanze, l’una ch’è forma, l’altra che è materia, la potestà di fare, e la potestà di esser fatto. Perciò nella scala degli esseri c’è un Intelletto, che dà l’essere a ogni cosa, chiamato dai pitagorici datore delle forme; un’anima e principio formale, che si fa ed informa ogni cosa, chiamata dai medesimi fonte delle forme, una materia, della quale vien fatta e formata ogni cosa, chiamata da tutti ricetto delle forme.

Quanto all’Intelletto, primo e ottimo principio, non possiamo conoscer nulla, se non per modo di vestigio, essendo la divina sostanza infinita e lontanissima da [p. 247 modifica]quegli effetti che sono l’ultimo termine del corso della nostra facoltà discorsiva. Dio dunque è materia di fede e di rivelazione, e secondo la teologia e ancora tutte riformate filosofie è cosa da profano e turbolento spirito il voler precipitarsi a definire circa quelle cose che son sopra la sfera della nostra intelligenza. Dio è tutto quello che può essere, in lui potenza e atto sono la medesima cosa, possibilità assoluta, atto assoluto. L’uomo è quel che può essere; ma non è tutto quel che può essere. Quello che è tutto quel che può essere, è uno il quale nell’esser suo comprende ogni essere. Lui è tutto quel che è e può essere. In lui ogni potenza e atto è complicato, unito e uno; nelle altre cose è esplicato, disperso e moltiplicato. Lui è potenza di tutte le potenze, atto di tutti gli atti, vita di tutte le vite, anima di tutte le anime, essere di tutto l’essere. Perciò il rivelatore lo chiama Colui che è, il Primo e il Novissimo, poichè non è cosa antica e non è cosa nuova, e dice di lui: Sicut tenebrae ejus, ita et lumen ejus. Atto assolutissimo e assolutissima potenza, non può esser compreso dall’intelletto se non per modo di negazione; non può esser capito, nè in quanto può esser tutto nè in quanto è tutto. Ond’è che il sommo principio è escluso dalla filosofia, e Bruno costruisce il mondo, lasciando da parte la più alta contemplazione, che ascende sopra la natura, la quale a chi non crede è impossibile e nulla. Quelli che non hanno il lume soprannaturale, stimano ogni cosa esser corpo, o semplice, come l’etere, o composto, come gli astri, e non cercano la Divinità fuor dell’infinito mondo e delle infinite cose, ma dentro questo e in quelle. Questa è la sola differenza tra il fedele teologo e il vero filosofo. E Bruno conchiude: Credo che abbiate compreso quel che voglio dire. Il medio evo avea per base il soprannaturale e l’estramondano; Bruno lo ammette come fedele teologo, [p. 248 modifica]ma come vero filosofo cerca la Divinità non fuori del mondo, ma nel mondo. È in fondo la più radicale negazione dell’ascetismo e del medio evo.

Lasciando da parte la contemplazione del primo principio, rimangono due sostanze, la forma che fa e la materia di cui si fa, i due principii costitutivi delle cose.

La forma nella sua assolutezza è l’anima del mondo, la cui intima, più reale e propria facoltà, e parte potenziale è l’intelletto universale. Come il nostro intelletto produce le specie razionali, così l’intelletto o l’anima del mondo produce le specie naturali, empie il tutto, illumina l’universo, come disse il poeta: Totamque infusa per artus Mens agitat molem et toto se corpore miscet. Questo intelletto, detto da’ platonici fabbro del mondo, e da Bruno artefice interno, infondendo e porgendo qualche cosa del suo alla materia produce il tutto. Esso è la forma universale e sostanziale insita nella materia, perchè non opera circa la materia e fuor di quella, ma figura la materia da dentro, come da dentro del seme o radice forma il stipe, da dentro il stipe caccia i rami, da dentro i rami forma le brance, da dentro queste spiega le gemme, da dentro forma, figura e intesse come di nervi le fronde, li fiori e li frutti. La natura opra del centro per dir così del suo soggetto o materia. Sicchè la forma, se come causa efficiente, è estrinseca, perchè non è parte delle cose prodotte, quanto all’atto della operazione, è intrinseca alla materia, perchè opera nel seno di quella. È causa cioè fuori delle cose: ed è insieme principio, cioè insito nelle cose. Non ci è creazione, ci è generazione, o, come dice Bruno, esplicazione.

La forma è in tutte le cose, e perciò tutte le cose hanno anima. Vivere è avere una forma, avere anima. Tutte le cose sono viventi. Se la vita si trova in tutte le cose, l’anima è forma di tutte le cose, presiede alla [p. 249 modifica]materia, signoreggia ne’ composti, effettua la composizione e consistenza delle parti. Perciò essa è immortale e una non meno che la materia. Ma secondo le disposizioni della materia e secondo la facultà de’ principii materiali attivi e passivi, viene a produr diverse figurazioni. Sono queste forme esteriori, che solo si cangiano e annullano, perchè non sono cose ma dalle cose, non sono sostanze ma accidenti e circostanze. Perciò dice il poeta: omnia mutantur, nihil interit. E Salamone dice: quid est quod est? Ipsum, quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum, quod futurum est. Nihil sub sole novum. Vani dunque sono i terrori della morte, e più vani i terrori dell’avaro Caronte: onde il più dolce della nostra vita ne si rapisce ed avvelena.

Machiavelli avea già parlato di uno spirito del mondo immortale ed immutabile, fattore della storia secondo le sue leggi costitutive. Quello spirito della storia nella speculazione di Bruno è il fabbro del mondo, e il suo artefice interno.

Dirimpetto alla forma assoluta è la materia assoluta, cioè secondo sè, distinta dalla forma. Come la forma esclude da sè ogni concetto di materia, così la materia esclude da sè ogni concetto di forma. La materia è informe, potenza passiva pura, nuda, senz’atto, senza virtù e perfezione, prope nihil, è l’indifferente, lo stesso e il medesimo, il tutto e il nulla. Appunto perchè è tutte le cose non è alcuna cosa. E perchè non è alcuna cosa, non è corpo; nullas habet dimensiones, è indivisibile, soggetto di cose corporee e incorporee. Se avesse certe dimensioni, certo essere, certa figura, certa proprietà, non sarebbe assoluta.

Ma forma e materia nella loro assolutezza, come aventi vita propria, estrinseca l’una all’altra, sono non distinzioni reali, ma vocali e nominali, sono distinzioni logiche o intellettuali, perchè l’intelletto divide quello che [p. 250 modifica]in natura è indiviso, com’è vizio di Aristotile, e degli scolastici, che popolarono il mondo di entità logiche quasi fossero sussistenze reali. Bruno si beffa in molte occasioni di questi filosofi, che moltiplicarono gli enti, immaginando fino la socrateità, come l’essenza di Socrate, la ligneità come essenza del legno. Questa distinzione tra gli enti logici e gli enti reali è già un gran progresso. Non che le distinzioni logiche sieno senza importanza, anzi esse sono una serie corrispondente alla serie delle cose, sono le generalità della natura; il torto è di considerarle cose viventi e reali, e credere per esempio, che forma e materia sieno due sostanze distinte, appunto perchè possiamo e dobbiamo concepirle distinte.

In natura o nella realtà forma e materia sono una sola sostanza. L’una implica l’altra: porre l’una è porre l’altra. La forma non può sussistere se non aderente alla materia, una forma che stia da sè è una astrazione logica. Parimenti la materia vuota e informe è un’astrazione; essa è come una pregnante che ha già in sè il germe vivo. Non ci è forma che non abbia in sè un che materiale, e non ci è materia che non abbia in sè il suo principio formale e divino. Bruno dice: Lo ente logicamente diviso in quel che è e può essere, fisicamente è indiviso, indistinto e uno. Perciò la potenza coincide coll’atto, la materia con la forma. Giove, l’essenzia per cui tutto quel che è ha l’essere, è intimamente in tutto; onde s’inferisce che tutte le cose sono in ciascuna cosa, e tutto è uno.

La materia non è dunque nulla, prope nihil, come vuole Aristotile, anzi ha in sè tutte le forme, e le produce dal suo seno per opera della Natura, efficiente o artefice interno e non esterno, come aviene nelle cose artificiali. Se il principio formale fosse esterno, si potrebbe dire ch’ella non abbia in sè forma e atto alcuno; ma le ha tutte, perchè tutte le caccia dal suo seno. [p. 251 modifica]Perciò la materia non è quello in cui le cose si fanno, ma quello di cui ogni specie naturale si produce. Ciò che, oltre i pitagorici, Anassagora e Democrito, comprese anche Mosè, quando disse: Produca la terra li suoi animali quasi dicesse: producale la materia. Adunque le forme ed entelechie di Aristotile e le fantastiche idee di Platone, i sigilli ideali separati dalla materia son peggio che mostri, sono chimere e vane fantasie. La materia è fonte dell’attualità, è non solo in potenza, ma in atto, è sempre la medesima e immutabile, in eterno stato, e non è quella che si muta, ma quella intorno alla quale e nella quale è la mutazione. Ciò che si altera è il composto, non la materia. Si dice stoltamente che la materia appetisca la forma. Non può appetere il fonte delle forme che è in sè, perchè nessuno appete ciò che possiede. E perciò in caso di morte non si dee dire che la forma fugge e lascia la materia, ma più tosto che la materia rigetta quella forma per prenderne un’altra. Il povero Gervasio, che fa nel dialogo la parte del senso comune o volgare, vedendo a terra non solo le opinioni aristoteliche di Polinnio, ma tante altre cose, esce in questa esclamazione: Or ecco a terra non solamente li castelli di Polinnio, ma ancora d’altri che di Polinnio!.

Adunque, se gl’individui sono innumerabili, ogni cosa è uno, e il conoscere questa unità è lo scopo e termine di tutte le filosofie e contemplazioni naturali, montando non al sommo principio, escluso dalla speculazione, ma alla somma monade o atomo o unità, anima del mondo, atto di tutto, potenza di tutto, tutta in tutto.

Questa sostanza unica è l’universo, uno, infinito, immobile. Non è materia, perchè non è figurato, nè figurabile, non è forma, perchè non informa, nè figura sostanza particolare, atteso che è tutto, è massimo, è uno, è universo. È talmente forma che non è forma; è talmente materia che non è materia; è talmente anima [p. 252 modifica]che non è anima, perchè è il tutto indifferentemente, e però è uno, l’universo è uno. In lui tutto è centro, il centro è dappertutto e la circonferenza è in nessuna parte, ed anche la circonferenza è dappertutto e in nessuna parte il centro. Non c’è vacuo; tutto è pieno, quello in cui vi può essere corpo, e che può contenere qualche cosa, e nel cui seno sono gli atomi. Perciò l’universo è di dimensione infinita e i mondi sono innumerabili. La causa finale del mondo è la perfezione, e agl’innumerabili gradi di perfezione rispondono i mondi innumerabili, animali grandi, co’ loro organi e il loro sviluppo, de’ quali uno è la terra. Per la continenza di questi innumerabili si richiede uno spazio infinito, l’eterea regione, dove si muovono i mondi, perciò non affissi e inchiodati. Vano è cercare il loro motore esterno, perchè tutti si muovono dal principio interno, che è la propria anima.

Il punto di partenza è una reazione visibile contro il soprannaturale e l’estramondano. Il mondo popolato di universali nel medio evo è negato da Bruno in nome della natura. Dio stesso, dice Bruno, se non è natura, è natura della natura; se non è l’anima del mondo, è l’anima dell’anima del mondo. E in questo caso è materia di fede, non è parte della cognizione. La base della sua dottrina è perciò l’intrinsechezza del principio formale o divino della natura. Ciascuno ha Dio dentro di sè. Il vero e il buono luce dentro di noi non per lume soprannaturale, ma per lume naturale. Il naturalismo reagiva contro il soprannaturale.

Quelli che hanno lume soprannaturale, come i profeti, cioè a dire che ricevono il lume dal di fuori, egli li chiama asini o ignoranti, de’ quali fa un ironico panegirico nell’Asino cillenico, e tra questi e quelli che hanno il lume naturale e vedono per virtù propria è la stessa differenza che è tra l’asino che porta i [p. 253 modifica]sacramenti e la cosa sacra. Quelli sono vasi e strumenti, questi principali artefici ed efficienti; quelli hanno più dignità, perchè hanno la divinità; questi sono essi più degni, e sono divini. L’asinità è la condizione della fede; chi crede, non ha bisogno di sapere; e l’asinità conduce alla vita eterna. Sforzatevi, sforzatevi dunque ad essere asini, o voi che siete uomini! grida Bruno con umore; così, divoti e pazienti, sarete contubernali alle angeliche squadre. E voi che siete già asini, procedete di bene in meglio, affinchè perveniate a quella dignità che non per scienza ed opere, ma per fede s’acquista. Se tali sarete, vi troverete scritti nel libro della vita, impetrerete la grazia in questa militante, ed otterrete la gloria in quella trionfante ecclessia, nella quale vive e regna Dio per tutt’i secoli dei secoli.» Questa tirata umoristica finisce con un molto pio sonetto in lode degli asini, il cui concetto è che «il gran Signor li vuol far trionfanti». Nè solo è l’asino trionfante, ma l’ozio, perchè l’eterna felicità si acquista per fede, non per scienza, e non per opere. Anche dell’ozio hai un panegirico ironico, e per saggio diamo il seguente sillogismo: Li Dei son Dei, perchè son felicissimi; li felici son felici, perchè sono senza sollecitudine e fatica; fatica e sollecitudine non han coloro che non si muovono e alterano; questi son massime quei che han seco l’ozio; dunque gli Dei son Dei, perchè han seco l’ozio». Sillogismo pieno di senso nella sua frivola apparenza. Momo, il censore divino, ne resta intrigato, e dice che per aver studiato logica in Aristotile non aveva imparato di rispondere agli argomenti in quarta figura. L’ozio fa naturalmente l’elogio dell’età dell’oro, la sua età, il suo regno, e cita i bei versi del Tasso:

    Legge aurea e felice,
Che natura scolpì: s’ei piace, ei lice.

[p. 254 modifica]E finisce con questa esortazione:

Lasciate le ombre, ed abbracciate il vero,
Non cangiate il presente col futuro.
Voi siete il veltro che nel rio trabocca,
Mentre l’ombra desia di quel che ha in bocca.
Avviso non fu mai di saggio e scaltro,
Perdere un ben per acquistarne un altro.
A che cercate sì lunge diviso,
Se in voi stessi trovate il paradiso?

L’ozio e l’ignoranza sono i caratteri della vita ascetica e monacale, della quale Bruno aveva avuto esperienza. «La libertà, fa egli dire a Giove, quando sia oziosa, sarà frustatoria e vana, come indarno è l’occhio che non vede, e mano che non prende. Nell’età dell’oro per l’ozio gli uomini non erano più virtuosi, che sin al presente le bestie son virtuose, e forse erano più stupidi che molte di queste.» Bruno rigetta quella vita oziosa, che fu detta aurea, e ch’egli chiama scempia, fondata sulla passività dell’intelletto e della volontà, e non può parlarne senz’aria di beffa. Il soprannaturale è incalzato ne’ suoi princìpii e nelle sue conseguenze.

Secondo la morale di Bruno il lume naturale viene destato nell’anima dall’amore del divino, o dal principio formale aderente alla materia, e per il quale la materia è bella. Amare la materia in quanto materia è cosa bestiale e volgare, e Bruno se la prende col Petrarca e i petrarchisti lodatori di donne per ozio e per pompa d’ingegno, a quel modo che altri han parlato delle lodi della mosca, dello scarafone, dell’asino, di Sileno, di Priapo, scimmie de’ quali son coloro che han poetato a’ nostri tempi, dic’egli, delle lodi della piva, della fava, del letto, delle bugie, del forno, del martello, della carestia, della peste. Obbietto dell’amore eroico è il divino, o il formale; la bellezza divina prima si comunica alle anime, [p. 255 modifica]e per quelle si comunica a’ corpi; ond’è che l’affetto ben formato ama la corporal bellezza, per quel ch’è indice della bellezza di spirito. Anzi quello che ne innamora de’ corpi, è una certa spiritualità che veggiamo in essi, la qual si chiama bellezza, la qual non consiste nelle dimensioni maggiori o minori, non ne’ determinati colori, o forme, ma in certa armonia o consonanza di membri e colori. L’amore sveglia nell’anima il lume naturale, o la visione intellettiva, la luce intellettuale, e la tiene in istato di contemplazione o di astrazione, sì che pare insana e furiosa, come posseduta dallo spirito divino. Questo è non il volgare, ma l’eroico furore, per il quale l’anima si converte come Atteone in quel che cerca, cerca Dio e diviene Dio, e avendo contratta in sè la divinità, non è necessario che la cerchi fuori di sè. Perciò ben si dice il regno di Dio essere in noi, e la divinità abitare in noi per forza della visione intellettuale. Non tutti gli uomini hanno la visione intellettuale, perchè non tutti hanno l’amore eroico; ne’ più domina non la mente, che innalza a cose sublimi, ma l’immaginazione, che abbassa alle cose inferiori, e questo volgo concepisce l’amore a sua immagine:

Fanciullo il credi, perchè poco intendi;
Perchè ratto ti cangi, e’ par fugace;
Per esser orbo tu, lo chiami cieco.

L’amore eroico è proprio delle nature superiori, dette insane, non perchè non sanno, ma perchè soprasanno, sanno più dell’ordinario, e tendono più alto, per aver più intelletto.

La visione e contemplazione divina non è però oziosa ed estrinseca, come ne’ mistici e ascetici; Dio è in noi, e possedere Dio è possedere noi stessi. E non ci viene dal di fuori, ma ci è data dalla forza dell’intelletto e della volontà, che sono tra loro in reciprocanza d’azione, [p. 256 modifica]l’intelletto che suscitato dall’amore acquista occhio e contempla, e la volontà che ringagliardita dalla contemplazione diviene efficace, o doppiata: ciò che Bruno esprime con la formola: Io voglio volere. Dalla contemplazione esce dunque l’azione; la vita non è ignoranza e ozio, anzi è intelletto e atto mediante l’amore, secondo la formola dantesca rintegrata da Bruno, è intendere ed operare. Maggiori sono le contrarietà e le necessità della vita, e più intensa è la volontà, perchè amore è unità e amicizia de’ contrarii o degli oppositi, e nel contrasto cerco la concordia. La mente è unità, l’immaginazione è moto, è diversità; la facoltà razionale in mezzo, composta di tutto, in cui concorre l’uno con la moltitudine il medesimo col diverso, il moto con lo stato, l’inferiore col superiore. Come gli Dei trasmigrano in forme basse e aliene, o per sentimento della propria nobiltà ripigliano la divina forma; così il furioso eroico, innalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontà, con l’ale dell’intelletto e volontà intellettiva s’innalza alla divinità, lasciando la forma di soggetto più basso:

Da soggetto più vil divegno un dio,
Mi cangio in Dio da cosa inferiore.

Cangiarsi in Dio significa levarsi dalla moltitudine all’uno, dal diverso allo stesso, dall’individuo alla vita universale, dalle forme cangianti al permanente, vedere e volere nel tutto l’uno, e nell’uno il tutto. O per uscire da questa terminologia, Dio è verità e bontà scritta al di dentro di noi, visibile per lume naturale, e cercarla e possederla è la perfezione morale, lo scopo della vita.

È stato notato che Bruno non ti offre un sistema concorde e deciso. La filosofia è in lui ancora in istato di fermentazione. Hai i vacillamenti dell’uomo nuovo, che vive ancora nel passato e del passato. Combatte il soprannaturale, ma il suo lume naturale, la sua Mens [p. 257 modifica]tuens, la sua intuizione intellettiva, ne serba una confusa reminiscenza. Contempla Dio nella infinità della natura, ma non sa strigarsi dal Dio estramondano, e non sa che farsene, rimasto come un antecedente inconciliato della sua speculazione. Ora quel Dio è Verità e Sostanza, e noi siamo sua ombra, umbra profunda sumus; ora quel Dio è proprio la Natura, o se non è Natura, è Natura della Natura. Ci è in lui confuso Cartesio, Spinosa e Malebranche. Combatte la scolastica, e ne conserva in gran parte le abitudini. Odia la mistica, e talora a sentirlo è più mistico di un Santo Padre. Rigetta l’immaginazione, e ne ha tutt’i vizii e tutte le forme. Manca l’armonia nel suo contenuto e nelle sue forme. E non è maraviglia che anche oggi i filosofi si accapiglino nella interpretazione del suo sistema.

Interessantissima è questa storia interiore dello spirito di Bruno nelle sue distinzioni e sottigliezze, e nelle oscillazioni del suo sviluppo; anzi è questa la sua vera biografia. Niente è più drammatico che la vita interiore di un grande spirito nella sua lotta con l’educazione, co’ maestri, con gli studii, col tempo, co’ pregiudizii, nelle sue imitazioni, fluttuazioni e resistenze. La sua grandezza è appunto in questo, di vincere in quella lotta, cioè che di mezzo a quelle fluttuazioni si stacchino con maggior forza ed evidenza le sue tendenze predilette, che gli dànno un carattere ed una fisonomia. E questa fisonomia di Bruno noi dobbiamo cercare a traverso i suoi ondeggiamenti.

Innanzi tutto, Bruno ha sviluppatissimo il sentimento religioso, cioè il sentimento dell’infinito e del divino, come di ogni spirito contemplativo. Leggendolo, ti senti più vicino a Dio. E non hai bisogno di domandarti, se Dio è, e cosa è. Perchè lo senti in te, e appresso a te, nella tua coscienza e nella natura. Dio è più intimo a te che non sei tu a te stesso. Tutte le religioni non sono in [p. 258 modifica]fondo che il Divino in diverse forme. E sotto questo aspetto Bruno ti fa un’analisi assai notevole delle religioni antiche e nuove. L’amore del Divino, il furore eroico, è il carattere delle nobili nature. E questo amore ci rende atto non solo a contemplare Dio come Verità, ma ancora a realizzarlo come Bontà. Ivi ha radice la scienza e la morale.

Questi concetti non sono nuovi, e di simili se ne trovano nella Scrittura e ne’ Padri. Ma lo spirito n’è nuovo. Non è solo questo che i cieli narrano la gloria di Dio, ma quest’altro, che i cieli sono essi medesimi divini, e si movono per virtù propria, per la loro intrinseca divinità. È la riabilitazione della materia o della natura, non più opposta allo spirito e scomunicata, ma fatta divina, divenuta genitura di Dio. È il finito o il concreto che apparisce all’infinito, e lo realizza, gli dà l’esistenza. O, come dicesi oggi, è il Dio vivente e conoscibile che succede al Dio astratto e solitario. L’universo, eterno ed infinito, è la vita o la storia di Dio.

Questo è ciò che fu detto il naturalismo di Bruno, o piuttosto del secolo, ed era il naturale progresso dello spirito, che usciva dalle astrattezze scolastiche, o, come dice Bruno, dalle credenze e dalle fantasie, e cercava la sua base nel concreto e nel finito; era la prima voce della natura che scopriva sè stessa e si proclamava di essenza divina, una e medesima che la Divinità, secondo che l’unità è distinta nella generata e generante, o producente e prodotta. Bruno nel suo entusiasmo per la Natura divina dice che lo spirito eroico vede «l’anfitrite, il fonte di tutt’i numeri, di tutte specie, di tutte ragioni che è la monade, vera essenza dell’essere di tutti, e, se non la vede in sua essenza, in assoluta luce, la vede nella sua genitura, che l’è simile, che è la sua immagine, perchè dalla monade, che è la divinitate, procede questa monade, che è la natura, l’universo, il [p. 259 modifica]mondo, dov’ella si contempla e si specchia», cioè dove s’intende ed è intelligibile.

Questa visione di Dio, privilegio dello spirito eroico, non ha nulla a fare col lume soprannaturale, con la fede, o la grazia, o l’estasi, o altro che dal di fuori piova nell’anima. Dio, fatto conoscibile nel mondo, diviene materia della cognizione, e l’anima effettua la sua unione con lui per un atto della sua energia, per intrinseca virtù. La visione è intellettiva, e il suo organo è la Mente, dove Dio, o la Verità, si rivela, come in propria e viva sede, a quelli che la cercano, per forza del riformato intelletto e volontà, cioè per la scienza.

L’amore del Divino, spinto sino al furore eroico, lega Bruno co’ mistici. Il naturalismo letterario era pretto materialismo, che si sciolse nella licenza e nel cinismo, e mise capo in ozio idillico snervante peggiore dell’ozio ascetico. Il naturalismo di Bruno era al contrario non il divino materializzato, ma la materia divinizzata. La materia in sè stessa è volgare bestialità; essa ha valore come divina. Il divino non è infuso o intrinseco; ma è insito e connaturato. Cercarlo ed effettuarlo è il degno scopo della vita. E non si rivela se non a quelli che lo cercano e lo conquistano col lavoro della mente illuminato dall’amore eroico. Ciò distingue i vulgari dai nobili spiriti. Molti sono i chiamati, pochi gli eletti. Molti rimirano, pochi vedono. Bruno parla spesso con tale unzione e con tale esaltazione mistica, che ti pare un Dante o un san Bonaventura.

Ma i mistici sono semplicemente contemplanti, dove per Bruno non è contemplazione, nella quale non sia azione, e non è azione nella quale non sia contemplazione. La nuda contemplazione è ozio. Contemplare è operare. Si vede l’uomo che esce dal Convento ed entra nella vita militante.

Folengo esce dal convento rinegando Dio e sputando [p. 260 modifica]sul viso alla società. In lui il secolo scettico e materialista ha la sua ultima espressione. Anche a Bruno abbonda la satira e l’ironia, anche in lui ci è un lato negativo e polemico, sviluppato con potenza e abbondanza d’immaginazione. Ma questo lato rimane assorbito nella sua speculazione. Il suo scopo è tutto positivo; è la restaurazione di Dio, e con esso del sentimento religioso e della coscienza. Ciò che Savonarola tentò con la fede e con l’entusiasmo, egli tenta con la scienza. Non accetta Dio, come gli è dato, nè se ne rimette alla fede, perchè non è un credente. Dio vuole cercarlo e trovarlo lui, con la sua attività intellettuale, con l’occhio della mente. E questo Dio, da lui trovato, e di cui sente l’infinita presenza in sè stesso e negl’infiniti mondi e in ciascun essere vivente, nel massimo e nel minimo, non rimane astratta verità nella sua intelligenza, ma scende nella coscienza e penetra tutto l’essere, intelletto, volontà, sentimento e amore. Comincia scredente, finisce credente. Ma è un Credo generato e formato nel suo spirito, non venutogli dal di fuori. Per questo Credo non gli fu grave morire ancor giovane sul rogo, dicendo ai suoi giudici le celebri parole: Majori forsitan cum timore sententiam in me dicitis, quam ego accipiam. Sembra che il suo maggior peccato innanzi alla Chiesa sia stata la sua fede negl’infiniti mondi, come traspare da questa malvagia ironia dello Scioppio: Sic ustulatus misere periit, renunciaturus, credo, in reliquis illis, quos finxit, mundis, quonam pacto homines blasphemi et impii a Romanis tractari solent.

Insisto su questo carattere entusiastico e religioso di Bruno, o, com’egli dice, eroico, che gli dà la figura di un Santo della scienza. Quante volte l’umanità, stanca di aggirarsi nell’infinita varietà, sente il bisogno di risalire al tutto ed uno, all’Assoluto, e cercarvi Dio, le [p. 261 modifica]si affaccia sull’ingresso del mondo moderno la statua colossale di Bruno.

Il suo supplizio passò così inosservato in Italia, che parecchi eruditi lo mettono in dubbio. Nè le opere sue vi lasciarono alcun vestigio. Si direbbe che i carnefici insieme col corpo arsero la sua memoria. Anche in Europa il brunismo lasciò deboli tracce. Il progresso delle idee e delle dottrine era così violento, che il gran Precursore fu avvolto e oscurato nel turbinio. Come Dante, Bruno attendeva la sua risurrezione. E quando dopo un lungo lavoro di analisi riappare la sintesi, Jacobi e Schelling sentirono la loro parentela col grande italiano, e riedificarono la sua statua.

In Bruno trovi la sintesi ancora inorganica della scienza moderna, con le sue più spiccate tendenze, la libera investigazione, l’autonomia e la competenza della ragione, la visione del vero come prodotto della attività intellettuale, la proscrizione delle fantasie, delle credenze e delle astrazioni, un più intimo avvicinamento alla natura o al reale. Dico tendenze, perchè nel fatto l’immaginazione e il sentimento soprabbondavano in lui, e gli tolsero quella calma armonica di contemplazione, senza la quale riesce difettiva la virtù organizzatrice, e quella pazienza di osservazione e di analisi, senza la quale le più belle speculazioni rimangono infeconde generalità.

Quanto alla sua sintesi, il Dio astratto ed estramondano fatto visibile e conoscibile nella infinita Natura, l’unità e medesimezza di tutti gli esseri, l’eternità e l’infinità dell’universo nella perenne metempsicosi delle forme, il sentimento dell’anima o della vita universale, l’infinita perfettibilità delle forme nella loro trasformazione, la produttività della materia dal suo intrinseco, l’azione dinamica della natura nelle sue combinazioni, la libertà distinta dal libero arbitrio e rappresentata come la stessa effettuazione del Divino o della legge, la [p. 262 modifica]moralità e la glorificazione del lavoro, sono concetti che svolti lungamente e variamente da Bruno in opere latine e italiane appaiono punti luminosi nella speculazione moderna, e ne trovi i vestigi in Cartesio, in Spinosa, in Leibnitz, e più tardi in Schelling, in Hegel e ne’ presenti materialisti. Se dovessi con una sola formola caratterizzare il mondo di Bruno, lo chiamerei il mondo moderno ancora in fermentazione.

Roma bruciava Bruno, Parigi bruciava Vanini. I loro carnefici li dissero Atei. Pure Dio non fu mai cosa sì seria, come nel loro petto. Andiamo a morir da filosofo, disse Vanini, avvicinandosi al rogo. Eran detti anche novatori, titolo d’infamia, che è divenuto il titolo della loro gloria.

Nel 1599 Bruno era già nelle mani dell’inquisizione, e Campanella nelle mani spagnuole. Nel primo anno del seicento Bruno periva sul rogo, e Campanella aveva la tortura. Così finiva l’un secolo, così cominciava l’altro. Tu, asinus, nescis vivere, dicevano a Campanella amici e nemici: ne loquaris in nomine Dei. E lui prendeva ad insegna una campana, con entrovi l’epigrafe: Non tacebo. Anche Bruno diceva di sè: dormitantium animorum excubitor. La nuova scienza sorge come una nuova religione, accompagnata dalla fede e dal martirio. Philosophus, diceva il Pomponaccio per esperienza propria, ab omnibus irridetur, et tamquam stultus et sacrilegus habetur; ab inquisitoribus prosequitur, fit spectaculum vulgi: haec igitur sunt lucra philosophorum, haec est eorum merces. Pure questi uomini nuovi, derisi, perseguitati, spettacolo del volgo, avevano una fede invitta nel trionfo delle loro dottrine. L’Accademia cosentina di Telesio, avea per impresa la luna crescente col motto: donec totum impleat orbem. Bruno, perseguitato dal suo secolo, diceva: La morte di un secolo fa vivo in tutti gli altri. Campanella paragona il [p. 263 modifica]filosofo al Cristo, che il terzo giorno spezzando la pietra, risorge. Il carattere era pari all’ingegno. Dietro al filosofo ci era l’uomo.

Telesio è detto da Bacone il primo degli uomini nuovi. Ma la novità era già antica di un secolo, e Telesio che avea fatto i suoi studii a Padova, a Milano, a Roma, professato a Napoli, quando, stanco di lotte e di persecuzioni, deliberò di ritrarsi nella nativa Cosenza, vi portò il motto del pensiero italiano, la filosofia naturale, fondata sull’esperienza e sull’osservazione. Il suo merito è di avere esercitata una seria influenza intellettuale tra’ suoi concittadini e di aver fondato sotto nome di accademia una vera scuola filosofica. Come Machiavelli, così egli non segue altro che l’osservazione e la natura: poichè la sapienza umana è arrivata alla più alta cima che possa afferrare, se ha osservato quello che si presenta ai sensi, e ciò che può esser dedotto per analogia dalle percezioni sensibili. Sincero, modesto, d’ingegno non grande, ma di grandissima giustezza di mente e di sano criterio, fu benemerito meno per le sue dottrine, che per il metodo ed il linguaggio. E in verità la grande e utile novità era allora il metodo. Il suo maggiore elogio lo ha fatto Campanella in queste parole: Telesius in scribendo stylum vere philosophicum solus servat, juxta verum naturam sermones significantes condens, facitque hominem potius sapientem quam loquacem. L’obbiettivo era sciogliere il pensiero dalla servitù di Aristotile, tiranno degl’ingegni, e metterlo in diretta comunicazione con la natura, rifarlo libero, ciò che con una precisione uguale alla concisione dice Campanella nel suo famoso sonetto a Telesio:

     Telesio, il telo della tua faretra
Uccide de’ Sofisti in mezzo al campo
Degl’ingegni il Tiranno senza scampo:
Libertà dolce alla verità impetra.

[p. 264 modifica]L’impresa non era lieve. Resistevano tutte le dotte mediocrità, tutto quel complesso di uomini e d’istituzioni che l’Aretino chiamava la pedanteria, i Polinnii di Bruno spalleggiati da francescani, domenicani e gesuiti, e spesso l’ultimo argomento era il rogo, il carcere, l’esilio. Dir cose nuove era delitto non solo alla Chiesa, ma a’ principi venuti in sospetto di ogni novità nelle scuole: pure la fede di un rinnovamento era universale, e Renovabitur fu il motto del Montano, discepolo di Telesio, nel compendio che scrisse della sua dottrina. Si era fino allora pensato col capo d’altri. Gli uomini volevano ora pensare col capo loro. Questo era il movimento. E fu così irresistibile, che la novità usciva anche da’ segreti del Convento. Fu là che si formò ne’ forti studii libera e ribelle l’anima di Bruno. E là, in un piccolo convento di Calabria, si educava a libertà l’ingegno di Tommaso Campanella. Assai presto oltrepassò gli studii delle scuole, e, fatto maestro di sè, lesse avidamente e disordinatamente tutti que’ libri che gli vennero alle mani. Nella solitudine si fa presto ad esser dotto. Ivi il giovine raccolse immensi materiali in tutto lo scibile. Il suo idolo era Telesio, il gran novatore; il suo odio era Aristotile con tutto il suo seguito, e, come Bruno, preferiva gli antichi filosofi greci, massime Pitagora. Venuto in Cosenza, i suoi frati, che già conoscevano l’uomo, non vollero permettergli di udire, nè di veder Telesio ciò che infiammò il desiderio e l’amore. Il giorno che Telesio morì, fu visto in chiesa accanto alla bara il giovine frate, che dovea continuarlo. I Cosentini, sentendolo nelle dispute, dicevano che in lui era passato lo spirito di Telesio. La scuola Telesiana o riformatrice, come era detta, gli fu tutta intorno, il Bombino, il Montano, il Gaieta, da lui celebrati insieme col maestro. Il suo primo lavoro fu una difesa di Telesio contro il napoletano Marta. Venuto a Napoli per la stampa [p. 265 modifica]dell’opera, attirò l’attenzione per il suo ardore nelle dispute, per l’agilità e la presenza dello spirito, per la franchezza delle opinioni, o per l’immenso sapere. E gl’invidiosi dicevano: come sa di lettere costui, che mai non le imparò? E recavano a magia, a cabala, a scienza occulta ciò che era frutto di studii solitarii. Le opinioni telesiane poco attecchivano in Napoli, onde il buon Telesio avea dovuto andar via per le molte inimicizie. Anche il Porta ci stava a disagio, e dovea con le commedie far perdonare alla sua filosofia. Naturalmente, si strinse un legame tra Campanella e l’autore della magia naturale e della fisonomia. Disputavano, leggevano, conferivano i loro lavori. Frutto di questa dimestichezza fu il libro De sensu rerum, a cui successe l’altro: De investigatione. Ivi si stabilisce per qual via si giunga a ragionare col solo senso e colle cose che si conoscono pe’ sensi: ciò che è il metodo sperimentale, base della filosofia naturale. Ci si vede l’influenza di Telesio, di Porta e di tutta la scuola riformatrice.

Porta potè esser tollerato a Napoli, perchè era non solo gentiluomo e assai riverito, ma uomo di spirito, e amabilissimo. Ma Campanella non sapea vivere, come dicevano i suoi emuli. Era tutto di un pezzo, e alla naturale, veemente, rozzo, audace di pensiero e di parola. E venne in uggia a moltissimi, e anche ai suoi frati, che non gli potevano perdonare l’odio contro Aristotile. Come Bruno, lasciò il Convento, e indi a non molto Napoli, e con in capo già una nuova metafisica tutta abbozzata fu a Roma, poi a Firenze, dove il destino faceva incontrare i due grandi ingegni di quel tempo, Campanella e Galilei.

Michelangiolo moriva, e tre giorni prima, il 15 febbraio del 1564, nasceva in Pisa Galileo Galilei. Tutto gli rise nel principio, levato maraviglioso grido di sè per le sue invenzioni della misura del tempo per mezzo [p. 266 modifica]del pendolo, del termometro, del compasso geometrico, del telescopio. Con questo potente istrumento iniziò le sue speculazioni astronomiche, che rinnovavano il cielo biblico e tolemaico. Parecchi fatti, divinati da Bruno, acquistavano certezza, come ciò che si vede e si tocca. Il suo Nunzio sidereo appariva così maraviglioso, come il viaggio di Colombo. Le montuosità della Luna, le fasi di Venere e di Marte, le macchie del Sole, i satelliti di Giove, erano tali scoperte a breve distanza, che spoltrivano gli animi oziosamente cullati ne’ romanzi e nelle oscenità letterarie. La filosofia naturale vinceva oramai le ultime resistenze nella pubblica opinione. Non si trattava più d’ipotesi e di astratti ragionamenti. I fatti erano là, e parlavano più alto che i sillogismi dei teologi e degli scolastici. La cosa effettuale di Machiavelli, il lume naturale di Bruno, il metodo sperimentale di Telesio, la libertà dolce alla verità di Campanella avevano il loro riscontro nelle belle parole di Galilei: «Ah viltà inaudita d’ingegni servili, farsi spontaneamente mancipio»! Il buon Simplicio, il pedante aristotelico, come Polinnio, risponde: «Ma, quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta nella filosofia?» E Galileo replica pacatamente: «I ciechi solamente hanno bisogno di guida. Ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta.» Il lume soprannaturale, la scienza occulta, il mistero, il miracolo scompariva innanzi allo splendore di questo lume naturale dell’occhio e della mente, la magia, l’astrologia, l’alchimia, la cabala sembravano povere cose innanzi ai miracoli del telescopio. Colombo e Galileo ti davano nuova terra e nuovo cielo. Sulle rovine delle scienze occulte sorgevano l’astronomia, la geografia, la geometria, la fisica, l’ottica, la meccanica, l’anatomia. E tutto questo era la filosofia naturale, il naturalismo. La filosofia, diceva Galileo, è scritta nel libro [p. 267 modifica]grandissimo della Natura. E stupendamente diceva Campanella:

«Il mondo è il libro, dove il Senno eterno
Scrisse proprii concetti.»

Campanella nacque il 1568, quattro anni dopo Galileo. Si videro a Firenze, Galileo già famoso, in grazia della Corte, professore, con un concetto dell’universo e della scienza chiaro, intero, ben circoscritto. Campanella, oscuro, conscio del suo ingegno, di concetti molti e arditi e smisurati, in aria di avventuriere che cerchi fortuna, più che di un savio tranquillo e riposata nella scienza. Cercò una cattedra. Chi è costui? E il Gran Duca chiese le informazioni al Generale di san Domenico, il quale rispose: «Alquanto differente relazione tengo io del Padre fra Tommaso Campanella, di quella è stata fatta a Vostra Altezza. Io farò prova del valore e sufficienza sua.» Le raccomandazioni di Galileo non valsero contro l’ira domenicana. Campanella non riuscì, e la ragione è detta da Baccio Valori. «Procurandosi oggi in Roma per alcuni proibire la filosofia del Telesio, con colore che la pregiudichi alla Teologia scolastica fondata in Aristotile da lui così riprovato, corre qualche risico anche Tommaso Campanella della medesima scuola, e per avventura il più terribile per eccellenza de’ suoi concetti, che veramente sono e alti e nuovi.» Campanella aveva allora ventiquattro anni. L’indomabile giovine si vendicò, scrivendo una nuova difesa di Telesio. Aveva già scritto un trattato De sphera Aristarchi, dove sostiene l’opinione copernicana del moto della terra. Vagheggiava una Scienza universale, col titolo: De Universitate rerum, che diventò più tardi la sua Philosophia realis. A lui dovea parere molto modesto Galileo, che lasciava da banda teologia e metafisica ed ogni costruzione universale, contento ad esplorar la natura [p. 268 modifica]ne’ suoi particolari. E gli scriveva: «Invero non si può filosofare, senza un vero accertato sistema della costruzione de’ mondi, quale da lei aspettiamo: e già tutte le cose sono poste in dubbio, tanto che non sapemo se il parlare è parlare.» Domandava egli a Galileo una riforma dell’astronomia e della matematica sublime, una vera filosofia naturale. «Scriva pel primo, diceva, che questa filosofia è d’Italia da Filolao e Timeo in parte, e che Copernico la rubò da’ predetti e dal ferrarese suo maestro: perchè è gran vergogna che ci vincan le nazioni che noi avemo di selvagge fatte domestiche.» Ma Galileo rimase fermo nella sua via. Anche lui aveva i suoi pensieri e le sue ipotesi; ma gli parea che il vero filosofo naturale dovesse lasciare il verisimile, e attenersi a ciò che è incontrastabilmente vero. E rispondea a Campanella, «ch’ei non volea per alcun modo con cento e più proposizioni apparenti delle cose naturali screditare e perdere il vanto di dieci o dodici sole da lui ritrovate, e che sapeva per dimostrazione esser vere.» Stavano a fronte la saviezza fiorentina, e l’immaginazione napoletana, o, per dir meglio, due culture, la cultura toscana, già chiusa in sè e matura, e veramente positiva, e la cultura meridionale, ancor giovane e speculativa, e in tutta l’impazienza e l’abbondanza della giovanezza. In Galileo si sente Machiavelli. E in Campanella si sente Bruno. Vedi la differenza anche nello scrivere. Chi legge le lettere, i trattati, i dialoghi di Galileo, vi trova subito l’impronta della cultura toscana nella sua maturità, uno stile tutto cosa e tutto pensiero, scevro di ogni pretensione e di ogni maniera, in quella forma diretta e propria, in che è l’ultima perfezione della prosa. Usa i modi servili del tempo senza servilità, anzi tra’ suoi baciamano penetra un’aria di dignità e di semplicità, che lo tiene alto su’ suoi protettori. Non cerca eleganza, nè vezzi, severo e schietto, come uomo [p. 269 modifica]intento alla sostanza delle cose, e incurante di ogni lenocinio. Ma se cansa le esagerazioni e gli artificii letterarii, non ha la forza di rinnovare quella forma convenzionale, divenuta modello. Avvolto in quel fraseggiare d’uso, frondoso e monotono, trovi concetti nuovi e arditi in una forma petrificata dall’abitudine, pure eletta, castigata, perspicua, di un perfetto buon gusto. Al contrario in Bruno e in Campanella la forma è scorretta, rozza, disuguale, senza fisonomia; ma ne’ suoi balzi e nelle sue disuguaglianze, viva, mobile, nata dalle cose. Ivi ti par di avere innanzi un bel lago, anzi che acqua corrente, non una formazione organica e conforme al contenuto, ma una forma già fissata innanzi e riprodotta, spesso priva di movimenti interni, sola esteriorità; qui vedi una lingua ancora mobile e in formazione, con elementi già nuovi e moderni. Alcune pagine di Bruno sembrano scritte oggi.

Ma saviezza fiorentina e immaginazione napoletana erano del pari sospette a Chiesa e Spagna. Il libro della Natura era libro proibito, e chi vi leggeva, era eretico o ateo. Prima ci capitò Campanella. Fu a Venezia, a Padova, a Bologna, a Roma, co’ suoi manoscritti appresso, e scrivendo sempre per sè e per altri, in verso e in prosa, in latino e in italiano, trattati, orazioni, discorsi, dispute. A Bologna gli furono rubati i manoscritti. E che importa? Rifaceva, rinnovava, con una vena inesauribile. Venuto in sospetto a Roma, torna a Napoli, e va a prender fiato a Stilo sua patria. Ivi sperava riposo; «ma accadde a me quello che dice Salomone: quando l’uomo avrà finito, allora comincerà; quando riposerà, sarà affaticato». Ivi cominciarono i suoi guai. Avvolto in una cospirazione, fu come reo di maestà condotto nelle prigioni di Napoli. Chiarito innocente di una accusa, se ne suscitava un’altra, perchè «gl’iniqui non cercavano il delitto, ma farmi comparir delinquente. [p. 270 modifica]«Come sai tu le lettere, se non le imparasti mai? Forse hai addosso il demonio. «Ma io, rispose il prigioniero, ho consumato più d’olio che voi di vino». Lo si fece autore del libro De tribus impostoribus, Mose, Christo et Mahumed, stampato trent’anni prima ch’ei nascesse. Fu detto che voleva fondar la repubblica con l’aiuto de’ Turchi, e che era un eretico, e aveva dottrina pericolosa, e non credeva a Dio. Invano scrisse Della monarchia, e l’Ateismo vinto, e la Disputa antiluterana. Fu condannato da Roma e da Spagna, ribelle ed eretico, e tenuto in prigione ventisette anni, sottoposto alla tortura sette volte. «Mi fur rotte le vene e le arterie; e il cruciato dell’eculeo mi lacerò le ossa, e la terra bevve dieci libbre del mio sangue: risanato dopo sei mesi, in una fossa fui seppellito, ove non è nè luce, nè aria, ma fetore e umidità e freddo perpetuo.» Dopo dodici anni di tali martirii fa questo triste inventario de’ suoi mali:

Sei e sei anni che in pena dispenso
     L’afflizion d’ogni senso,
     Le membra sette volte tormentate
     Le bestemmie e le favole de’ sciocchi,
     Il sol negato agli occhi,
     I nervi stratti, l’ossa scontinuate,
     Le polpe lacerate,
     I guai dove mi corco,
     Li ferri, il sangue sparso e il timor crudo
     E il cibo poco e sporco.
     

Fra tanti tormenti scriveva, scriveva sempre, versi e prose.

I tempi si facevano più scuri. Copernico era uomo piissimo, chiuso ne’ suoi studi matematici, era un matematico, non un filosofo, dicea Bruno, che di quel sistema avea saputo fare un così terribile uso col suo ingegno libero e speculativo. Il sistema era presentato [p. 271 modifica]come una pura ipotesi e spiegazione de’ fenomeni celesti e naturali, e i filosofi avevano sempre cura di aggiungere: Salva la fede. Così il libro di Copernico, dedicato a Paolo III, fu tenuto innocuo per ottanta anni. Ma la sua dottrina si diffondeva celeremente, propugnata da Bruno, da Campanella, da Galileo e da Cartesio, che si preparava a farne una dimostrazione matematica. Il libro di Copernico parve allora cosa eretica, e fu condannato, essendo cosa più facile scomunicare che confutare. Cartesio pose a dormire la sua dimostrazione. Il povero Galileo, processato e torturato, dovette confessare che Terra stat et in aeternum stabit, ancorchè la sua coscienza rispondesse: Eppur si muove. E la sua scrittura sulla mobilità della terra mandò al Gran Duca con queste parole, ritratto de’ tempi: «Perchè io so quanto convenga obbedire e credere alle determinazioni de’ superiori, come quelli che sono scorti da più alte cognizioni, alle quali la bassezza del mio ingegno per sè stesso non arriva, reputo questa presente scrittura che gli mando, come quella che è fondata sulla mobilità della terra, ovvero che è uno degli argomenti che io produceva in sostegno di essa mobilità, la reputo, dico, come una poesia, ovvero un sogno, e per tale la riceva l’Altezza Vostra». Altrove la chiama una chimera, un capriccio matematico, e nasconde la verità, come fosse un delitto o una vergogna. Di quest’accusa e di questo processo giunse notizia a Tommaso Campanella, e fra’ tormenti del carcere scrisse l’apologia di Galileo.

Galileo fu lasciato vivere solitario in Arcetri, già rifugio del Guicciardini, dove i dispiaceri e le malattie prima gli tolsero la vista e poi la vita. Morì nel 1642, l’anno stesso che nacque Newton. L’anno dopo Torricelli, suo allievo, trovava il barometro. Tre anni prima [p. 272 modifica]moriva Campanella in Francia dov’erasi rifuggito, e dove potè pubblicare la sua filosofia.

A Galileo chiusero gli occhi i discepoli. Le sue scoperte ed osservazioni diedero un impulso straordinario alle scienze, e formarono attorno a lui una scuola di filosofi naturali, Castelli, Cavalieri, Torricelli, Borelli, Viviani, illustri non solo per valore scientifico, ma per bontà di scrivere. Veniva il mondo, di cui erano stati precursori incompresi e perseguitati Alberto Magno e Ruggiero Bacone, Galileo ripigliava la bandiera con miglior fortuna. E l’Italia, maestra di Europa nelle lettere e nelle arti, aveva ancora il primato nelle scienze positive, o, come dicevasi, nella filosofia naturale. Qui venivano ad imparare gli stranieri; qui Copernico imparava il moto della terra, e qui imparava Harvey la circolazione del sangue. Qui sorgeva l’accademia del Cimento, dove provando e riprovando si studiava la natura. Geografia, astronomia, anatomia, medicina, botanica, ottica, meccanica, geometria, algebra ebbero qui i loro primi cultori e propagatori. Tra gli scrittori giova mentovare Francesco Redi, in cui fa la sua ultima comparsa il toscano, già finito e chiuso in sè, e Lorenzo Magalotti, di una limpidezza già vicina alla forma moderna.

Altro fu il fato del Campanella. Come Bruno, è un naturalista, e crede che la filosofia non si possa fondare che sui fatti. Onde Galileo tirava questa conseguenza, che dunque bisognava prima studiare i fatti. In tanta scarsezza di fatti naturali, morali, sociali ed economici, in tante lacune delle scienze positive filosofare significava foggiarsi un mondo a modo degli antichi filosofi greci, con l’immaginazione divinatrice, ed avere per risultato l’ipotetico e il probabile, anzi che il certo e il vero. Questo, pensava Galileo, non è scienza. Pure è chiaro che una certa idea del mondo l’avevano anche [p. 273 modifica]i filosofi naturali, e che quel medesimo porre le fondamenta della scienza sull'osservazione, e tagliarne fuori le credenze e le fantasie, era già mettere in vista un mondo metafisico tutto nuovo, il naturalismo, la Natura fatta centro di gravità dello scibile a spese del Dio astratto, o, per parlare secondo quei tempi, Dio fatto visibile e conoscibile nella Natura, un Dio intimo e vivo. Questo era il significato stesso di quel movimento che tirava gli spiriti dalle astrazioni scolastiche alla investigazione de' fatti naturali; e Bruno e Campanella non fecero che dare a quel movimento la sua coscienza metafisica e fondarvi sopra tutta una filosofia. Se necessario fu Galileo, non fu meno necessario Bruno e Campanella. Un nuovo mondo si formava, una nuova filosofia era in vista all'orizzonte con lineamenti abbozzati appena e vacillanti. Era quella sintesi poetica e provvisoria, preludio della scienza, il presentimento e la divinazione dell'ultima sintesi, risultato di una lunga analisi e corona della scienza. Quella prima sintesi te la dànno Bruno e Campanella, appassionatissimi degli antichi filosofi greci, a cui rassomigliavano.

È una sintesi inorganica e contraddittoria. E la contraddizione è ancora più accentuata in Campanella che in Bruno. Trovi in lui scienze occulte e scienze positive, soprannaturale e naturale, medio evo e rinascimento, tradizione e ribellione, assolutismo e libertà, cattolicismo e razionalismo, e mentre combatte, come Bruno, le credenze e le fantasie, nessuno più di lui dommatizza e fantastica. Pongono in opera tutto quel materiale che hanno innanzi, mancando ancora quel lavoro di eliminazione e di analisi, senza il quale è impossibile la composizione. Hanno fede nell'ingegno, e si mettono all'opera con l'ardore di una speciale vocazione, si sentono attirati da una forza fatale verso quelle alte regioni, verso l'infinito o il divino a rischio di perdervisi. [p. 274 modifica]Ciò che ispira a Bruno o all’anonimo autore questo sublime sonetto:

     Poi che spiegate ho l’ali al bel desio,
Quanto più sotto al piè l’aria mi scorgo,
Più le veloci penne all’aria porgo,
4E spregio il mondo e verso il ciel m’invio.
     Nè del figliuol di Dedalo il fin rio
Fa che giù pieghi, anzi via più risorgo;
Ch’io cadrò morto a terra, ben m’accorgo;
8Ma qual vita pareggia al viver mio?
     La voce del mio cor per l’aria sento:
Ove mi porti, temerario? China,
11Chè raro è senza duol troppo ardimento.
     Non temer, rispond’io, l’alta ruina,
Fendi sicur le nubi, e muor contento,
14Se il ciel sì illustre morte ne destina.

Anche Campanella è poeta, e si sente la stessa vocazione. Si chiama luce tra l’universale ignoranza, fabbro di un mondo nuovo, Prometeo che rapisce il fuoco sacro a Giove:

Con vanni in terra oppressi al ciel men volo
In mesta carne d’animo giocondo;
E se talor m’abbassa il grave pondo,
L’ale pur m’alzan sopra il duro suolo.

Campanella avea vivo il sentimento di un mondo nuovo che si andava formando, e ci vedea in fondo, ultimo termine, una rediviva età dell’oro, l’attuazione del divino sulla terra, il regno di Dio, invocato nel paternostro, quel mondo della pace e della giustizia, appresso al quale sospirava Dante e molti nobili intelletti. Bruno rimane nelle generalità metafisiche. Campanella abbraccia l’universo nelle sue più varie apparizioni, e ti delinea tutto quel mondo ideale, di cui spera l’effettuazione. [p. 275 modifica]Nel suo sistema trovi complicati e combinati senza intima fusione tutti gl’indirizzi percorsi dalla moderna filosofia. Il punto di partenza è la coscienza di sè, io che penso sono, divenuto la base del sistema cartesiano. Questa è la sola cognizione innata, occulta; tutto il resto è cognizione acquisita per mezzo de’ sensi. Qui si sviluppa il sensismo di Telesio non solo come metodo, ma come contenuto. Tutte le cose sono animate; il mondo stesso è animal grande e perfetto. In ciascuna cosa è la divina trinità, i tre principii o primalità, com’egli dice, potenza, sapienza e amore. Ciascuna cosa che è, può essere, ama il suo essere, e lo ama perchè lo conosce, ne ha una certa notizia. Perciò tutte le cose hanno senso. Lo spirito stesso è carne. L’animale pensa come l’uomo; ha fino la facoltà dell’universale. Ci si vede in germe Locke e tutto il sensismo moderno. Ma ci è una facoltà propria dell’uomo, e negata all’animale, il sentimento religioso. Perciò, quando il corpo è formato, vi entra l’anima, che esce fanciulla dalle mani di Dio, come dice Dante. L’anima è la facoltà del divino, o, come si direbbe oggi, dell’assoluto. Ella ti dà la contemplazione di Dio. Non è ragione o dialettica questa facoltà dell’assoluto, e nemmeno discorso o processo intellettivo, ciò che entra nella Mente o visione di Bruno, ma è intuito, estasi, fede, un ponte fatto alla rivelazione e alla teologia, uno studio di conciliazione tra il medio evo e il mondo moderno. Qui vedi spuntare la moderna filosofia dell’assoluto nel suo doppio indirizzo, razionalista e neo-cattolico. Tutte le idee e tutti gl’indirizzi che anche oggi agitano le coscienze, fermentano nel suo cervello.

Come Bruno, Campanella non ha il senso del reale e del naturale; e neppure ha il senso psicologico, ancorchè parli spesso di coscienza e di esperienza e le faccia basi del suo filosofare. Aveva al contrario quella seconda [p. 276 modifica]vista propria degli uomini superiori, facoltà da lui non scrutata, non compresa e non disciplinata, ch’egli confonde con l’estasi e col puro intuito, e che lo gitta in braccio alla teologia, al soprannaturale e alle scienze occulte. Cerca una conciliazione tra’ due uomini che pugnavano in lui, l’uomo di Telesio e l’uomo di san Tommaso, e vi logora le sue forze, senza riuscire ad altro che a mettere in maggior lume la contraddizione. Perciò il suo metodo rimane scolastico, cumulo di argomenti astratti, e la sua filosofia partendo da Telesio riesce a san Tommaso. Attendendo da Galileo la costruzione del mondo, provvisoriamente crede all’astrologia e alla magia, e oggi gli spiritisti e i magnetisti lo chiamano loro precursore.

Nelle applicazioni hai lo stesso uomo. Il mondo è atto della volontà di Dio, atto conforme al disegno o all’idea del mondo preordinato nella sua mente, perciò conforme alla ragione. Dio dunque governa il mondo, e per esso il Papa che lo rappresenta in terra, e il cui braccio è l’Imperatore. Qui siamo con san Tommasso nel più puro medio evo, ancora più indietro di Dante e di Machiavelli, perchè l’elemento laico è sottoposto all’ecclesiastico. E si concepisce come il nostro filosofo se la prenda fra tutti col Machiavelli, uomo senz’alcuna specie di scienza e di filosofia, semplice storico o empirico, che voleva fare della religione uno strumento dello Stato. Ma Campanella non si accorge ch’egli è più Machiavelli del Machiavelli, perchè nessuno ha spinto così avanti l’annichilamento dell’individuo e l’onnipotenza dello Stato nella sua doppia forma, ecclesiastica e laica. In quel tempo che la monarchia assoluta si sviluppava nella Spagna e nella Francia col favore e l’appoggio del Papato, egli era la voce dell’assolutismo europeo, e ci mettea una sola condizione, che quell’assolutismo fosse il potere esecutivo del Papa, il braccio del Papato. Hai il [p. 277 modifica]vecchio quadro del medio evo, con tinte ancora più decise. Egli dice a Filippo: I Re sieno tuoi sudditi, e la terra sia tua, a patto che tu sii veramente il Cattolico, primo suddito della Chiesa. Questa è la carta di alleanza fra il trono e l’altare. L’Italia ha perduto l’imperio del mondo, nè ci si può più pensare, perchè il passato non torna più; ma l’Italia si consolerà, perchè ha nel suo seno il Papato, e per esso dominerà ancora il mondo. Che cosa è l’individuo in questo sistema? Nulla. Egli ha doveri, non ha dritti. Non ha il dritto di scegliersi la sua donna, di crearsi la sua proprietà, di educare ed istruire la sua prole, di mangiare, di dormire, di vivere a suo gusto, di esaminare, discutere, accettare o rigettare: non può dire: Questo è mio; e non può dire: No. Il dritto è nella società, e per essa nel Papa e nell’Imperatore. Hai per risultato il comunismo, l’assolutismo della società e l’ubbidienza passiva dell’individuo. Il comunismo è in fondo a tutte queste teorie di monarchia universale e assoluta, di dritto divino, e Campanella va sino in fondo. Il che sempre avviene quando l’unità è posta fuori dell’umanità in una volontà a lei estrinseca, e quando l’unità rimane astratta, e tiene non in sè, ma dirimpetto a sè il vario e il molteplice. In questa unità va a naufragare ogni particolare, l’individuo, la famiglia, la nazione. Or questa è la filosofia sua, questa è la sua Città del sole, la sua rediviva età dell’oro. Il quadro è vecchio, ma lo spirito è nuovo. Perchè Campanella è un riformatore, vuole il Papa Sovrano, ma vuole che il Sovrano sia Ragione non solo di nome ma di fatto, perchè la Ragione governa il mondo, Dio è il Senno eterno; il Sovrano dee essere anche lui il Sapientissimo di tutti. Non è Re chi regge, ma chi più sa. Il vero Sovrano è la Scienza. E l’obbiettivo della scienza è il progresso e il miglioramento dell’uomo. Si maraviglia, come si studii a migliorare la razza cavallina o [p. 278 modifica]bovina, e si lasci al caso e al capriccio individuale la razza umana. Egli ha fede nel miglioramento non solo morale, ma fisico dell’uomo, per mezzo della scienza, applicata da un governo intelligente e paterno. E suggerisce provvedimenti sociali, politici, etici, economici, che sono un primo schizzo di scienza sociale nelle sue varie diramazioni ancora confuse, guidato da una rettitudine e buon senso naturale, con uno sguardo delle cose non nella loro degenerazione, come fecero Aristotile e Machiavelli, ma nella loro origine e purezza natia, come fecero Platone e gli Stoici. E balzan fuori idee, utopie, ipotesi, speranze, aforismi, che sono in parte veri presentimenti e divinazioni del mondo nuovo.

Con tanta novità in capo la società in mezzo a cui si trovava non gli dovea parere una bella cosa. Accetta le istituzioni, ma a patto che le si trasformino e diventino istrumento di rigenerazione. Vuole un papato ed un monarcato progressista; ed è chiaro che a Filippo di Spagna poco garbasse trar di prigione un così pericoloso alleato, un nuovo Marchese di Posa.

Accanto alla sua ricostruzione ci è dunque un elemento negativo, una critica della società, com’era costituita. Il suo punto di mira sono sofisti, ipocriti e tiranni, come contraffattori e falsificatori delle tre primalità, sapienza, amore e potenza, di tre dive eminenze falsatori:

     Io nacqui a debellar tre mali estremi,
Tirannide, sofismi, ipocrisia:

Che nel cieco amor proprio, figlio degno
D’ignoranza, radice e fomento hanno:
Dunque a diveller l’ignoranza io vegno.

Dal qual concetto nasce un magnifico sonetto sulla storia del mondo, foggiata dall’amor proprio: [p. 279 modifica]

    Credulo il proprio amor fe’ l’uom pensare
Non aver gli elementi nè le stelle
(Benchè fusser di noi più forti e belle)
4Senso ed amor, ma sol per noi girare:
    Poi tutte genti barbare ed ignare,
Fuor che la nostra, e Dio non mirar quelle:
Poi il restringemmo a quei di nostre celle;
8Sè solo al fine ognun venne ad amare.
    E per non travagliarsi il saper schiva;
Poi visto il mondo a’ suoi voti diverso,
11Nega la provvidenza o che Dio viva.
    Qui stima senno le astuzie; e perverso,
Per dominar fra nuovi Dei, poi arriva
14A predicarsi autor dell’universo.

Se tutt’i mali sono frutto dell’ignoranza, si comprende il suo entusiasmo per la scienza e per la sua missione. Il Savio è invitto, perchè vince, anche se tu l’uccidi:

     S’ei vive, perdi, e s’ei muore, esce un lampo
Di Deità dal corpo per te scisso,
Che le tenebre tue non han più scampo.

I guai più spandono suo nome e gloria, e ucciso è adorato per santo; nè è sventura ch’ei sia nato di vil progenie e patria; perchè illustra egli le sue sorti. Più è calpesto e più s’innalza:

E il fuoco più soffiato, più s’accende:
Poi vola in alto e di stelle s’infiora.

La sua vita è antica quanto il mondo:

     Ben sei mila anni in tutto il mondo io vissi:
Fede ne fan le istorie delle genti,
Ch’io manifesto agli uomini presenti
Co’ libri filosofici ch’io scrissi.

Il mondo è un teatro, dove le anime mascherate de’ corpi:

[p. 280 modifica]

Di scena in scena van, di coro in coro,
Si veston di letizia e di martoro,
Dal comico fatal libro ordinate.

In questa commedia universale l’uomo spesso segue più il caso che la ragione:

Chè gli empii spesso fur canonizzati,
Li santi uccisi, ed i peggior tra noi
Principi finti contro i veri armati.

Principi veri sono i savii:

Neron fu re per sorte in apparenza,
Socrate, per natura in veritate.
Non nasce l’uom con la corona in testa,
Come il re delle bestie...

E se non fossero i savii, che sarebbe il mondo?

     Se a’ lupi i savii, che il mondo riprende,
Fosser d’accordo, ei tutto bestia fora.

La vera nobiltà nasce non dal sangue e non dalla ricchezza:

     In noi dal senno e dal valor riceve
Esser la nobiltade, e frutta e cresce
Col bene oprare.

Il savio è re, è nobile; il savio è libero. La plebe è serva per la sua ignoranza:

     Il popolo è una bestia varia e grossa,
Che ignora le sue forze...
     Tutto è suo, quanto sta fra cielo e terra
Ma nol conosce; e se qualche persona
Di ciò l’avvisa, e’ l’uccide ed atterra.

Quest’apoteosi della scienza è congiunta con un vivo sentimento del Divino, anzi la scienza non è che il Divino, il Senno eterno, che comunica alla Natura i suoi [p. 281 modifica]attributi o primalità, la potenza, la sapienza e la bontà, della quale segno esteriore è la bellezza. Tale era la Natura nell’età dell’oro, e tale ritornerà:

     Se fu nel mondo l’aurea età felice,
Ben essere potrà più che una volta;
Chè si ravviva ogni cosa sepolta,
Tornando il giro ov’ebbe la radice.
     Se in fatti di mio e tuo sia il mondo privo
Nell’util, nel giocondo e nell’onesto,
Cangiarsi in paradiso il veggo e scrivo;
     E il cieco amore in occhiuto e modesto,
L’astuzia ed ignoranza in saper vivo,
E in fratellanza l’imperio funesto.

Base dell’età dell’oro è la fratellanza e uguaglianza umana, l’amor comune sostituito all’amor proprio:

     Chi all’amor del comun padre ascende,
Tutti gli uomini stima per fratelli,
E con Dio di lor beni gioia prende.
     Buon Francesco, che i pesci anche e gli uccelli
Frati appella; oh beato chi ciò intende!

È ciò che direbbesi oggi democrazia cristiana, un ritorno alla chiesa primitiva di Lino e di Calisto, a’ puri tempi evangelici, vagheggiati da Dante e da Campanella, quando si mangiava in carità, e non ci era ricco nè povero, non mio e tuo. Avvezzo a guardare le cose nella loro origine e non nella loro degenerazione, il sogno di Campanella è che il mondo nel suo giro torni là ov’ebbe radice. Il progresso è la ristaurazione del buon tempo antico. Bruno spregia l’età dell’oro, stato d’innocenza, alla quale contrappone la virtù. Innocenza è ignoranza, virtù è sapienza. Ed è sapienza non infusa e comunicata dal di fuori, ma prodotto della libera attività individuale. In questo sistema la libertà è sostanziale; l’ideale è il progresso per mezzo della libertà. In questi due grandi [p. 282 modifica]Italiani spuntano già le due vie dello spirito moderno, vedi il razionalista e il neo-cattolico. L’uno volge le spalle al passato, l’altro cerca di trasformarlo e farsene leva per il progresso.

Attendendo l’età dell’oro, Campanella vede il mondo nella sua degenerazione, grazie a’ tiranni, a’ sofisti e agl’ipocriti. Tra’ sofisti pone i poeti, seminatori di menzogne:

     In superbia il valor, la santitate
Passò in ipocrisia, le gentilezze
In cerimonie, e il senno in sottigliezze,
L’amor in zelo e in liscio la beltate.
     Mercè vostra, poeti, che cantate
Finti eroi, infami ardor, bugie e sciocchezze,
Non le virtù, gli arcani e le grandezze
Di Dio, come facea la prisca etate.

Altrove li rampogna che, in luogo di cantare Colombo e gli alti fatti moderni, stieno impaludati nelle favole antiche. Nè gli è caro che sciupino l’ingegno in argomenti futili. Bellezza è segno del bene, bella ogni cosa è dove serve e quando, e brutta dov’è inutile, o mal serve, e più s’annoia:

Il bianco che del nero è ognor più bello,
Più brutto è nel capello;
Pur bello appar, se prudenza rassembra:
Belle in Socrate son le strane membra,
Note d’ingegno nuovo; ma in Aglauro
Sarian laide; e negli occhi il color giallo,
Di morbo indicio, e brutto, è bel nell’auro,
Ch’ivi dinota finezza e non fallo.

Ci s’intravvede la nuova critica, che richiama gli spiriti dalle forme alle sostanze, dalle parole alle cose, dal di fuori al di dentro. Di che esempio è lui stesso, che scrive cose nuove e alte nel più assoluto disprezzo della [p. 283 modifica]forma. La sua poesia nervosa, rilevata, succosa e insieme rozza e aspra è l’antitesi di quella letteratura vuota, sofistica, e leziosa, venuta su col Marini.

Campanella scrisse infiniti volumi, e de omnibus rebus. Nessuna parte dello scibile gli è ignota, scienze occulte e naturali, teologia, metafisica, astronomia, fisica, fisiologia. È un primo schizzo di enciclopedia, un primo albero della scienza. Dovunque fissa lo sguardo, vede o intravede cose nuove. Notabile è soprattutto l’interesse che prende per l’educazione e il ben’essere del popolo. La scienza fino allora è stata aristocratica, religiosa e politica, rimasta nelle alte cime, più intenta al meccanismo sociale che al miglioramento dell’uomo. In lui si vede accentuata questa tendenza, che i mutamenti politici sono vani, se non hanno per base l’istruzione e la felicità delle classi più numerose. A questo scopo si riferiscono i suoi più bei concetti: la riforma delle imposte, sì che non gravassero principalmente sugli artigiani e i villani, toccando appena i cittadini o borghesi, e niente i nobili; l’imposta sul lusso e su’ piaceri; i ricoveri per gl’invalidi, gli asili per le figliuole de’ soldati; i prestiti gratuiti a’ poveri sopra pegni, le banche popolari, gli impieghi accessibili a tutti, un codice uniforme, l’uniformità delle monete, l’incoraggiamento delle industrie nazionali, più proficue che le miniere. Lasciare le discussioni astratte, le sottigliezze teologiche, malattia del tempo, e volgersi alla storia, alla geografia, allo studio del reale per migliorare le condizioni sociali, questa è l’ultima parola di Campanella. La prima opera del filosofo, egli dice, è comporre la storia dei fatti. Ci è già la nuova società che si andava formando sulle rovine del regime feudale. Ci è tutto un rinnovamento sociale, accompagnato, quanto a’ suoi procedimenti, da questo motto profondo: che i moti umani durevoli son fatti prima dalla lingua e poi dalla spada; o, in [p. 284 modifica]altri termini, che la forza non può fondare niente di durevole, quando non sia preceduta e accompagnata dal pensiero.

Ugual soffio spirava da Venezia. Centro già di lettere e di coltura con Pietro Bembo, ora diveniva il centro italiano del libero pensiero. Celebre era la scuola materialista di Padova. La stessa indipendenza si sviluppava in materia politica. Di là all’Italia serva giungevano i liberi accenti di Paolo Paruta. Dal Machiavelli in poi pullulavano scritti politici sotto i nomi di Tesoro politico, Principe regnante, Segretario, Chiave del Gabinetto, Ambasciatore, Ragion di stato, guazzabuglio di luoghi comuni e di erudizione indigesta. I fatti più tristi vi sono giustificati, la notte di San Bartolomeo, e le stragi del Duca d’Alba. Il che non toglie che tutti non se la prendano col Machiavelli, accusandolo e insieme rubandogli i concetti. Fra gli altri è degno di nota il Botero nella sua Ragion di stato, dove combatte il Machiavelli, e segue i suoi precetti, applicandoli contro i novatori e gli eretici. Quel libro è il codice de’ conservatori. A lui sembra che tutto sta benissimo come sta; e che non rimane che a prender guardia contro le novità: bonum est sic esse. Nacque nel 1500, lo stesso anno che nasceva Paolo Paruta, il più vicino di spirito e di senno a Nicolò Machiavelli. Mentre l’Italia sonnacchiava tra l’assolutismo papale e spagnuolo, e si fondavano in Europa le monarchie assolute, lo storico veneto scriveva che «tolta la libertà, ogni altro bene è per nulla, anzi la stessa virtù si rimane oziosa e di poco pregio»; che il vero monarca è la legge; e che «chi commette il governo della città alla legge, lo raccomanda ad un Dio; chi lo dà in mano all’uomo, lo lascia in potere di una fiera bestia». Nascere e vivere in città libera, è per lui l’ideale della felicità. Ne’ suoi Discorsi politici trovi il successore di Machiavelli e il precursore di Montesquieu, [p. 285 modifica]il senso pratico veneziano e l’acume fiorentino. Il sentimento politico era in lui contrastato dal sentimento religioso. Il dispotismo papale e spagnuolo, base della restaurazione cattolica, parevagli minaccioso alla libertà veneziana, e non guardava senza speranza nel moto germanico, dove gli pareva di trovare il contrappeso. La contraddizione era più profonda nella sua intelligenza, dove ragione e fede contendevano senza possibilità di conciliazione. Nel suo Soliloquio s’intravedono quegli strazii interiori, che amareggiarono ancora i primi anni del Tasso. La qual contraddizione non risoluta lo tiene in una certa mezzanità di spirito, e gli toglie quella fisonomia di originalità e di sicurezza, propria degli uomini nuovi. Non altre erano le condizioni morali dello spirito veneto in quel tempo di transizioni. Erano buoni cattolici, ma gelosi della loro libertà, avversi alla Curia e sopratutto a’ gesuiti, già temuti per la loro abile ingerenza nelle faccende politiche, nè erano disposti a tener vangelo tutte le massime della Chiesa, specialmente in fatto di disciplina. Con queste disposizioni gli animi doveano essere accessibili alle dottrine della Riforma, nè senza speranza i Luterani aveano scelto Venezia come loro base di operazione per la diffusione dello scisma in Italia. Sorsero molti opuscoli e trattati in favore e contro; nè le dispute religiose poterono esser frenate dall’Inquisizione, che in città così difficile procedea mite e rispettiva. Alle contensioni religiose si mescolavano contenzioni di giurisdizione tra il governo e il Papa, per le quali non dubitò Paolo V di fulminare l’interdetto su tutta la città, che sortì un effetto contrario al suo intento, rese ancora più viva e più tenace la lotta.

Il personaggio, intorno a cui si raccoglie tutto questo movimento, è Paolo Sarpi, l’amico di Galileo e di Giambattista Porta, e della stessa scuola. Teologo, filosofo e canonista sommo, non era meno versato nelle discipline [p. 286 modifica]naturali, fisica, astronomia, architettura, geometria, algebra, meccanica, anatomia; a lui si attribuisce la scoperta della circolazione del sangue. Mescolato nella vita attiva, non specula, come Bruno e Campanella, e non inventa, come il Galileo, ma scende nella lotta tutto armato, e mette le sue cognizioni in servigio del suo patriottismo. Sceglie le sue armi con la sagacia dell’uomo politico, anzi che con la passione del filosofo e del riformatore; perchè il suo scopo non è puramente filosofico o scientifico, ma è pratico, indirizzato a raggiungere certi effetti. Mira a interessare nella lotta i principi, come facevano i protestanti, sostenendo la loro indipendenza verso il potere ecclesiastico. Continuando Dante e Machiavelli, nega al Papa ogni potestà su’ principi, e vuole al contrario ricondurre i chierici sotto il dritto comune, non altrimenti che semplici cittadini. Emancipare lo Stato, secolarizzarlo, assicurargli la sua libertà dirimpetto alla Corte di Roma, questo era un terreno comune, dove spesso s’incontravano principi e riformatori. Paolo Sarpi ebbe il buon senso di mantenervisi, con una chiarezza e fermezza di scopo assai rara in scrittore italiano. D’ingegno sveltissimo e di amplissima coltura, non lascia tralucere delle sue idee se non quello solo che può avere un effetto pratico a quel tempo e in quella società, usando una moderazione di concetti e di forme più terribile che non l’aperta violenza. Taglia nel vivo con un’aria d’ingenuità e di semplicità, come chi ti faccia una carezza. Cinque volte si tentò di ammazzarlo; e all’ultima, colpito dal ferro assassino, esclamò: Conosco lo stile della romana curia.

La sua Storia del Concilio di Trento è il lavoro più serio che siasi allora fatto in Italia. Quel concilio era la base della restaurazione cattolica, o piuttosto, reazione, e delle pretese della Corte romana. Vi fu consacrato il potere assoluto del papa e la sua [p. 287 modifica]supremazia sul potere laicale. Ivi aveano radice i diritti giurisdizionali, che curia e gesuiti cercavano di far valere negli Stati, concitando contro di sè non solo i protestanti, ma i principi cattolici. Era il medio evo rammodernato nella superficie, di apparenze più corrette e meno rozze. Scrivere la storia di quel Concilio, e dimostrare la sua mondanità, cioè a dire i fini, le passioni e gl’interessi mondani, che resero possibili quei decreti, e prevalenti le opinioni estreme e violente, era un attaccare il male nella sua base. A questa impresa si accinse il Sarpi. E se la passione politica fosse in lui soprabbondata, tirandolo a violenza d’idee e di espressioni, e a volontarie alterazioni e mutilazioni di fatti, il suo scopo sarebbe mancato. La sua forza è nella sua moderazione e nella sua sincerità. Nè questo egli fa solo per sagacia di uomo politico, ma per naturale probità e per serietà di storico e letterato. La storia nelle sue mani non è solo un istrumento politico; è un sacro ufficio, che egli non sa prostituire alle passioni contemporanee, e al quale si prepara con ogni maniera di studi e d’investigazioni. E qui è l’interesse di questo libro. Ha voluto scrivere una storia imparziale con sincerità e gravità di storico, e riesce parzialissimo, perchè l’uomo con le sue passioni, con le sue simpatie e antipatie, co’ suoi fini politici, con le sue opinioni traspare da ogni parte e si fa valere. La parzialità non è volontaria, e non è nella materialità dei fatti, ma è nello spirito nuovo che vi penetra, non solo nella sua generalità dottrinale, ma nelle sue più concrete determinazioni politiche ed etiche. Non ci è autorità che tenga; Sarpi studia tutto, sente tutti; ma decide lui. L’autorità legittima è nella sua ragione. Il suo ideale è la chiesa primitiva e evangelica, sgombra di ogni temporalità, e non di altro sollecita che d’interessi spirituali. Condanna soprattutto la gerarchia, nata di ambizione papale e d’ignoranza de’ principi. Nè per [p. 288 modifica]questo frà Paolo si crede men cattolico del Papa, anzi è lui che vuole una vera restaurazione cattolica, riconducendo la religione nella prisca sincerità e bontà, e rendendo possibile quella conciliazione fra tutte le confessioni, che dovea essere procurata, e fu impedita dal Concilio. Perciò chiama il Concilio l’Iliade del secolo per i mali effetti che ne uscirono, e la sua opera giudica non una riforma, ma una difformazione. Qual era la riforma da lui desiderata, traspare da’ concetti che attribuisce a quel buon papa di Adriano VI, uomo germano, e per tanto sincero, che non trattava con arti e per fini occulti, il quale confessava il male esser nato dagli abusi e dalle usurpazioni della monarchia romana: e prometteva piena riforma, quando anche avesse dovuto ridursi senza alcun dominio temporale, e anco alla vita apostolica.

Grande è in questo libro l’armonia tra il contenuto e la forma. Il concetto fondamentale del contenuto è questo, che come la verità è nella sostanza delle cose non nei loro accidenti e apparenze, così la religione ha la sua essenza nella bontà delle opere, e non nella osservanza delle forme o nelle concessioni e grazie pontificie, e parimente non è la diligente narrazione de’ peccati ma il proposito di mutar vita, che assicura efficacia alla confessione. Questo è lo stesso concetto dello spirito nuovo, che già adulto dalla moltiplicità delle forme e degli accidenti saliva all’unità e alla sostanza delle cose. È lo spirito che animava Machiavelli, Bruno, Campanella e Galileo e Sarpi, e che in questa storia penetra anche nella forma letteraria. Perchè qui la forma non è niente per sè e non è altro che la cosa stessa, liberata da ogni elemento fantastico e rettorico, è il positivo e il reale proprio l’opposto della letteratura in voga. Il Pallavicino, che per commissione della Curia scrisse una Storia del Concilio in confutazione di questa, dice: Il fuoco [p. 289 modifica]delle ribellioni non si smorza se non o col gielo del terrore o con la pioggia del sangue. Dice cosa gravissima con lo spirito distratto dalla forma, cercando metafore. Qui la forma non è espressione, ma ostacolo; nè da questi lisci può venire la grave impressione che pur dee fare sullo spirito un pensiero così feroce, base dell’inquisizione. Sarpi fa dire il medesimo a papa Adriano; nella forma vi penetra una energia e una precisione di colorito, che ti rende la cosa nella sua crudeltà e insieme nella sua ragionevolezza. Ci è la cosa come sentimento e come idea. «Se non potranno con le dolcezze, dice Adriano a’ principi tedeschi, ridur Martino e i suoi seguaci nella dritta via, vengano ai rimedii aspri e di fuoco, per risecare dal corpo i membri morti». Si vede nel Pallavicino la vanità della forma nella indifferenza del contenuto; si vede nel Sarpi l’importanza del contenuto nella indifferenza della forma, una forma che è il contenuto stesso nel suo significato e nella sua impressione. Trovi in lui una elevatezza d’ingegno, che gli fa spregiare i lenocinii e gli artifizii letterarii, una viva preoccupazione delle cose, una chiarezza intellettiva accompagnata con un vigore straordinario d’analisi, e quel senso della misura e del reale che lo tiene sempre nel vivo e nel vero. Aggiungi l’assoluta padronanza della materia, la conoscenza de’ più intimi secreti del cuore umano, la chiara intuizione del suo secolo e della società in mezzo a cui viveva ne’ suoi umori, nelle sue tendenze e ne’ suoi interessi, e si può comprendere come sia venuta fuori una prosa così seria e così positiva. L’attenzione volta al di dentro, e non curante della superficie ti forma una ossatura solida, una viva logica, maravigliosa per precisione e rilievo, ma scabra e ruvida. Manca a questa prosa quell’ultima finitezza, che viene dalla grazia, dalla eleganza, dalle qualità musicali. È il difetto della sua qualità più spiccata in lui, non toscano e con l’orecchio [p. 290 modifica]educato più alla gravità latina che alla sveltezza del dialetto natio.

Machiavelli, Bruno, Campanella, Galileo, Sarpi non erano esseri solitarii. Erano il risultato de’ tempi nuovi, gli astri maggiori, intorno a cui si movevano schiere di uomini liberi, animati dallo stesso spirito. Cosa volevano? Cercare l’essere dietro il parere, come dicea Machiavelli; cercare lo spirito attraverso alle forme, come dicea la Riforma; cercare il reale e il positivo, e non ne’ libri, ma nello studio diretto delle cose, come dicea Galileo; o, come diceano Bruno e Campanella, cercare l’uno attraverso il molteplice, cercare il divino nella natura. Sono formole diverse di uno stesso concetto. Riformati e filosofi nelle loro tendenze s’incontravano su di un terreno comune. Camminavano con disugual passo; molti erano innanzi troppo; altri restavano a mezza via; ma per tutti la via era quella. Volevano squarciar le forme addensate dalla superstizione e dalla fantasia e fatte venerabili, e guardare le cose svelate nella loro sostanza o realtà, guardarle col proprio sguardo, col lume naturale. La lotta contro Aristotile e gli scolastici, contro le forme e le dottrine ecclesiastiche, contro le intrusioni umane nella Chiesa, contro i simboli, le fantasie, i dogmi, il soprannaturale, era il lato negativo di questo movimento. Lato positivo era il reale, come metodo e come contenuto: l’uomo e la natura studiati direttamente dall’intelletto, prendendo per base l’esperienza e l’osservazione. Paolo Sarpi trasportava la lotta dalle generalità filosofiche in mezzo agl’interessi, dove potea aver favorevoli i principi e i popoli: perciò fu più temuto, ed ebbe più influenza.

Se la ristaurazione cattolica fosse stata vera e ragionevole restaurazione, cioè a dire conciliazione, come volea il Sarpi, e come fantasticava il Campanella, si sarebbe assimilato il nuovo in ciò che era pratico e [p. 291 modifica]compatibile. Ma la storia non si fa co’ se, nè col senno di poi. Il movimento era ancora nella sua forma istintiva, nel suo stato violento e contraddittorio. D’altra parte la Chiesa più che da sentimenti e convinzioni religiose era mossa da interessi mondani e da passioni politiche. Perciò la restaurazione si chiarì un’aperta reazione. Nessuno di queste condizioni morbose ha avuto una intelligenza più chiara, che Paolo Sarpi. Ecco alcuni brani delle sue pitture: «Le pene canoniche erano andate in disuso, perchè, mancato il fervore antico, non si potevano più sopportare... il presente secolo non era simile a’ passati, nei quali tutte le deliberazioni della Chiesa erano ricevute, senza pensarci più oltre, laddove nel presente ognuno vuol farsi giudice ed esaminar le ragioni... il rimedio è appropriato al male, ma supera le forze del corpo infermo, ed in luogo di guarirlo sarebbe per condurlo a morte; e pensando di riacquistar la Germania, farebbe perdere l’Italia ed alienare quella maggiormente». Così parlava il cardinale Pucci, per dissuadere Adriano VI che voleva a forza di pene canoniche sradicare le idee nuove, e ricondurre l’aureo secolo della Chiesa primitiva, nel quale i prelati avevano assoluto governo sopra i fedeli, non per altro se non perchè erano tenuti in continuo esercizio colle penitenze; dove ne’ tempi che corrono, fatti oziosi, vogliono scuotersi dall’ubbidienza. Del qual parere era anche il cardinale frà Tommaso da Gaeta, a cui il Sarpi fa dire: «Il popolo germanico, che sepolto nell’ozio presta orecchio a Martino che predica la libertà cristiana, se fosse con penitenza tenuto in freno, non penserebbe a questa novità». Oltre a questo rimedio delle penitenze il buono Adriano voleva una seria riforma, quando anche dovesse lasciare il potere temporale. Ma contro gli ragiona il cardinale Soderino in questo modo: «Non esservi speranza di confondere ed estirpare i luterani [p. 292 modifica]colla correzione de’ costumi della Corte; anzi questo essere un mezzo di aumentare a loro molto più il credito. Imperocchè la plebe, che sempre giudica dagli eventi, quando per l’emenda seguita resterà certificata che con ragione il governo pontificio era ripreso in qualche parte, si persuaderà facilmente che anco le altre novità proposte abbiano buoni fondamenti. In tutte le cose umane avviene che il ricevere soddisfazione in alcune richieste dà pretensione di procacciarne altre e di stimare che sieno dovute. Nissuna cosa far perire un governo maggiormente, che il mutare i modi di reggerlo; l’aprire vie nuove e non usate essere un esporsi a gravi pericoli, e sicurissima cosa essere camminare per li vestigi dei santi pontefici. Nissuno avere mai estinto l’eresie con le riforme, ma con le crociate e con eccitare i prencipi e popoli all’estirpazione di quelle». Quel bravo cardinale ammette che ci è del cattivo; ma non bisogna toccarvi, per non dar ragione agli avversarii. E all’ultimo riserba il più prezioso, la ragione più efficace: «Nissuna riforma potersi fare, la quale non diminuisca notabilmente l’entrate ecclesiastiche: le quali avendo quattro fonti, uno temporale, le rendite dello Stato ecclesiastico, gli altri spirituali, le indulgenze, le dispense e la collazione de’ beneficii, non si può otturare alcuno di questi che l’entrate non restino troncate in un quarto». Adriano conchiuse che farebbe le riforme passo a passo: il qual sistema moderato non piacque a’ tedeschi, i quali rispondevano motteggiando che da un passo all’altro sarebbe corso un secolo. Si può immaginare quale impressione dovessero fare su’ contemporanei queste rivelazioni di Paolo Sarpi, che metteva in tanta evidenza i motivi mondani e politici della ristaurazione cattolica.

La quale, essendo aperta reazione, fondavasi sopra idee e tendenze affatto opposte alle altre. Questi proclamavano l’indipendenza e la forza della ragione, quelli [p. 293 modifica]la sua incompetenza e la sua debolezza. Questi celebravano la coltura e la scienza, quelli stavano con la pura fede, co’ poveri di spirito e con i semplici di cuore. Gli uni si fondavano sull’esperienza e sull’osservazione; gli altri sulla rivelazione e sull’autorità di Aristotile, degli Scolastici, de’ Santi Padri e de’ Dottori. Gli uni facevano centro de’ loro studi la natura e l’uomo; gli altri sottilizzavano sugli attributi di Dio, sulla predestinazione e sulla grazia. Gli uni volevano togliere alla Chiesa ogni temporalità, e semplicizzare le forme ed il culto; gli altri volevano mantenere inviolate tutte le forme, anche le assurde e le grottesche, e non che rinunziare al temporale, ma volevano dilatare la loro ingerenza e il loro dominio, prendendo a base il potere assoluto del Papa e la sua supremazia anche nelle cose temporali. Fin d’allora valse il motto: aut sint ut sunt, aut non sint: o vivere così, o morire.

Questa reazione così cieca sarebbe durata poco, se non fosse stata sorretta dalla tenace abilità de’ gesuiti, la milizia del papa. I quali, doma l’aperta ribellione co’ terrori dell’inquisizione, vollero guadagnare alla restaurazione anche le volontà e le coscienze, mostrando in questo assunto una conoscenza degli uomini e del secolo e un’arte di governo, che li resero degni continuatori della politica medicea. Persuasi che governa il mondo chi più sa, coltivarono gli studi e si sforzarono di mantenere il primato del Clero nella coltura. Non potendo estirpare in tutto il nuovo, accettarono la superficie, e vestirono la società a nuovo per meglio conservare il vecchio. Presero dunque aria di uomini colti e liberali, scossero da sè la polvere scolastica, e per meglio vincere il laicato presero nei modi e nei tratti apparenze più laicali che fratesche, confidandosi di abbatterlo con le sue armi. Divenuti amici e protettori dei letterati e fautori della coltura, apersero scuole e [p. 294 modifica]convitti, e presero nelle loro mani l’istruzione e l’educazione pubblica. Non mancarono i teatrini, le commedie, le accademie, altre imitazioni degli usi laicali. La superficie era la stessa, lo spirito era diverso. Perchè, dove gli uomini nuovi miravano a tirare l’attenzione dal di fuori al di dentro, dagli accidenti e dagli accessorii al sostanziale, dalle forme allo spirito, essi miravano a coltivare la memoria, ad allettare i sensi e l’immaginazione più che l’intelletto, a trattenere l’attenzione sulla superficie, sì che l’intelligenza fra tante cognizioni empiriche rimaneva passiva e vuota: onde usciva una coltura mezzana e superficiale, più simile ad erudizione che a scienza. Al che si accomodava facilmente la tempra fiacca dei più, contenti di quello spolvero, che dava loro un’aria di nuovo, l’aria del secolo, e così a buon mercato. I gesuiti vennero in moda, sfogandosi i mali umori del secolo sopra gli altri ordini religiosi, come restii ad ogni novità. Il loro successo fu grande, perchè in luogo di alzare gli uomini alla scienza, abbassarono la scienza agli uomini, lasciando le plebi nell’ignoranza e le altre classi in quella mezza istruzione, che è peggiore dell’ignoranza. Parimente, non potendo alzare gli uomini alla purità del Vangelo, abbassarono il Vangelo alla fiacchezza degli uomini, e costruirono una morale a uso del secolo, piena di scappatoie, di casi, di distinzioni, un compromesso tra la coscienza e il vizio, o, come si disse, una doppia coscienza. E nacque la dottrina del probabilismo, secondo la quale un doctor gravis rende probabile un’opinione, e l’opinione probabile basta alla giustificazione di qualsiasi azione, nè può un confessore ricusarsi di assolvere chi abbia operato secondo un’opinione probabile. Un giudice, dice un dottore, può decidere la causa a favore dell’amico, seguendo un’opinione probabile, ancorchè contraria alla sua coscienza. Un medico, dice un altro dottore, può [p. 295 modifica]con lo stesso criterio dare una medicina, ancorchè egli opini che farà danno. Richiedono sola cautela che non ci sia scandalo, e non già perchè la cosa sia in sè cattiva, ma per il pregiudizio che ne può venire.

Questa morale rilassata era favorita da un’altra teoria, directio intentionis, formulata a questo modo, che un’azione cattiva sia lecita quando il fine sia lecito. È la massima che il fine giustifica i mezzi, applicata non solo alle azioni politiche, ma alla vita privata. Non è peccato annegare in un fiume un fanciullo eretico, per battezzarlo. Uccidi il corpo, ma salvi l’anima. Non è peccato uccidere la donna, che ti ha venduto l’onore, quando puoi temere che svelando il fatto noccia alla tua riputazione.

E all’ultimo viene la dottrina reservatio et restrictio mentalis. Il giuramento non ti lega, se tu usi parole a doppio senso, rimanendo a te l’interpretazione, o se aggiungi a bassa voce qualche parola che ne muti il senso. Non è bugia, dice un dottore, usare parole doppie che tu prendi in un senso, ancorchè gli altri le prendano in un senso opposto. E non è bugia dire una cosa falsa, quando nel tuo pensiero intendi altro. Hai ammazzato il padre; pure puoi dire francamente: non l’ho ammazzato, quando dentro di te pensi a un altro che realmente non hai ammazzato, o ci aggiungi qualche riserva mentale, come: prima ch’egli nascesse, non l’ammazzai di certo. Questa scaltrezza, aggiunge il dottore, è di grande utilità, porgendoti modo di nascondere senza bugia quello che hai a nascondere.

Vedi quante scappatoie! e ce n’era per tutt’i casi. In quell’arsenale trovi, come puoi senza peccato non andare talora a messa o spendervi poco tempo, o durante la messa conversare, o andando a messa guardare le donne con desiderii amorosi. Se vuoi rimanere in buon concetto presso il tuo confessore, scegli un altro, [p. 296 modifica]quando abbi commesso qualche peccato grave. E se ti pesa il dirlo, usa parole doppie, o fa una confessione generale per gittarlo così alla rinfusa nella moltitudine de’ peccati vecchi.

Ciascuno immagina, con quella facile scienza, con quella più facile morale, che seguito e che favore dovettero avere i gesuiti, maestri, confessori, predicatori, missionarii, scrittori, uomini di mondo e di chiesa. Seppero conoscere il secolo, e lo dominarono. E mantennero il dominio con l’energia e la logica della loro volontà. Salirono a tanta potenza che ingelosirono i principi, e posero talora in sospetto anche i papi. Prendendo a base l’ubbidienza passiva, di modo che l’uomo dirimpetto al suo superiore fosse perinde ac cadaver, stabilirono la monarchia assoluta. Ma volevano che il papa dominasse i principi, e volevano loro dominare il papa.

I principi si difendevano, offendendo, e cercando fino un sostegno nelle idee nuove. Così Paolo Sarpi difendeva la libertà di Venezia. La lotta era disuguale, perchè alle armi spirituali era scemata la riputazione, e i principi avevano guadagnata tutta quella forza, ch’era mancata a’ feudi ed a’ comuni. I gesuiti allora, non trasandando le armi puramente ecclesiastiche, operarono principalmente come un corpo politico, e seppero maneggiare le armi mondane con una tenacità uguale alla destrezza. Presero aria di democratici, e cercarono forza ne’ popoli contro i principi. Fin dal 1562 Lainez, il secondo generale de’ gesuiti, sosteneva nel Concilio di Trento che la Chiesa ha le sue leggi da Dio, ma la società ha il dritto di scegliersi essa il suo governo. Il cardinale Bellarmino sostiene che il potere politico è da Dio; ma il dritto divino è non ne’ singoli uomini, ma nella intera società, non ci essendo nessuna buona ragione che uno o molti debbano comandare agli altri; che monarchia, aristocrazia, repubblica sono forme che derivano dalla [p. 297 modifica]natura dell’uomo; e che perciò, quando ci è alcuna legittima ragione, può il popolo mutare la sua forma di governo, come fecero i romani. Ecco già spuntare la sovranità del popolo, e il dritto dell’insurrezione. Mariana vuole la monarchia, ma a patto che ubbidisca al consiglio de’ migliori cittadini raccolti in Senato. Era spagnuolo, e scriveva sotto Filippo III, che tenea Campanella nelle prigioni di Napoli. Non ammette il dritto ereditario, nato dalla troppa possanza de’ Re e dalla servilità de’ popoli, e causa di tanti mali, non ci essendo niente più mostruoso che commettere le sorti di un popolo a fanciulli ancora in culla e al capriccio di una donna. Re che offende i dritti de’ popoli e disprezza la religione è come una bestia feroce, e ciascuno gli può mettere le mani addosso. I dritti di successione non possono esser mutati che col consenso del popolo; perchè dal popolo viene il dritto della signoria. Il Re ha il suo potere dal popolo; perciò non è signore dello Stato o de’ singoli individui, ma un primo magistrato, pagato da’ cittadini. Il Re non può da solo porre le tasse, fare leggi, scegliersi il successore; perchè le son cose che interessano non solo il Re, ma anche il popolo. Il Re è sottoposto alle leggi, e quando le viola, il popolo ha il dritto di deporlo e punirlo con la morte. Queste erano le risposte che davano a’ principi i Gesuiti. Ma erano armi a doppio taglio. Perchè si potea loro rispondere che se il dritto di signoria è non ne’ singoli individui, ma nella universalità de’ cittadini, quel dritto nelle faccende ecclesiastiche è non nel Papa, ma nella Chiesa o universalità dei fedeli, e per essa nel Concilio, che può perciò deporre e anche punire il Papa. Che cosa diveniva allora il loro Papa, il Vicario di Dio? Essi erano repubblicani dirimpetto allo Stato, ed assolutisti dirimpetto alla Chiesa. E, per dire la verità, si mostravano repubblicani per [p. 298 modifica]meglio dominare i principi, ed erano assolutisti per avere tutto il potere nelle loro mani. Nè voglio dir già che i loro scrittori erano di mala fede, anzi moltissimi erano sinceri, credenti e patrioti, primo fra tutti Mariana. Parlo de’ capi, più uomini politici che uomini di fede.

Dicono che corruppero e infiacchirono i popoli. Il che è così poco giusto, come dire che Marino corruppe il gusto. Furono effetto e causa. Furono il cattolicismo rammodernato, accomodato possibilmente ai nuovi tempi per meglio conservarlo nella sua sostanza; furono l’intelletto che succede alla fede e all’immaginazione, e si affida più nell’arte del governo che nelle passioni e nella violenza, l’intelletto spinto sino alla sua ultima depravazione, sofistico e seicentistico; nacquero da quello stesso spirito, che portò sulla scena del mondo Machiavelli. Perciò furono un progresso, un naturale portato della storia. La loro responsabilità è questa, che, trovando nel secolo fiacchezza e ignoranza, non lavorarono a combatterla per migliorare l’uomo, anzi la favorirono e se ne fecero piedistallo. Torto di tutte le reazioni. Vollero una coltura con licenza de’ superiori, e stretta in pochi. E quando la coltura, rotte le dighe, si diffuse, finì il loro regno.

La diffusione della coltura era visibile in Italia. E non parlo solo delle scienze esatte e naturali, dove i gesuiti si mostrarono valentissimi, seguendo anche loro la via aperta da Galileo, ma pur delle scienze storiche e sociali. L’abbondanza dell’oro per la scoperta dell’America e la crisi monetaria diè occasione a’ primi scritti di Economia, il Discorso sopra le monete e la vera proporzione fra l’oro e l’argento di Gaspare Baruffi, che propugnava, come Campanella, l’uniformità monetaria; e il trattato sulle Cause che possono fare abbondare i regni di oro e d’argento di Antonio Serra di Cosenza, scritto alla Vicaria, dove l’Autore, come [p. 299 modifica]complice di Campanella, era tenuto prigione. Moltiplicarono i trattati di giurisprudenza, massime nella seconda metà del secolo. Alberico gentile nel suo libro De iure belli fa già presentire Grozio, e gli è vicino per forza speculativa Alessandro Turamini, che scrisse De Pandectis. Tra gl’interpreti del dritto romano sono degni di nota l’Alciato, l’Averani, il Farinaccio, il Fabbro. Fondatori della storia del dritto furono il gran Carlo Sigonio, come lo chiama Vico, e il Panciroli maestro del Tasso.

Pubblicarono lavori non dispregevoli di cronologia lo Allacci, il Riccioli, il Vecchietti. Comparivano storie venete, napolitane, piemontesi, pisane, il Nani, il Garzoni, il Summonte, il Capecelatro, il Tesauro, il Ranieri, cronache più che storie, volgari di sentimento e di stile. In Roma naturalmente si sviluppava l’archeologia. Il Fabbretti di Urbino scrivea degli acquidotti romani e della colonna traiana, e pubblicava in otto serie quattrocento trenta iscrizioni dottamente illustrate. Moltiplicavano le compilazioni, le raccolte, come sussidio agli studiosi. Il Zilioli scrisse l’ Indice di tutt’i libri di dritto pontificio e cesareo, e il Villetti in ventotto volumi il Trattato iuris universi. Avevi già annali, giornali, biblioteche, cataloghi e simili mezzi di diffusione. Vittorio Siri aveva pubblicato il Mercurio politico e le Memorie recondite, l’Avogadro il Mercurio veridico. Il Nazzari cominciò a Roma nel 1668 il Giornale de’ Letterati, e il Cinelli pubblicava la Biblioteca volante, una specie di storia letteraria. Comparivano gli Annali del Baronio, le Vite de’ Papi e Cardinali del Ciacconio, la Storia generale de’ Concilii di Monsignor Battaglini, la Storia delle eresie del Bernini, la Napoli Sacra di Cesare Caracciolo e la Sicilia sacra del Pirro, liste e notizie di Vescovi, la Miscellanea italica erudita del Padre Roberti, la Biblioteca selecta e l’Apparatus sacer [p. 300 modifica]del gesuita Possevino; il Mappamondo storico del padre Foresti, continuato da Apostolo Zeno, un primo tentativo di storia universale. Aggiungi relazioni come la descrizione della Moscovia del Possevino, i viaggi del Carreri napolitano, che nel 1698 compì a piedi il giro del mondo, la Relazione dello Zani bolognese, che fu in Moscovia, le lettere del Negri da Ravenna che giunse fino al Capo Nord, la descrizione delle Indie del fiorentino Sassetti, che primo diè notizia della lingua sanscrita. Si conoscea meglio il mondo, e meglio i popoli stranieri. Pietro Maffei da Bergamo scrivea in elegante latino delle Indie orientali, il Folletti ferrarese della lega di Smalcalda, il Bentivoglio in lingua artificiata e falsamente elegante delle guerre di Fiandra, il Davila con semplicità trascurata delle guerre civili di Francia, il padre Strada prolissamente delle cose belgiche. A questa coltura empirica e di mera erudizione partecipavano tutti, laici e chierici, uomini nuovi e uomini vecchi, e i gesuiti vi si mostravano operosissimi; si pensava poco, ma s’imparava molto e da molti. La coltura guadagnava di estensione, ma perdeva di profondità.

Chi avesse allora guardata l’Italia con occhio plebeo, potea dirla una terra felice. Rivoluzione e guerra aveano abbandonate le sue contrade: piena pace, tranquilli gli spiriti, in riposo il cervello. Le piccole cose vi erano avvenimenti; l’Inghilterra avea Cromwell, ella avea Masaniello. L’Europa camminava senza di lei e fuori di lei, tra guerre e rivoluzioni nelle quali si elaborava e si accelerava la nuova civiltà. Lei giaceva beata in quel dolce ozio idillico, che era il sospiro e la musa de’ suoi poeti. Dalle guerre di Alemagna usciva la libertà di coscienza, dalle rivoluzioni inglesi usciva la libertà politica, dalle guerre civili di Francia usciva la potente unità francese e il secolo d’oro, la monarchia di Carlo V e di Filippo II si andava ad infrangere contro la piccola [p. 301 modifica]nazionalità olandese. L’Italia assisteva a questi grandi avvenimenti senza comprenderli. Davila e Bentivoglio ci pescavano intrighi e fattarelli curiosi, la parte teatrale. E sì che tra quegli avvenimenti ci erano pure grandi attori italiani, Caterina de’ Medici, Mazzarino, Eugenio di Savoia, Montecuccoli, il cui trattato della guerra è una delle opere più serie scritte a quel tempo. Si combatteva non solo con la spada, ma con la penna: le quistioni più astratte interessavano ed infiammavano le moltitudini; dagli attriti scintillavano nuovi problemi e nuove soluzioni; era una generale fermentazione d’idee e di cose. Ciò che fermentava nel cervello solitario di Bruno e di Campanella, fluttuante, contraddittorio, lì era pensiero, stimolato dalla passione, affinato dalla lotta, pronto all’applicazione, in un gran teatro, fra tanta eco, con una chiarezza e precisione di contorni, come fosse già cosa. Questa chiarezza è già intera in Bacone e in Cartesio, dove il mondo moderno si scioglie da tutti gli elementi scolastici e mistici, da tutti i preconcetti, e si afferma in forme nette e recise. Perciò Galileo, Bacone, Cartesio sono i veri padri del mondo moderno, la coscienza della nuova scienza. Il metodo, che Galilei applicava alle scienze naturali, diviene nelle mani di Bacone il metodo universale e assoluto, la via della verità in tutte le sue applicazioni: l’induzione caccia via il sillogismo e l’esperienza mette in fuga il soprannaturale. Cartesio col suo De omnibus dubitandum riassume il lato negativo del nuovo movimento, togliendo ogni valore all’autorità e alla tradizione; e col suo Cogito, ergo sum, pone la prima pietra alla costruzione dell’edificio, inizia l’affermazione. Come la Riforma, così Cartesio pone a fondamento della coscienza il senso individuale; e come Galileo stabilisce il mondo naturale su’ fatti, così egli stabilisce il mondo metafisico su di un fatto, io penso. All’esperienza esterna si aggiunge [p. 302 modifica]l'esperienza interna, l’analisi psicologica. L’Ente, ch’era il primo filosofico, qui è un prodotto della coscienza, un ergo. L’evidenza innanzi a’ sensi e innanzi alla coscienza, il senso interno, e il criterio della verità. Cartesio, che era un matematico, introduce nella filosofia la forma geometrica, credendo che in virtù della forma entrasse nel mondo metafisico quella evidenza ch’era nel mondo matematico. Era un’illusione, il cui benefizio fu di cacciar via definitivamente le forme scolastiche e aprire la strada a quella forma naturale di discorso di cui Machiavelli avea dato esempio, ed egli medesimo nel suo ammirabile Metodo. Queste idee non erano nuove in Italia, anzi erano volgari a tutti gli uomini nuovi; ma naufragate in vaste sintesi immature e senza eco rimanevano sterili. Qui le vedi a posto, staccate, rilevate formulate con chiarezza ed energia, e parvero una rivelazione. D’altra parte Cartesio ebbe cura di non rompere con la fede, e di accentuare la natura spirituale dell’anima e la sua distinzione del corpo, base della dottrina cristiana, sì che dicea parergli meno sicura l’esistenza del corpo, che quella dello spirito; oltre a ciò con le sue idee innate lasciava aperto un varco alla teologia e al soprannaturale. Così egli ti dava la prima filosofia nuova che sembrasse conciliabile con la religione, in un tempo che per l’infanzia della critica e della coscienza non era facile pesare tutte le sue conseguenze. Perciò, come la Riforma religiosa, la sua Riforma filosofica ebbe un gran successo; perchè le riforme efficaci son quelle che prendono una forma meno lontana dal passato e dallo stato reale degli spiriti. Aggiungi la sua superficialità, l’estrema chiarezza, la forma accessibile, quel presentar poche idee e nette innanzi alle moltitudini, si rivelava già lo spirito francese volgarizzatore e popolare. La conseguenza naturale della Riforma era questa, che l’uomo rientrava in grembo della natura, [p. 303 modifica]diveniva una parte della storia naturale. Posto che la filosofia ha la sua base nella coscienza, lo studio della coscienza o de’ fatti psicologici diveniva la condizione preliminare di ogni metafisica, come lo studio della natura diveniva l’antecedente di ogni cosmologia. Il mondo usciva dalle astrazioni degli universali ed entrava in uno studio serio dell’uomo e della natura, nello studio del reale. Per questa via modesta e concludente si era messo Galileo; di là uscivano i grandi progressi delle scienze positive. Cartesio applicava alla metafisica gli stessi procedimenti della filosofia naturale, togliendola di mezzo al soprannaturale, al fantastico, all’ipotetico, e dandole una base sicura nell’esperienza e nell’osservazione. Ma i fatti psicologici erano ancora troppo scarsi e superficiali, perchè ne potesse uscire una soluzione de’ problemi metafisici, e l’Europa era ancora troppo giovane, troppo impregnata di teologia e di metafisica, di misteri e di forze occulte, perchè potesse aver la pazienza di studiare i dati de’ problemi prima di accingersi a risolverli. Le idee innate e i vortici di Cartesio, la visione di Dio di Malebranche, la sostanza unica di Spinosa, l’armonia prestabilita di Leibnizio erano teodicee ipotetiche e provvisorie, che appagavano il pensiero moderno abbandonato a sè stesso, e attestavano il suo vigore speculativo. Ma l’impulso era dato, e fra quelle immaginazioni progrediva la storia naturale dell’intelletto umano, la scienza dell’uomo. Le meditazioni di Cartesio, i meravigliosi capitoli di Malebranche sull’immaginazione e sulle passioni, i Pensieri di Pascal, dove l’uomo in presenza di sè stesso si sente ancora un enigma, preludevano al Saggio sull’Intelletto umano di Giovanni Loke, l’erede di Bacone, di una grandezza eguale alla sua modestia. Ivi la riforma cartesiana aveva la sua ultima espressione, il suo punto di fermata; ivi la filosofia trovava il suo Galileo, realizzava l’ideale del suo [p. 304 modifica]Risorgimento, al quale fra molti ostacoli tendevano gli uomini nuovi, acquistava la sua base positiva, fondata sull’esperienza e sull’osservazione, sulla cosa effettuale, come dicea Machiavelli, e col lume naturale, come dicea Bruno, con la scorta dell’occhio del corpo e della mente, come dicea Galileo, e leggendo nel libro della natura, come dicea Campanella. Cadevano insieme forme scolastiche e forme geometriche; la filosofia usciva dal suo tempo eroico ed entrava nella sua età umana; agli oracoli dottrinali succedevano forme popolari, e vi si affinavano le moderne lingue. La semplicità, la chiarezza, l’ordine, la naturalezza divenivano le qualità essenziali della forma, e n’era un primo e stupendo esempio il Saggio di Locke. Così la filosofia nella sua linea divergente dalla teologia giungeva sino all’opposto, dal soprannaturale e dal soprasensibile giungeva al puro naturale ed al puro sensibile, giungeva al motto: niente è nell’intelletto che non sia stato prima nel senso. E non era già un concetto astratto e solitario, era lo spirito nuovo, penetrato in tutto lo scibile, e che ora, come ultimo risultato, faceva la sua apparizione in filosofia. Anche la morale si emancipava dal precetto divino o ecclesiastico, e cercava la sua base nella natura dell’uomo, e non dell’uomo quale l’avea formato la società, ma nell’integrità e verginità del suo essere. Comparve un dritto naturale, come era comparsa una filosofia naturale; ed entrano in iscena Grozio, Obbes, Puffendorfio. A quel modo che Campanella e Sarpi con tutti i riformati vagheggiavano la Chiesa primitiva nella purità delle sue istituzioni, e in nome di quella attaccavano come alterazione e falsificazione l’opera posteriore dei Papi, i filosofi vagheggiavano l’uomo primitivo, nello stato di natura, e combattevano tutte le istituzioni sociali, che non erano di accordo con quello. Il movimento religioso diveniva anche politico e sociale; l’idea era una che si sentiva ora abbastanza forte per dilatare le [p. 305 modifica]sue conseguenze anche negli ordini politici. Sorge uno spirito di critica e d’investigazione, che non tien conto di nessun’autorità e tradizione, e fa valere il suo scetticismo in tutti i fatti e i principii tenuti fino a quel punto indiscutibili, come un assioma. Bayle è là, con la sua ironia, col suo dubbio universale. Come Locke realizzava il Cogito, egli realizzava il De omnibus dubitandum. E chi paragoni il suo Dizionario con le Raccolte italiane, può vedere dov’era la vita e dov’era la morte. Che faceva l’Italia innanzi a quel colossale movimento di cose e d’idee? L’Italia creava l’Arcadia. Era il vero prodotto della sua esistenza individuale e morale. I suoi poeti rappresentavano l’età dell’oro, e in quella nullità della vita presente fabbricavano temi astratti e insipidi amori tra pastori e pastorelle. I suoi scienziati, lasciando correre il mondo per la sua china, si occupavano del mondo antico e scrutavano in tutti i versi le reliquie di Roma e di Atene; e poichè le idee erano date e non discutibili, si occupavano de’ fatti, e non potendo essere autori, erano interpreti, comentatori ed eruditi. Letteratura e scienza erano Arcadia, centro Cristina di Svezia, povera donna, che non comprendendo i grandi avvenimenti, de’ quali erano stati tanta parte i suoi Gustavo e Carlo, si era rifuggita a Roma co’ suoi tesori, e si sentiva tanto felice tra quegli Arcadi, ch’ella proteggeva, e che con dolce ricambio chiamavano lei immortale e divina. Felice Cristina! e felice Italia!

L’inferiorità intellettuale degli italiani era già un fatto noto nella dotta Europa, e ne attribuivano la cagione al mal governo papale-spagnuolo. Gli stessi italiani aveano oramai coscienza della loro decadenza, e non avvezzi più a pensare col capo proprio, attendevano con avidità le idee oltramontane, e mendicavano elogi da’ forestieri. Giovanni Le Clerc scriveva anno per anno la [p. 306 modifica]sua Biblioteca, una specie d’inventario ragionato delle opere nuove. E come si tenea fortunato quell’italiano, che potea averci là dentro un posticino! La lingua francese era divenuta quasi comune, e prendeva il posto della latina. Un movimento d’importazione c’era lento, e impedito da molti ostacoli, e vivamente combattuto nelle accademie e nelle scuole, dove regnava Suarez e Alvarez, tra interpreti e commentatori. La fisica di Cartesio penetrò in Napoli settanta anni dopo la sua morte, e quando già era dimenticata in Francia, e non si aveva ancora notizia del suo Metodo e delle sue Meditazioni. Grozio girava per le mani di pochi. Di Spinosa e di Hobbes il solo nome faceva orrore. Di Giovanni Locke appena qualche sentore. Un movimento si annunziava negli spiriti, quel non so che di vago, quel bisogno di cose nuove che testimonia il ritorno della vita. Pareva che il cervello, dopo lungo sonno, si svegliasse. I Renatisti penetravano nelle scuole co’ loro metodi strepitosi, come li chiamava Vico, promettitori di scienza facile e sicura. Definizioni, assiomi, problemi, teoremi, scolii, postulati cacciavano di sede sillogismi, entimemi e soriti. Il quod erat demonstrandum succedeva all'ergo. Chiamavano pedanti i peripatetici, e questi chiamavano loro ciarlatani. Sempre così. Il vecchio è detto pedanteria, ed il nuovo ciarlataneria. E qualche cosa di vero c’è. Perchè il vecchio nella sua decrepitezza e stagnazione ha del pedante, e il nuovo nella sua giovanile esagerazione ha del ciarlatano. Ciascuno ha il suo lato debole, che non può nascondere all’occhio acuto e appassionato dell’avversario.

La riforma cartesiana in Italia non produsse alcun serio progresso scientifico, com’è d’ogni scienza importata e non uscita da una lenta elaborazione dello spirito nazionale. Fu utile come mezzo di diffusione delle idee nuove. Le quali cacciate d’Italia co’ roghi, con gli [p. 307 modifica]esilii, con le torture e coi pugnali, vi rientrarono sotto la protezione delle idee cristiane. La riforma era detta il platonismo cartesiano, ed aveva aria di ribenedire la religione in nome della filosofia. L’inquisizione, in quel movimento rapidissimo d’idee, preoccupata di Spinosa, aperto nemico, lasciava passare il nuovo Platone, che almeno non toccava i dogmi. I peripatetici invocarono l’inquisizione contro i novatori, e i novatori rispondevano, proclamando Aristotile nemico della religione. Così il movimento ricominciava in Italia, col permesso o almeno la tolleranza di Roma. Ed era movimento arcadico, confinato nelle astrattezze e rispettoso verso tutte le istituzioni. Il movimento rimaneva superficiale, ma si diffondeva, guadagnava gli animi alle novità, sopraffaceva i peripatetici, s’infiltrava nella nuova generazione, la metteva in comunione coll’Europa, preparava la trasformazione dello spirito nazionale.

Il serio movimento scientifico usciva di là, dove si era arrestato, dal seno stesso dell’erudizione. Lo studio del passato era come una ginnastica intellettuale, dove lo spirito ripigliava le sue forze. Alle raccolte successero le illustrazioni. E vi si sviluppò uno spirito d’investigazione, di osservazione, di comparazione, dal quale usciva naturalmente il dubbio e la discussione. Lo spirito nuovo inseguiva gli eruditi tra quegli antichi monumenti. Già non erano più semplici eruditi, erano critici. In Europa la critica usciva dal libero esame e dalla ribellione; era roba eretica. In Italia era parte di Arcadia, un esercizio intellettuale sul passato, e li lasciavano fare. Il critico di Europa era Bayle; il critico d’Italia era Muratori. Le sue vaste e diligenti raccolte, Rerum italicarum scriptores, Antiquitates medii aevi, Annali d’Italia, Novus Thesaurus Inscriptionum, la Verona illustrata e la Storia diplomatica di Scipione Maffei, le Illustrazioni del Fabbretti segnano già questo [p. 308 modifica]periodo dove la scienza è ancora erudizione, e nella erudizione si sviluppa la critica. Non è ancora filosofia, ma è già buon senso, fortificata dalla diligenza della ricerca, e dalla pazienza dell’osservazione. Muratori è assai vicino a Galileo per il suo spirito positivo e modesto, e pel giusto criterio. E anche egli osò. Osò combattere il potere temporale, osò porre in guardia gl’italiani contro gli errori e le illusioni della fantasia. Se non gliene venne condanna, fu tolleranza intelligente di Benedetto XIV, il quale disse che le opere degli uomini grandi non si proibiscono, e che la quistione del potere temporale era materia non dogmatica nè di disciplina. Anche il Maffei parve incredulo al Tartarotti, perchè negava la magia, e parve eretico al padre Concina, perchè scrivea De’ teatri antichi e moderni; ma quel buon Papa decretò non doversi abolire i teatri, bensì cercare che le rappresentazioni siano al più possibile oneste e probe. L’Italia papale era più papista del papa.

Un arcade era pure Gian Vincenzo Gravina, tutto Grecia e Roma, tutto Papato e Impero, fra testi e comenti, con le spalle volte all’Europa. Dommatico e assoluto, sentenzia e poco discute, in istile monotono e plumbeo. È ancora il pedante italiano, sepolto sotto il peso della sua dottrina, senza ispirazione, nè originalità, e così vuoto di sentimento, come d’immaginazione. Pure già senti che siamo verso la fine del secolo. Già non hai più innanzi lo erudito che raccoglie e discute testi, ma il critico che si vale della storia e della filosofia per illustrare la giurisprudenza, e si alza ad un concetto del dritto, e ne cerca il principio generatore. Anche la sua Ragion poetica, se non mostra gusto e sentimento dell’arte, colpa non sua, esce da’ limiti empirici della pura erudizione, e ti dà riflessioni d’un carattere generale.

Ecco un altro uomo d’ingegno, Francesco Bianchini, [p. 309 modifica]veronese. A che pensa costui? Pensa agli assiri, a’ medi e a’ troiani. Non raccoglie, ma pensa, cioè a dire, scruta, paragona, giudica, congettura, arzigogola e costruisce. I monumenti non rimangono più lettera morta; parlano, illustrano la cronologia e la storia. Per mezzo di essi si stabiliscono le date, le epoche, i costumi, i pensieri, i simboli, si rifà il mondo preistorico. In questa geologia della storia i fatti e gli uomini vacillano, si assottigliano, diventano favole, e le favole diventano idee. Comparve la sua storia nel 1697. Vico aveva ventinove anni.

L’erudizione generava dunque la critica. In Italia si svegliava il senso storico e il senso filosofico. E si svegliava non sul vivo, ma sul morto, nello studio del passato. Questo era il carattere del suo progresso scientifico. Quelli che si occupavano del presente a loro rischio, erano cervelli spostati. E tra questi cervelli balzani c’era il milanese Gregorio Leti, che pose in luce la cronaca scandalosa dell’età in uno stile che vuol essere europeo e non è italiano, e Ferrante Pallavicino nel suo Corriere svaligiato, una specie di satira omnibus, dove ce n’è per tutti. In quel vacuo dell’esistenza sciupavano l’ingegno in argomenti grotteschi, e in forme che parevano ingegnose ed erano freddure, un seicentismo arcadico. Il canonico Garzoni scrivea il Teatro de’ cervelli mondani, l’Ospedale de’ pazzi incurabili, la Sinagoga degl’ignoranti, il serraglio degli stupori del mondo. Sono discorsi accademici, infarciti d’erudizione indigesta, più curiosa che soda. I quali erano la vera piaga d’Italia, e attestavano una cultura verbosa e pedantesca senz’alcuna serietà di scopo e di mezzi. Il più noto di questi dotti, e ce n’erano moltissimi, è Anton Maria Salvini, cervello ingombro, cuore fiacco e immaginazione povera, vita vuota. E volle tradurre Omero.

[p. 310 modifica]Fra tanta erudizione cresceva Vico. Studiò la filosofia in Suarez, la grammatica in Alvarez, il dritto in Vulteio. Pedagogo in casa della Rocca in Vatolla, un paesello nel Cilento, si chiuse per nove anni nella biblioteca del convento, e vi si formò come Campanella. Quando, compiuto il suo ufficio, tornò in Napoli, era già un uomo dotto, come poteva essere un italiano, e ce n’erano parecchi anche tra’ gesuiti. Era il tempo del Muratori, del Fontanini, dell’abate Conti, del Maffei, del Salvini. Dottissimo, eruditissimo era Lionardo da Capua, e Tommaso Cornelio latinissimo: così li qualifica Vico. Il quale conosceva a fondo il mondo greco e latino, Aristotile e Platone con tutta la serie degl’interpreti fino a quel tempo; ammirava nel cinquecento quello stesso mondo redivivo ne’ Ficini, ne’ Pico, ne’ Mattei Acquaviva, ne’ Patrizi, ne’ Piccolomini, ne’ Mazzoni; di letteratura, di archeologia, di giurisprudenza peritissimo; il medio evo gli era giunto con la scolastica e con Aristotile, il cinquecento con Platone e Cicerone; dei fatti europei sapeva quanto era possibile in Italia. Era un dotto del Rinnovamento, che scoteva da sè la polvere del medio evo e cercava la vita e la verità nel mondo antico. Il suo sapere era erudizione, la forma del suo pensiero era latina, e il suo contenuto ordinario era il dritto romano. Avvocato senza clienti fece il letterato e il maestro di scuola. Passati erano i bei tempi di Pietro Aretino. La letteratura senza l’insegnamento era povera e nuda, come la filosofia. Andava per le case insegnando, facea canzoni, dissertazioni, orazioni, vite, a occasione o a richiesta. Lo conobbe don Giuseppe Lucina, uomo di una immensa erudizione greca, latina e toscana in tutte le spezie del sapere umano e divino, e lo fe’ conoscere a don Niccolò Caravita, un avvocato primario e gran favoreggiatore dei letterati. Vico, parte merito, parte protezione, fu professore di [p. 311 modifica]rettorica all’università. Vita semplice e ordinaria, dal 1668 al 1744. Vita accademica, tranquilla di erudito italiano, formatosi nelle biblioteche e fuori del mondo, rimasto abbarbicato al suolo della patria. Il movimento europeo gli giunse a traverso la sua biblioteca, e gli giunse nella forma più antipatica a’ suoi studi e al suo genio. Gli venne addosso la fisica di Gassendi, e poi la fisica di Boyle, e poi la fisica di Cartesio. La gran novità, pensava il nostro erudito. Ma l’hanno già detto questo Epicuro e Lucrezio. E per capire Gassendi si pose a studiare Lucrezio. Ma la novità piacque. Fisica, fisica vuol essere, diceva la nuova generazione, macchine; non più logica scolastica, ma Euclide; sperimenti, matematiche; la metafisica bisogna lasciarla ai frati. Che diveniva Vico con la sua erudizione e col suo dritto romano? Reagì, e cercò la fisica non con le macchine e con gli sperimenti, ma ne’ suoi studi di erudito. Le scienze positive entravano appena nel gran quadro della sua cultura, e di matematiche sapeva non oltre di Euclide, stimando alle menti già dalla metafisica fatte universali non agevole quello studio proprio degli ingegni minuti. Cercò dunque la fisica fuori delle matematiche e fuori delle scienze sperimentali, la cercò fra i tesori della sua erudizione, e la trovò nei numeri di Pitagora, ne’ punti di Zenone, nelle idee divine di Platone, nell’antichissima sapienza italica. L’Europa aveva Newton e Leibnizio; e a Napoli si stampava De antiquissima italorum sapientia. Erano due colture, due mondi scientifici che si urtavano. Da una parte era il pensiero creatore, che faceva la storia moderna, dall’altra il pensiero critico che meditava sulla storia passata. Chiuso nella sua erudizione, segregato nella sua biblioteca dal mondo dei vivi, quando Vico tornò in Napoli, trovò nuova cagione di maraviglia. L’aveva lasciata tutto fisica; la trovava tutto metafisica. Le Meditazioni e il Metodo di [p. 312 modifica]Cartesio avevano prodotto la nuova mania. Vico sentì disgusto per una città che cangiava opinione da un dì all’altro come moda di vesti. E vi si sentì straniero, e vi stette per alcun tempo straniero e sconosciuto. Vedeva il movimento attraverso i suoi studi e i suoi preconcetti.

Quelle fisiche atomistiche gli pareva non poter condurre che all’ateismo e alla morale del piacere, e le accusava di falsa posizione, perchè l’atomo, il loro principio, era corpo già formato, perciò era principiato e non il principio, e andava cercando il principio al di là dell’atomo, ne’ numeri e ne’ punti. Soffiava in lui lo stesso spirito di Bruno e di Campanella. Si sentiva concittadino di Pitagora e discepolo dell’antica sapienza italica. Quanto al metodo geometrico, rifiutava di ammetterlo come una panacea universale; era buono in certi casi, e si potea usarlo senza quel lusso di forme esteriori dove vedea ambizione, pretensione e ciarlataneria. Il Cogito gli pareva così poco serio, come l’atomo. Era anch’esso principiato e non principio; dava fenomeni, non dava la scienza. Giudicava Cartesio uomo ambiziosissimo ed anche un po’ impostore, e quel suo Metodo, dove annullando la scienza con la bacchetta magica del suo Cogito la fa ricomparire a un tratto, gli pareva un artificio rettorico. Quel suo De omnibus dubitandum lo scandalizzava. Quella tavola rasa di tutto il passato, quel disprezzo di ogni tradizione, di ogni autorità, di ogni erudizione, lo feriva nei suoi studi, nella sua credenza e nella sua vita intellettuale, e si difendeva con vigore, come si difende dal masnadiero la roba e la vita. La diffusione della coltura, la moltiplicità dei libri, quei metodi strepitosi abbreviativi, quella superficialità di studi con tanta audacia di giudizi, fenomeni naturali di ogni transizione, quando un mondo se ne va e un altro viene, movevano la sua collera. Avvezzo ai severi e [p. 313 modifica]profondi studi, a pensare co’ sapienti ed a scrivere pei sapienti, gli spiacea quella tendenza a vulgarizzare la scienza, quella rapida propagazione d’idee superficiali e cattive. E se la pigliava con la stampa. Si gloriava di non appartenere a nessuna setta. E lì era il suo punto debole. Posto tra due secoli, in quel conflitto di due mondi che si davano le ultime battaglie, non era nè con gli uni, nè con gli altri, e le cantava a tutti e due. Era troppo innanzi pe’ peripatetici, pe’ gesuiti e per gli eruditi; era troppo indietro per gli altri. Questi trovavano ridicoli i suoi punti metafisici; quelli trovavano avventate le sue etimologie e sospetta la sua erudizione. Era da solo un terzo partito, come si direbbe oggi, la ragione serena e superiore, che nota le lacune, le contraddizioni e le esagerazioni, ma ragiona ancora disarmata, solitaria, senza seguaci, fuori degl’interessi e delle passioni, perciò in quel fervore della lotta appena avvertita e di nessuna efficacia. Se dietro al critico ci fosse stato l’uomo, un po’ di quello spirito propagatore e apostolico di Bruno e Campanella, sarebbe stato vittima degli uni e degli altri. Ma era un filosofo inoffensivo, tutto cattedra, casa e studio, e guerreggiava contro i libri, rispettosissimo verso gli uomini. Oltrechè le sue ubbie rimanevano nelle altissime regioni della filosofia e della erudizione, dove pochi potevano seguirlo, e fu lasciato vivere fra le nubi, stimato per la sua dottrina, venerato per la sua pietà e bontà. Conscio e scontento della sua solitudine, vi si ostinò, benedicendo non aver lui avuto maestro nelle cui parole avesse giurato, e ringraziando quelle selve, fra le quali, dal suo buon genio guidato, aveva fatto il maggior corso de’ suoi studi. Il latino veniva in fastidio, ed egli pose da canto greco e toscano, e fu tutto latino. Veniva in moda il francese, e’ non volle apprendere il francese. La letteratura tendeva al nuovo, ed egli accusava questa letteratura [p. 314 modifica]non animata dalla sapienza greca, o invigorita dalla grandezza romana. Nella medicina era con Galeno contro i moderni, divenuti scettici per le spesse mutazioni de’ sistemi di fisica. Nel Diritto biasimava gli eruditi moderni, e se ne stava con gli antichi interpreti. Vantavano l’evidenza delle matematiche; ed egli se ne stava tra’ misteri della metafisica. Predicavano la ragione individuale, ed egli le opponeva la tradizione, la voce del genere umano. Gli uomini popolari, i progressisti di quel tempo, erano Lionardo di Capua, Cornelio, Doria, Calopreso, che stavano con le idee nuove, con lo spirito del secolo. Lui era un retrivo, con tanto di coda, come si direbbe oggi. La coltura europea e la coltura italiana s’incontravano per la prima volta, l’una maestra, l’altra ancella. Vico resisteva. Era vanità di pedante? Era fierezza di grande uomo? Resisteva a Cartesio, a Malebranche, a Pascal, i cui Pensieri erano lumi sparsi, a Grozio, a Puffendorfio, a Locke, il cui Saggio era la metafisica del senso. Resisteva, ma li studiava più che non facessero i novatori. Resisteva come chi sente la sua forza e non si lascia sopraffare. Accettava i problemi, combattea le soluzioni, e le cercava per le vie sue, co’ suoi metodi e coi suoi studi. Era la resistenza della coltura italiana, che non si lasciava assorbire, e stava chiusa nel suo passato, ma resistenza del genio, che cercando nel passato trovava il mondo moderno. Era il retrivo che guardando indietro, e andando per la sua via, si trova da ultimo in prima fila, innanzi a tutti quelli che lo precedevano. Questa era la resistenza di Vico. Era un moderno, e si sentiva e si credeva antico, e resistendo allo spirito nuovo, riceveva quello entro di sè.

Bacone gli aveva fatta una grande impressione. Era il suo uomo, dopo Platone e Tacito. Quel suo libro, De augmentis scientiarum, gli faceva dire: Roma e [p. 315 modifica]Grecia non hanno avuto un Bacone. Trovava in lui congiunto il senso ideale di Platone, il senso pratico di Tacito, la sapienza riposta dell’uno, la sapienza volgare dell’altro. E poi, gli apriva nuovi orizzonti. Avea studiato tanto, e la sua scienza non era più un libro chiuso, ci era tanto da aggiungere, tanto da riformare. Voleva egli pure conferire del suo nella somma che costituisce l’universal repubblica delle lettere. Non è più un erudito immobilizzato nel passato, è un riformatore, un investigante. Critica, dubita, esamina, approfondisce. Sente il morso dello spirito nuovo. Nei suoi studi dell’antica sapienza italica, vedi già il disdegno delle etimologie grammaticali, il dispregio dell’erudizione volgare, l’uomo che tenta nuove vie, intravvede nuovi orizzonti, cerca tra i particolari le alte generalità.

Più tardi gli capitò Grozio, e divenne il suo quarto autore. Grozio gli completa Bacone. Costui vide tutto il sapere umano e divino doversi supplire in ciò che non ha, ed emendare in ciò che ha; ma intorno alle leggi non s’innalzò troppo all’universo delle città ed alla scorsa di tutt’i tempi, nè alla distesa di tutte le nazioni. Grozio gli dà un Dritto universale, in cui è sistemata tutta la filosofia e teologia. Il comentatore del dritto romano si sente alzare a filosofo. Cerca una filosofia del Dritto con Grozio, e si fa il suo annotatore: poi riflette che è un eretico, e lascia stare.

La materia della sua cultura è sempre quella, dritto romano, storia romana, antichità. La sua fisica è pitagorica, la sua metafisica è platonica, conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia è l’Ente, l’Uno, Dio. Tutto viene da Dio, tutto torna a Dio, l’unum simplicissimum di Ficino. L’uomo e la natura sono le sue ombre, i suoi fenomeni. La scienza è conoscere Dio, perdere sè stesso in Dio. E vien su il Dio di Campanella, l’eterno lume, il senno eterno, con le sue primalità, [p. 316 modifica]nosse, velle, posse. Fin qui Vico è un luogo comune. La sua erudizione e la sua filosofia camminano in linea parallela, e non s’incontrano. Manca l’attrito. Ci è l’ascetico, il teologo, il platonico, l’erudito, ci è l’italiano di quel tempo nello stato ordinario delle sue credenze e della sua cultura.

Dentro a questa cultura e contro a queste credenze venne ad urtare Cartesio. La cultura non ha valore; del passato bisogna far tavola. Datemi materia e moto ed io farò il mondo. Il vero te lo dà la coscienza ed il senso. Cosa diveniva l’erudizione di Vico, la fisica di Vico, la metafisica di Vico? cosa divenivano le idee divine di Platone? e il simplicissimum di Pitagora cosa diveniva? e il dritto romano, la storia, la tradizione, la filologia, la poesia, la rettorica, non era più buona a nulla? Nella violenta contraddizione Vico sviluppò le sue forze. Uscì del vago e del comune, trovò un terreno, un problema, un avversario. La sua erudizione si spiritualizzava. La sua filosofia si concretava. E si compivano l’una nell’altra.

Già non si perde negli accessorii; vede e investe subito la dottrina avversaria nella sua base. Vuole atterrare Cartesio, e con lo stesso colpo atterra tutta la nuova scienza, e non andando indietro, ma andando più avanti. La sua confutazione di Cartesio è completa, è l’ultima parola della critica. Ma la sua critica non è solo negativa: è creatrice; la negazione si risolve in un’affermazione più vasta, che tirasi appresso, come frammenti di verità, le nuove dottrine, e le alloga, le mette a posto. La nuova scienza, la scienza degli uomini nuovi, trova nella Scienza nuova il suo limite, e perciò la sua verità.

La nuova scienza, uscita da lotta religiosa e politica, è in uno stato di guerra contro il passato, e lo combatte sotto tutte le sue forme. La tradizione, l’autorità, la [p. 317 modifica]fede è il suo nemico, e cerca riparo nella forza e nella indipendenza della ragione individuale; gli universali, gli enti, le quiddità lo infastidiscono della metafisica, e cerca la sua base nella psicologia, nella coscienza; il soprannaturale, il sopramondano offende il suo intelletto adulto, e vi oppone lo studio diretto della natura, la fisica nel suo senso più generale, le scienze positive; al gergo scolastico cerca un antidoto nella precisione delle matematiche, nel metodo geometrico; ai misteri, alle cabale, alle scienze occulte, alle astrazioni oppone l’esperienza rischiarata dall’osservazione, la percezione chiara e distinta, l’evidenza della coscienza e del senso; alla società in quello stato di corruzione oppone l’uomo integro e primitivo, la natura dell’uomo, dalla quale cava i principii della morale e del dritto. Questo è lo spirito della nuova scienza: naturalismo e umanismo, fisica e psicologia. Cartesio in maschera di Platone porta la bandiera.

Ma non inganna Vico, che gli strappa la maschera. Tu non sei che un epicureo. La tua fisica è atomistica, la tua metafisica è sensista, il tuo trattato delle Passioni par fatto più per i medici che per i filosofi: segui la morale del piacere. Combattendo Cartesio, la quistione gli si allarga, attinge nella sua essenza tutto il nuovo movimento. Anch’esso è un’astrazione. È un’ideologia empirica, idea vuota, e vuoto fatto. L’importante non è di dire: io penso; la grande novità! ma è di spiegare, come il pensiero si fa. L’importante non è di osservare il fatto, ma di esaminare come il fatto si fa. Il vero non è nella sua immobilità ma nel suo divenire, nel suo farsi. L’idea è vera, colta nel suo farsi. Il pensiero è moto che va da un termine all’altro, è idea che si fa, si realizza come natura, e ritorna idea, si ripensa, si riconosce nel fatto. Perciò verum et certum, vero e fatto sono convertibili, nel fatto vive il vero, il fatto è pensiero, è scienza, la storia è una scienza, e come ci è [p. 318 modifica]una logica per il moto delle idee, ci è anche una logica per il moto dei fatti, una storia ideale eterna, sulla quale corrono le storie di tutte le nazioni.

Ecco ribenedetta tradizione, autorità e fede; ecco filologia, storia, poesia, mitologia tutta l’erudizione rientrata in grembo della scienza. La storia è fatta dall’uomo, come le matematiche, e perciò è scienza non meno di quelle. È il pensiero che fa quello che pensa, è la metafisica della mente umana, la sua costanza, il suo processo di formazione secondo le leggi fisse del pensiero umano. Perciò la sua base non è nella coscienza individuale, ma nella coscienza del genere umano, nella ragione universale. I nuovi filosofi vogliono rifare il mondo co’ loro princìpi assoluti, co’ loro dritti universali. Ma non sono i filosofi che fanno la storia, e il mondo non si rifà con le astrazioni. Per rifare la società non basta condannarla; bisogna studiarla e comprenderla. E questo fa la Scienza nuova.

A Vico non basta porre le basi; mette mano alla costruzione. Se la storia ha la sua costanza scientifica, se è fatta dal pensiero, com’è fatta? qual’è il suo processo di formazione? Che la storia sia una scienza, non era cosa nuova nella filosofia italiana. Alla storia formata dall’arbitrio divino e dal caso Machiavelli avea già contrapposta la forza delle cose, lo spirito della storia eterno e immutabile. L’intelletto universale di Bruno, la ragione che governa il mondo di Campanella rientrano nella stessa idea. Platone con le sue idee divine porgeva già il filo a Vico. L’importante era di eseguire il problema, il cui dato era già posto, era il trovar le leggi di questo spirito, della storia, era il probare per causas, il generare la storia come l’uomo genera le matematiche, il fare la storia della storia, ciò che era fare una scienza nuova. Di questa storia ideale egli ritrova le guise dentro le modificazioni della nostra [p. 319 modifica]medesima mente umana, cerca la base nella natura dell’uomo, doppio com’è spirito e corpo. È una psicologia applicata alla storia. Stabilisce alcuni canoni psicologici, ch’egli chiama Degnità, o principii. Il concetto è questo: che l’uomo, come essere naturale, opera per istinti, sotto la pressura dei suoi bisogni, interessi e passioni; ma ivi appunto si sviluppa come essere pensante, come Mente, sì che nelle sue opere più grossolane e corpulente ce n’è come un’immagine velata, il sentore. La quale immagine si fa più chiara, secondo che la mente più si spiega in sino a che il pensiero si manifesta nella sua propria forma, opera come riflessione o filosofia. Questo, che è il corso naturale della vita individuale, è anche il corso naturale e la storia di tutte le nazioni, quando non ci sia interruzione o deviazione per violenza di casi estrinseca, come fu per Numanzia oppressa nel suo fiorire da’ romani. Perciò nelle nazioni ci è tre età, la divina, l’eroica e la umana. Precede lo stato selvaggio o di mera barbarie dove l’uomo è servo del corpo, e come una fiera vagante nella gran selva della terra. La libertà è il tenere in freno, i moti della concupiscenza, che viene dal corpo, e dar loro altra direzione che viene dalla mente ed è propria dell’uomo. Secondo che la mente spiega, o si fa più intelligente, si sviluppa la libertà prevale la ragione o l’umanità. La prima età ragionevole o socievole, l’età divina, sorse co’ matrimonii e l’agricoltura quando, a’ primi fulmini dopo l’universal diluvio gli uomini si umiliarono ad una forza superiore che immaginarono essere Giove, e tutte le umane utilità e tutti gli aiuti posti nella loro necessità immaginarono essere Dei. Allora rinunziando alla vaga venere, ebbero certe mogli, certi figli, e certe dimore sorsero le famiglie governate da’ Padri con familiari, imperii ciclopici. In questi regni familiari, divenuti sicuro asilo contro i [p. 320 modifica]selvaggi o vaganti, riparavano i deboli e gli oppressi, che furono ricevuti in protezione, come clienti o famoli. Così si ampliarono i regni famigliari, o si spiegarono le repubbliche erculee sopra ordini naturalmente migliori per virtù eroiche, la pietà verso gl’Iddii, la prudenza, o il consigliarsi coi divini auspicii, la temperanza, onde i concupiti umani, e pudichi co’ divini auspici, la fortezza, uccider fiere, domar terreni, la magnanimità, il soccorrere a’ deboli e a’ pericolanti, in questi primi ordini naturali comincia la libertà, e il primo spiegarsi della mente. Nacque la corruzione. I padri lasciati grandi per la religione e virtù de’ loro maggiori e per le fatiche de’ clienti, tralignarono: uscirono dall’ordine naturale, che è quello della giustizia, abusarono delle leggi di protezione e di tutela tiranneggiarono: indi la ribellione dei clienti. Allora i padri delle famiglie si unirono con le loro attinenze in ordini contro di quelli, e per pacificarli, con la prima legge agraria concessero il dominio bonitario, ritenendosi essi il dominio ottimo, o sovrano familiare: onde nacquero le prime città sopra ordini erranti di nobili, e l'ordine civile. Finirono i regni divini, cominciarono gli eroici. La religione fu custodita negli ordini eroici, e perciò gli auspicii e i matrimonii, e per essa religione furono de’ soli eroi tutt’i diritti e tutte le ragioni civili. Ma spiegandosi le umane menti, le plebi intesero essere di egual natura umana coi nobili, e vollero entrare anch’essi negli ordini civili delle città, essere sovrani nelle città. Finisce l’età eroica, comincia l’età umana, l’età della eguaglianza, la repubblica popolare, dove comandano gli ottimi non per nascita, ma per virtù. In questo stato della mente agli uomini non è più necessario fare le azioni virtuose per sensi di religione, perchè la filosofia fa intendere le virtù nella loro idea; in forza della quale riflessione, quando anche gli uomini non abbiano virtù, almeno si [p. 321 modifica]vergognano de’ vizii. Nasce la filosofia e l’eloquenza, insino a che l’una è corrotta dagli scettici, l’altra dai sofisti. Allora, corrompendosi gli stati popolari, viene l’anarchia, il totale disordine, la peggiore delle tirannidi, che è la sfrenata libertà de’ popoli liberi. I quali o cadono in servitù di un monarca che rechi in sua mano tutti gli ordini e tutte le leggi con la forza delle armi; o diventano schiavi per diritto natural delle genti, conquistati con armi da nazioni migliori, essendo giusto, che chi non sa governarsi da sè si lasci governare da altri che il possa, e che nel mondo governino sempre i migliori; o, abbandonati a sè, in quella folla di corpi vivendo in una solitudine d’animi e di voleri, seguendo ognuno il suo piacere e capriccio, con disperate guerre civili vanno, a fare selve delle città e delle selve covili d’uomini e in lunghi secoli di barbarie vanno ad irrugginire le malnate sottigliezze degl’ingegni maliziosi. Con questa barbarie della riflessione si ritorna allo stato selvaggio, alla barbarie del senso, e ricomincia con lo stess’ordine una nuova storia, si rifà lo stesso corso.

Questa è la storia ideale eterna, la logica della storia, applicabile a tutte le storie particolari. È in fondo la storia della Mente nel suo spiegarsi, come dice Vico, dallo stato di senso, in cui è come dispersa, sino allo stato di riflessione, in cui si riconosce e si afferma. L’operazione con la quale l’intelletto giunge alla verità è la stessa operazione con la quale l’intelletto fa la storia. Locke aveva il suo complemento in Vico. La teoria della conoscenza aveva il suo riscontro nella teoria della storia. Era una nuova applicazione della psicologia. Gli uomini operano secondo i loro impulsi e fini particolari; ma i risultati sono superiori a’ loro fini, sono risultati mentali, il successivo progredire della mente nel suo spiegarsi. Perciò le passioni, gl’interessi, [p. 322 modifica]gli accidenti, i fini particolari sono non la storia, ma le occasioni, e gli strumenti della storia; perciò una scienza della storia è possibile. Machiavelli e Obbes ti dànno la storia occasionale, non la storia finale e sostanziale. La loro storia è vera, ma non è intera, è frammento di verità. La verità è nella totalità, nel vedere cuncta ea quae in re insunt, ad rem sunt affecta, l’idea nella pienezza del suo contenuto e delle sue attinenze. Machiavelli è non meno di Vico un profondo osservatore de’ fatti psicologici, è un ritrattista, ma non è un metafisico. La psicologia di Vico entra già nelle regioni della metafisica, ti dà le prime linee della nuova metafisica, fondata non sull’immobilità dell’Ente guardato nei suoi attributi, ma sul suo moto o divenire; perciò non descrizione o dimostrazione, come te la dava Aristotile e Platone, ma vero dramma, la storia dello spirito nel mondo. In questo dramma tutto ha la sua spiegazione, tutto è allogato, la guerra, la conquista, la rivoluzione, la tirannide, l’errore, la passione, il male, il dolore, fatti necessarii e strumenti del progresso. Ciascuna età storica ha la sua guisa di nascere e di vivere, la sua natura, onde procede la forza delle cose, la sapienza volgare del genere umano, il senso comune delle genti, la forza collettiva. Non è l’individuo, è questa forza collettiva che fa la storia, e spesso i più celebrati individui non sono che simboli e immagini, caratteri poetici di quella forza, come Zoroastro, Ercole, Omero, Solone. Cerchi un individuo, e trovi un popolo; cerchi un fatto, e trovi un’idea. Fabbro della storia è l’umano arbitrio regolato con la sapienza volgare.

Rimaneva a dare la dimostrazione di questa storia ideale, dimostrare ciò che tutte le storie particolari sono secondo quella, regolate da uno stesso corso d’idee, ubbidienti a un solo tipo. La prova poteva cercarla a priori nella logica stessa dello spirito nel suo spiegarsi. [p. 323 modifica]Lo spirito si estrinseca in conformità della sua natura, in che è la sua logica, la legge del suo divenire, e quel divenire è appunto la storia. Ma Vico, appena adombrate le prime linee della nuova metafisica, si arresta sulla soglia, e ritorna erudito, e cerca la prova a posteriori, consultando tutte le storie, e cercando in tutte il suo corso, il suo sistema, e non solo nelle grandi linee, ma ne’ più minuti accidenti. Impresa titanica di erudizione e critica italiana. E s’immerge tra’ rottami dell’antichità, e raccoglie i minimi frammenti, e li anima: intus legit, li fa corpi interi, ricostituisce la storia reale a immagine della sua storia ideale. È il mondo guardato da un nuovo orizzonte, ricreato dalla critica e dalla filosofia, e con la sua originalità scolpita in quella potente forma, lapidaria e metaforica, come una legge delle dodici tavole. Cerca tra quei rottami la prova della scienza nuova, e scopre per via nuove scienze. Lingua, mitologia, poesia, giurisprudenza, religioni, culti, arti, costumi, industrie, commercio, non sono fatti arbitrarii, sono fatti dello spirito, le scienze della sua scienza. Cronologia, geografia, fisica, cosmografia, astronomia, tutto si rinnova sotto questa nuova critica. Ad ogni passo senti il grido trionfale del gran creatore: ecco una nuova scoperta! Alla metafisica della mente umana, filosofia dell’umanità o delle idee umane, onde scaturisce una giurisprudenza, una morale e una politica del genere umano, corrisponde la logica, fas gentium, una scienza dell’espressione di esse idee, la filologia. Ecco dunque una scienza delle lingue e de’ miti e delle forme poetiche, una lingua del genere umano, una teoria dell’espressione ne’ miti, ne’ versi, nel canto, nelle arti. E come teoria e scienza non è che natura delle cose, e la natura delle cose è nelle guise di lor nascimenti; l’uomo ardito, sgombro lo spirito d’ogni idea anticipata, e fidato al solo suo intendere, si addentra nelle origini [p. 324 modifica]dell’umanità, guaste dalla doppia boria delle nazioni e de’ dotti, e tu assisti alla prima formazione delle società, de’ governi, delle leggi, de’ costumi, delle lingue, vedi nascere la storia di entro la mente umana, e svilupparsi logicamente da’ suoi elementi o principii, religione, nozze, sepolture, svilupparsi sotto tutte le forme, come governo, come legge, come costume, come religione, come arte, come scienza, come fatto, come parola. La sua grande erudizione gli porge infiniti materiali, che interpreta, spiega, alloga, dispone, secondo i bisogni della sua costruzione, audace nelle etimologie, acuto nelle interpretazioni e ne’ confronti, sicurissimo nei suoi procedimenti e nelle sue conclusioni, e con l’aria di chi scopre ad ogni tratto nuovi mondi, tenendo sotto i piedi le tradizioni e le storie volgari. Così è nata questa prima storia dell’umanità, una specie di Divina Commedia, che dalla gran selva della terra per l’inferno del puro sensibile si va realizzando tra via sino all’età umana della riflessione o della filosofia, irta di forme, di miti, di etimologie, di simboli, di allegorie, e non meno grande che quella, pregna di presentimenti, di divinazioni, d’idee scientifiche, di veri e di scoperte, opera di una fantasia concitata dall’ingegno filosofico e fortificata dall’erudizione, che ha tutta l’aria di una grande rivelazione.

È la Divina Commedia della scienza, la vasta sintesi, che riassume il passato e apre l’avvenire, tutta ancora ingombra di vecchi frantumi dominati da uno spirito nuovo. Platonico e cristiano, continuatore di Ficino e di Pico, uno di spirito con Torquato Tasso, Vico non comprende la Riforma, e non i tempi nuovi, e vuol concordare la sua filosofia con la teologia, e la sua erudizione con la filosofia, costruire un’armonia sociale, come un’armonia provvidenziale. La sua metafisica ha sotto i piè il globo, e gli occhi estatici in su verso l’occhio della Provvidenza, onde le piovono i raggi delle divine idee. [p. 325 modifica]Vuole la ragione, ma vuole anche l’autorità, e non certo degli addottrinati, ma del genere umano; vuole la fede e la tradizione; anzi fede e tradizione non sono che essa medesima la ragione, sapienza volgare. Tale era l’uomo formato nella biblioteca di un convento; ma, entrando nel mondo de’ viventi, lo spirito nuovo l’incalza, e combattendo Cartesio, subisce l’influenza di Cartesio. Era impossibile che un uomo d’ingegno non dovesse sentirsi trasformare al contatto dell’ingegno. Tutto dietro a costruir la sua scienza, gli si affaccia il De omnibus dubitandum ed il Cogito. «Meditando i principii di questa scienza, dobbiamo ridurci in uno stato di una somma ignoranza di tutta l’umana e divina erudizione, come se per questa ricerca non vi fossero mai stati per noi nè filosofi, nè filologi, perchè l’animo non sia turbato e distolto dalle comuni invecchiate anticipazioni.» Parole auree che sembrano tolte da una pagina del Metodo. E in questa ignoranza cartesiana, qual è l'unica verità, che fra tante dubbiezze non si può mettere in dubbio, ed è perciò la prima di siffatta scienza? È il cogito, è la mente umana. «Perchè il mondo delle gentili nazioni è fatto dagli uomini, i di lui principii si debbono ritrovare dentro la natura della nostra mente umana e nella forza del nostro intendere.» La provvidenza e la Metafisica che guarda in lei, sono nel gran quadro un semplice antecedente, o, com’egli dice, un’anticipazione, un convenuto e non dimostrato; il quadro è la mente umana nella natura e nell’ordine della sua esplicazione, la mente umana delle nazioni, la storia delle umane idee. La Provvidenza regola il mondo, assistendo il libero arbitrio con la sua grazia, ed oltrepassando nei suoi risultati i fini particolari degli uomini; ma questi risultati provvidenziali non sono più miracolo, sono scienza umana, sono lo schiarire delle idee, lo spiegarsi della mente. Come Bruno, Vico canta la Provvidenza e narra [p. 326 modifica]l’uomo; non è più teologia, è psicologia. Provvidenza e metafisica sono di lontano, come sole o cielo, nello sfondo del quadro; il quadro è l’uomo e la sua luce, la sua scienza è in lui stesso, nella sua mente. La base di questa scienza è moderna, ci è Cartesio col suo scetticismo e col suo cogito. Ben talora, portato dall’alto ingegno speculativo, spicca il volo verso la teologia e la metafisica, ma Cartesio è là che lo richiama, e lo tiene stretto ne’ fatti psicologici. Nel quale studio del processo della mente negl’individui e ne’ popoli fa osservazioni così profonde e insieme così giuste, che ben si sente il contemporaneo di Malebranche, di Pascal, di Locke, di Leibnizio, il più affine al suo spirito, e ch’egli chiama il primo ingegno del secolo. Nè solo è moderno nella base, ma nelle conclusioni, mostrando nell’ultimo spiegarsi della mente vittoriosi i principii de’ nuovi filosofi. Perchè corona della sua epopea storica è lo spiritualizzarsi delle forme, il trionfo della filosofia, o della mente nella sua riflessione, la fine delle aristocrazie, e perciò de’ feudi e della servitù, la libertà e l’uguaglianza di tutte le classi, come stato delle società ingentilite e umane, come ultimo risultato della coltura. È la teocrazia e l’aristocrazia conquise dalla democrazia per il naturale spiegarsi della mente, è l’affermazione e la glorificazione dello spirito nuovo. Ma qui appunto Vico se ne spicca e rimane solo in mezzo al suo secolo. Posto tra il mondo della sua biblioteca, biblico-teologico-platonico, e il mondo naturale di Cartesio e di Grozio, due assoluti, e impenetrabili come due solidi, e che si scomunicavano l’un l’altro, cerca la conciliazione in un mondo superiore, l’idea mobilizzata o storica, e in una scienza superiore, la critica, l’idea analizzata e giustificata nei momenti della sua esistenza, la scienza uscita dall’assolutezza e rigidità del suo dommatismo, e mobilizzata come il suo contenuto. La critica è rifare con la [p. 327 modifica]riflessione quello che la mente ha fatto nella sua spontaneità. È la mente spiegata e schiarita che si riflette sulla sua opera e vi trova sè stessa nella sua identità e nella sua continuità; è la coscienza dell’umanità. In questo mondo superiore tutto si move e tutto si riconcilia e si giustifica; i principii che i nuovi filosofi predicavano assoluti e perciò applicabili in ogni tempo e in ogni luogo e coi quali dannavano tutto il passato, si riferiscono a stati sociali di certe epoche e di certi luoghi, ed in principii contrarii, appunto perchè in certi tempi hanno governato il mondo e sono stati comportevoli, sono veri anch’essi, come anticipazioni e vestigi de’ principii nuovi. Perciò il criterio della verità non è l’idea in sè, ma l’idea come si fa o si manifesta nella storia della mente, il senso comune del genere umano, ciò ch’egli chiama la filosofia dell’autorità. Qui Vico avea contro di sè Platone e Grozio, il passato e il presente. La malattia del secolo era appunto la condanna del passato in nome dei principii astratti, come il passato condannava esso in nome di altri principii astratti. Vico era come chi vivuto solitario nel suo gabinetto, scenda in piazza d’improvviso, e vegga gli uomini concitati, co’ pugni tesi, pronti a venire alle mani. A lui quegli uomini debbono sembrare de’ pazzi da catena. «A che tanto furore contro il passato? il quale, appunto perchè è stato, ha avuto la sua ragion d’essere. E poniamo pure, sia tutto cattivo, credete di poter distruggere con la forza l’opera di molti secoli? I vostri principii! ma credete voi che la storia si fa da’ filosofi e co’ principii? La vostra ragione! ma ci è anche la ragione degli altri, uomini come voi, e che sanno ragionare al pari di voi. E poi, un po’ di rispetto, io credo, si dee pure all’autorità, e non parlo di tanti dottori, ne’ quali non avete fede, parlo dell’autorità del genere umano, al quale, se uomini siete, non potete negar fede. Un po’ meno di ragione, e un po’ [p. 328 modifica]più di senso comune.» Un discorso simile sarebbe parsa una stranezza a quegli uomini pieni di odio e di fede. E qualcuno poteva rispondergli: «Fatti in là, e sta fra le tue nuvole, e non venire fra gli uomini, chè non te ne intendi. Il passato tu lo hai studiato su’ libri, è la tua erudizione. Ma il passato è per noi cosa reale di cui sentiamo le punture ad ogni nostro passo. Il fuoco ci scotta, e tu ci vuoi provare che, perchè è, ha la sua ragion di essere. Lascia prima che noi lo spengiamo, e poi ci parla della sua natura. Quando ci avremo tolto di dosso codesto passato, nostro martirio e de’ padri nostri, forse allora potremo essere giusti anche noi e gustar la tua critica». Vico rimase solo nel secolo battagliero, e quando la lotta ebbe fine si alzò come iride di pace la sua immagine su’ combattenti, e comunicò la parola del nuovo secolo: Critica. Non più dommatismo, non più scetticismo: Critica. Nè altro è la storia di Vico, che una critica dell’umanità, l’idea vivente, fatta storia, e nel suo eterno peregrinaggio seguita, compresa, giustificata in tutt’i momenti della sua vita. I principii, come gl’individui e come la società, nascono, crescono e muoiono, o piuttosto, poichè niente muore, si trasformano, pigliando forme sempre più ragionevoli, più conformi alla mente, più ideali. Indi la necessità del progresso, insita nella stessa natura della mente, la sua fatalità. La teoria del progresso è per Vico come la terra promessa. La vede, la formula, stabilisce la sua base, traccia il suo cammino, diresti che l’indica col dito, e quando non gli resta a fare che un passo per giungervi, la gli fugge dinanzi, e riman chiuso nel suo cerchio e non sa uscirne. Poneva le premesse e gli fuggiva la conseguenza. Gli è perchè, profondo conoscitore del mondo greco romano, non seppe spiegarsi il medio evo, e non comprese i tempi suoi, parendogli indizio di decadenza e dissoluzione quella vasta agitazione religiosa [p. 329 modifica]e politica, in cui era la crisi e la salute. D’altra parte lui, che negava l’esistenza di Omero, non osò sottoporre alla sua critica il mito di Adamo e le tradizioni bibliche e il dogma della Provvidenza e la missione del cristianesimo, lasciando grandi ombre nelle sue pitture. Vedi la coscienza moderna rilucere nel mondo pagano, ardito nelle sue negazioni e nelle sue spiegazioni, e quando sta per entrare nel mondo inquieto e appassionato dei vivi, chiudere gli occhi per non vedere. Ciò che è proprio de’ grandi pensatori, aprire le grandi vie, stabilire le grandi premesse, e lasciare a’ discepoli le facili conseguenze. Come Cartesio, Vico non indovinò i formidabili effetti che doveano uscire dalle sue speculazioni. Cartesio avrebbe rinnegati per suoi Spinosa e Locke, e Vico Condorcet, Herder ed Hegel, poichè si occupa più degli antichi che de’ moderni, più de’ morti che de’ vivi, i vivi lo dimenticarono. La sua Scienza parve più una curiosa stranezza di erudito, che una profonda meditazione di filosofo, e non fu presa sul serio.

Intanto il secolo camminava con passo sempre più celere, tirando le conseguenze dalle premesse poste nel secolo decimosettimo. La scienza si faceva pratica, e scendeva in mezzo al popolo. Non s’investigava più, si applicava e si divulgava. La forma usciva dalla calma scientifica, e diveniva letteraria; le lingue volgari cacciavano via gli ultimi avanzi del latino. Il trattato e la dissertazione divenivano memorie, lettere, racconti, articoli, dialoghi, aneddoti; forme scolastiche e forme geometriche davano luogo al discorso naturale, imitatore del linguaggio parlato. La scienza prendeva aria di conversazione, anche negli scrittori più solenni come Buffon e Montesquieu, conversazione di uomini colti in sale eleganti. Per dirla con Vico, la sapienza riposta diveniva sapienza volgare, e, scendendo nella vita, prendeva le passioni e gli abiti della vita, ora amabile e [p. 330 modifica]spiritosa, come in Fontanelle, ora limpida, scorrevole, facile come in Condillac e in Elvezio, ora rettorica e sentimentale, come in Diderot. Il dritto naturale di Grozio generava il Contratto sociale, la società era dannata in nome della natura, e l’erudita dissertazione di Grozio ruggiva nella forma ardente e appassionata di Rousseau. Lo scetticismo un po’ impacciato di Bayle, velato fra tante cautele oratorie, si apriva alla schietta e gioiosa malizia di Voltaire. L’erudizione e la dimostrazione gittavano le loro armi pesanti e divenivano un amabile senso comune. La scienza diveniva letteratura, e la letteratura a sua volta non era più serena contemplazione, era un’arma puntata contro il passato. Tragedie, commedie, romanzi, storie, dialoghi, tutto era pensiero militante che dalle alte cime della speculazione scendeva in piazza tra gli uomini, e si propagava a tutte le classi e si applicava a tutte le quistioni. Le sue forme, filosofia, arte, critica, filologia, erano macchine di guerra, e la macchina più formidabile fu l’enciclopedia. Condorcet proclamava il progresso. Diderot proclamava l’ideale. Elvezio proclamava la natura. Rousseau proclamava i dritti dell’uomo. Voltaire proclamava il regno del senso comune. Vattel proclamava il dritto di resistenza. Smith glorificava il lavoro libero. Blackstone rivelava la carta inglese. Franklin annunziava la nuova Carta all’Europa. La società sembrava un caos, dove la filosofia dovea portare l’ordine e la luce. Una nuova coscienza si formava negli uomini, una nuova fede. Riformare secondo la scienza istituzioni, governi, leggi e costumi, era l’ideale di tutti, era la missione della filosofia. I filosofi acquistarono quella importanza, che ebbero al secolo decimosesto i letterati. Maggiore era la fede in questo avvenire filosofico, e più viva era la passione contro il presente. Tutto era male, e il male era stato tutto opera maliziosa di preti e di re, nell’ignoranza de’ popoli. [p. 331 modifica]Superstizione, pregiudizio, oppressione erano le parole, che riassumevano innanzi alle moltitudini tutto il passato. Libertà, uguaglianza, fraternità umana erano il Verbo, che riassumeva l’avvenire. Tutto il moto scientifico dal secolo decimosesto in qua aveva acquistata la semplicità di un catechismo. La rivoluzione era già nella mente.

Che cosa era la rivoluzione? Era il Rinnovamento che si scioglieva da ogni involucro classico e teologico, e acquistava coscienza di sè, si sentiva tempo moderno. Era il libero pensiero che si ribellava alla teologia. Era la natura che si ribellava alla forza occulta, e cercava ne’ fatti la sua base. Era l’uomo che cercava nella sua natura i suoi dritti e il suo avvenire. Era una nuova forza, il popolo, che sorgeva sulle rovine del popolo e dell’impero. Era una nuova classe, la borghesia, che cercava il suo posto nella società sulle rovine del clero e dell’aristocrazia. Era la nuova Carta, non venuta da concessioni divine o umane, ma trovata dall’uomo nel fondo della sua coscienza, e proclamata in quella immortale dichiarazione de’ dritti dell’uomo. Era la libertà del pensiero, della parola, della proprietà e del lavoro, l’eguaglianza de’ dritti e de’ doveri. Era la fine de’ tempi divini ed eroici e feudali, il rivelarsi di quella età umana, così ammirabilmente descritta da Vico. Il medio evo finiva; cominciava l’evo moderno.

E che cosa era questa vecchia società, soprapposta a tutto il resto? Ci era alla cima il Papato assoluto e la monarchia assoluta, che si pretendevano amendue di dritto divino, ed erano stampati sullo stesso modello. Il papato pretendea ancora al dominio universale, ma in parola e conscio della scemata possanza. Pur si facea valere mediante i gesuiti, e mantenea vigorosamente la sua influenza e la sua giurisdizione in tutti gli Stati. Come re, il papa governava in modi così assoluti, come tutti i monarchi. L’assolutismo dominava in tutta [p. 332 modifica]Europa. Quello che era la corte romana al cinquecento, erano allora tutte le corti: scostumatezza, dissipazione, ignoranza. I conventi screditati, chiamati covi del vizio, asilo dell’ozio e dell’ignoranza. Il Clero scemato di coltura e di riputazione, aumentato di numero e di ricchezza. I vescovi adulatori in corte, tiranni nelle diocesi, signori feudali. I nobili, a’ piedi del trono, e coi piedi sopra i vassalli. Altare e trono, appoggiati sul Clero e sulla Nobiltà, lì era la libertà, lì era il dritto; tutto il resto era poco meno che cosa, e valeva assai poco. La fonte del dritto era nella concessione papale o sovrana; era investitura, privilegio, immunità, esenzione. Le leggi erano un caos. Leggi romane, longobarde, canoniche, feudali, usi, costumanze. Un altro caos erano le imposte. Ce n’erano del papa, del Clero, de’ baroni, del re, sotto molti nomi e molte forme. Che cosa era il popolo? Materia taillable et corvéable à merci. Nessuna sicurezza per le proprietà e le persone; nessuna protezione nelle leggi, nessuna guarentigia nei giudizii, secrete le procedure, sproporzionate e arbitrarie le pene. Si può dire di quella vecchia società quello che allora già si diceva della proprietà feudale. Era mano morta l’uomo così immobilizzato, come la terra. La palude non era solo nel territorio, era nel cervello.

Dirimpetto a queste classi privilegiate, cristallizzate dal dommatismo, cioè a dire da un complesso d’idee ammesse per tradizione e fuori di ogni discussione, sorgeva lo scetticismo della borghesia, che tutto ponea in dubbio, di tutto facea discussione. La borghesia faceva in grandi proporzioni quello che prima compirono i comuni italiani. Era il medio ceto, avvocati, medici, architetti, letterati, artisti, scienziati, professori, prevalenti già di coltura, che non si contentavano più di rappresentanze nominali, e volevano il loro posto nella società. Non è già che si affermassero anch’essi come classe, e [p. 333 modifica]volessero privilegi. Volevano libertà per tutti, uguaglianza di dritti e doveri, parlavano in nome di tutto il popolo. Qui era il progresso. Ma nel fatto erano essi la classe predestinata, e in buona fede, parlando per tutti, lavoravano per sè. La loro arma di guerra era lo scetticismo. Alla fede e all’autorità opponevano il dubbio e l’esame. Oggi è moda declamare contro lo scetticismo. Pure non dobbiamo dimenticare che di là uscì l’emancipazione del pensiero umano. Esso cancellò l’intolleranza religiosa, la credulità scientifica, e la servilità politica.

Il movimento, che usciva dalle fila della borghesia, non era solo popolare, cioè nelle sue idee e nelle sue tendenze comune a tutte le classi, ma era ancora cosmopolitico, o, come si dice oggi, internazionale. L’accento era umano, più che nazionale. L’America e l’Europa si abbracciavano in un linguaggio che esprimeva idee e speranze comuni; lo svizzero, l’olandese, il francese, il tedesco, l’inglese parevano nati nello stesso paese, educati alle stesse idee. Il movimento era universale nel suo obbiettivo e nel suo contenuto. L’obbiettivo erano tutte le classi e tutte le nazioni. Il contenuto era non solo una riforma religiosa, politica, morale e civile, ma un radicale mutamento nelle stesse condizioni economiche della società, ciò che oggi direbbesi riforma sociale, correndo nel suo lirismo sino alla comunione de’ beni. Nato dal costante lavoro di tre secoli, il movimento per la sua universalità contenea in idea o in germe tutta la storia futura del mondo pel corso di molti secoli. Pure, ciò che era appena un principio, sembrava esser la fine: tanto parea cosa facile effettuare di un colpo tutto il programma.

Dove il movimento si mostrava più energico e concentrato, e di natura assolutamente cosmopolitica, era in Francia. Ed essendo la lingua francese già molto [p. 334 modifica]divulgata, la propaganda era irresistibile. Nelle altre nazioni appariva appena, e nelle sue forme più modeste.

La forma più temperata di questo movimento era l’antica lotta tra Papato e Impero, divenuta lotta giurisdizionale tra la corte romana e le monarchie. In questo terreno i novatori avevano per sè i principi, e all’ombra loro spandevano le nuove idee. I giureconsulti stavano per antica tradizione co' principi, e difendevano i loro diritti contro la Chiesa con una dottrina ed un acume non scevro di sottigliezza sofistica: erano i liberali di quel tempo, e fu loro opera che le nuove idee si dilatassero nella classe colta. Nel campo avverso erano i gesuiti, inframmettenti, intolleranti, che invelenivano la lotta e ne allargavano le proporzioni. Erano essi lo sprone che stuzzicava l’ingegno. In quel contrasto si formò Paolo Sarpi; da quel contrasto uscirono le Provinciali di Pascal, e il giansenismo e la scuola di Portoreale e le libertà gallicane, preludii di quel movimento, che prendeva allora in Francia, proporzioni così vaste. Ma in Italia il movimento iniziato con tanta larghezza e ardire nel cinquecento, arrestato e snaturato dalla reazione trentina, si manteneva ancora in quella forma, era lotta giurisdizionale tra papa e principi. Il pensiero era ito molto innanzi, ma in pochi o tra pochi; ci erano fantasie solitarie; mancava l’eco, non ci era ancora la moltitudine. Ma il movimento in quella forma così circoscritta guadagnava terreno, e costituiva un vero partito politico, intorno al quale stava schierata tutta la borghesia. Era un liberalismo a buon mercato, via a fortuna e favori principeschi, quando rimaneva in quei limiti, e, attaccando curia e gesuiti, si mostrava riverente al papa e alla Chiesa. In Napoli la coltura avea preso questo aspetto, e mentre il buon Vico fantasticava una storia dell’umanità e andava col pensiero così lungi, fervea la lotta giurisdizionale, dov’erano principali attori [p. 335 modifica]giureconsulti eminenti, Capasso, D’Andrea, D’Aulisio, Argento, Pietro Giannone. I gesuiti cercavano appoggio nell’ignoranza popolare, e li predicavano empii e nemici del papa. L’avevano principalmente contro il Giannone, e tanto gli aizzarono contro il minuto popolo, che fu più volte a rischio della vita. Scomunicato dall’arcivescovo per aver lasciato stampar la sua Storia senza il suo permesso, riparò a Vienna, nè osò più tornare a Napoli, ancorchè l’arcivescovo ci avesse avuto torto, e fosse stata ritrattata la scomunica. I giureconsulti sostenevano bastare per la stampa la licenza regia, non avere alcun valore la proibizione ecclesiastica, ed essere invalide le scomuniche senza fondamento di ragione. Era il libero esame applicato alla giurisdizione e agli atti ecclesiastici. E ci era sotto altro, lo spirito laico che si ridestava, e lo spirito borghese che si annunziava, il medio ceto, che all’ombra del principe interessato anche lui nella lotta si facea valere così contro la Nobiltà, come e più contro il Clero.

Da questa lotta uscì la Storia civile del regno di Napoli, e più tardi il Triregno, di Pietro Giannone. La Storia per la sua universalità fu tradotta in molte lingue, riguardando principalmente la quistione giurisdizionale, ardente in tutti gli Stati cattolici. Giannone lasciò gli argomenti e venne a’ fatti, prendendo il potere temporale fino nelle origini, e seguendolo ne’ suoi ingrandimenti e nelle sue usurpazioni. È una requisitoria, tanto più formidabile, quanto maggiore è la calma dell’esposizione istorica e l’imparzialità continuamente ostentata dell’erudizione e della dottrina. Non mancano sarcasmi e punture, ma protesta sempre che è contro gli abusi e le esorbitanze, e affetta il maggior rispetto verso le istituzioni. Vedi prominente l’universalità della chiesa, tutta la comunione dei fedeli, insino a che sorge usurpatore l’episcopato, assorbito a sua volta dal papato. [p. 336 modifica]Il concetto è questo, che il dritto è nella universalità de’ fedeli: è la democrazia applicata alla chiesa. Ma il concetto democratico è annacquato in quest’altro, che i principi, come capi della società laica, hanno ereditato i suoi dritti. Il popolo sparisce, ed entra in iscena Cesare con quel famoso motto: Date a Cesare quel che è di Cesare. I gesuiti ritorcevano l’argomento, sostenendo che la fonte del dritto non è ne’ principi, ma nei popoli. Così democratizzavano i gesuiti per difendere il papato, e democratizzavano i giannonisti per combattere il papato. Erano inconseguenti gli uni e gli altri, e la vera conseguenza doveva tirarla il popolo contro il papato e la monarchia assoluta. S’immagini, quale propaganda inconscia facevano. Era facile conchiudere, che se la fonte del dritto è nel popolo, sovrana legittima è la democrazia, l’universalità de’ fedeli e l’universalità dei cittadini. Il vero padrone mettea il capo fuori, salutando gesuiti e giannonisti, come suoi precursori, benemeriti tutti e due, perchè lavoravano gli uni a scalzare il principato assoluto, gli altri a scalzare il papato assoluto. Erano istrumenti della Provvidenza, avrebbe detto Vico, la quale tirava dall’opera loro risultati superiori a’ loro fini.

Si era sempre parlato dell’età primitiva della chiesa. Una immagine confusa ne rimanea alle moltitudini, come dell’età dell’oro. Dante, Machiavelli, Sarpi, Campanella, richiamavano la Chiesa a quei tempi evangelici, più conformi alla purità del Vangelo. Quello era anche il cavallo di battaglia per gli eretici. Ecco quella età divenuta storia particolareggiata, accertata e in buono e chiaro volgare nelle pagine del Giannone. I primi tre secoli della chiesa sono descritti coll’immaginazione volta alla Chiesa di quel tempo. Scrittore e lettore facevano il paragone. Di mezzo alla narrazione germogliava l’allusione, la confutazione, l’epigramma. Allora la [p. 337 modifica]gerarchia era molto semplice, e non ci erano che vescovi, preti, e diaconi, e i preti non erano soggetti a’ vescovi, ma erano il loro senato, i loro consiglieri, e alla cima non ci era nessuno che comandasse, comandava il Sinodo, l’assemblea de’ Vescovi. La legge era la Sacra Scrittura; i provvedimenti presi nei sinodi erano semplici regolamenti per l’amministrazione delle chiese, e non ci era la ragion canonica, la quale, col lungo correr degli anni, emula della ragion civile maneggiata da’ romani pontefici, ardì non pur pareggiare, ma interamente sottomettersi le leggi civili. La Chiesa non avea alcuna giurisdizione; la sua giustizia era chiamata notio, judicium audientia non jurisdictio; ed era censura di costumi, e arbitrato volontario. Clero e popolo eleggevano i vescovi, e anche nell’elezioni de’ preti e dei diaconi clero e popolo vi avevano lor parte. La Chiesa vivea di offerte volontarie, non avea stabili, e non decime. Ciò che soverchiava, si dava a’ poveri. Tale era la chiesa primitiva; ma assai mostruosa e con più strane forme sarà mirata nell’età meno a noi lontane, quando, non bastandole d’avere in tante guise trasformato lo stato civile e temporale de’ principi, tentò anche di sottoporre interamente l’imperio al sacerdozio. I monaci erano pochi, solitarii, e religiosi, ma la corruzione venne subito, e non senza stupore scorgevasi, come in queste nostre provincie abbiano potuto germogliar tanti e sì varii ordini, fondandovi numerosi e magnifici monasteri, che ormai occupano la maggior parte della repubblica e de’ nostri averi, formando un corpo tanto considerabile, che ha potuto mutar lo stato civile e temporale di questo nostro reame. Come non avea la chiesa giustizia contenziosa nè giurisdizione, così non avea foro, nè territorio; perchè ciò non dipende dalle chiavi, nè è di diritto divino, ma di diritto umano e positivo, proceduto [p. 338 modifica]dalla concessione o permissione de’ principi temporali, ai quali solamente Dio ha dato in mano la giustizia, come dice il Salmista: Deus judicium suum regi dedit. Nè avea potere d’imponer pene afflittive di corpo, d’esilio, e molto meno di mutilazione di membra o di morte; e ne’ delitti più gravi di eresia toccava ai principi di punire con temporali pene i delinquenti. Degli abusi della Chiesa spettava il rimedio a’ principi che facevano leggi per porvi freno, specialmente per gli acquisti de’ beni temporali, e i Padri della chiesa, come sant’Ambrogio e san Girolamo, non si dolevano di tali leggi, nè che i principi non potessero stabilirle, nè lor passò mai per pensiero che perciò si fosse offesa l’immunità o libertà della chiesa. Federico II proibì l’acquisto de’ beni stabili alle chiese, monasteri, Templarii ed altri luoghi religiosi. Ma essendosi nel tempo degli Angioini introdotte presso di noi altre massime, che persuasero non potere il principe rimediare a questi abusi, e riputata perciò la costituzione di Federico empia ed ingiuriosa all’immunità delle chiese, si ritornò ai disordini di prima. E se la cosa fosse stata ristretta a que’ termini, sarebbe stata comportabile; ma da poi si videro le chiese e i monasteri abbondare di tanti stati e ricchezze, ed in tanto numero, che piccola fatica resta loro d’assorbire quel poco ch’è rimaso in potere de’ secolari. Il potere temporale appartiene allo stato in corpo; ma i principi hanno guadagnata e ottenuta la signoria in tutt’i paesi del mondo. E se il romano pontefice e i prelati della Chiesa hanno potere temporale, non è già perchè fosse stato prodotto dalla sovranità spirituale, e fosse una delle sue appartenenze necessarie, ma si è da loro acquistato di volta in volta per titoli umani, per concessioni di principi, o per prescrizioni legittime, non [p. 339 modifica]già iure apostolico, come dice san Bernardo: nec enim ille tibi dare, quod non habebat, potuit.

Questo quadro della Chiesa primitiva accompagnato con tali riscontri ti dà come in iscorcio tutto il processo della storia. La lotta tra le leggi canoniche e le civili è come il centro di un vasto ordito, che abbraccia tutta la storia della legislazione, illuminata dalla storia de’ governi e delle mutazioni politiche. Vico e Giannone erano contemporanei. Giannone era di otto anni più giovane. Ma non parlano l’uno dell’altro, come non si conoscessero. Pure lavoravano su di un fondo comune, le leggi, e riuscivano per diversa via alle stesse conclusioni. L’uno era il filosofo, l’altro lo storico del mondo civile. Tutti e due avvocati mediocri, profondi giureconsulti. Vico si tenea alto nelle sue speculazioni filosofiche e nelle sue origini, e non scendeva in mezzo agl’interessi e alle passioni, e passò inosservato. Ma grandissima fu la fama e l’influenza dell’altro, perchè scende nelle quistioni più delicate di quel tempo, ed è scrittore militante animato dallo stesso spirito de’ combattenti. Parla ardito, e già con quel motteggio, che era proprio del secolo, sente dietro di sè tutta la sua classe, e tutti gli uomini colti. La persecuzione fece di lui un eroe, lo confermò nella sua via, lo spinse fino al triregno, la più radicale negazione del papato e dello spiritualismo religioso, a volerne giudicare da’ sunti. Il manoscritto fu seppellito negli archivi dell’inquisizione. Il suo motto era: bisogna demolire il regno celeste. Non gli basta più la polizia ecclesiastica; vuole colpire il papato nella sua radice, rompendo il legame che stringe gli uomini al cielo. Fa perciò una storia del regno celeste, come prima avea fatto una storia delle leggi ecclesiastiche; e come questa è il centro di un quadro più vasto, quella è il centro di un quadro che abbraccia tutta l’umanità. Mostrare i dogmi nella loro [p. 340 modifica]origine, nelle loro alterazioni, nella loro negazione, scuotere la fede nel dogma della risurrezione degli uomini, questo fa con grande erudizione e con sottili considerazioni. Ma l’ambiente in Italia non era ancora tale, che vi potessero trovar favore idee così radicali, elaborate a Vienna e a Ginevra. La coltura avea sviluppato l’ingegno, ma non avea ancora formato il carattere. In Giannone stesso l’uomo era inferiore allo scrittore. Nè i tempi erano così feroci nella persecuzione, e così assoluti nella proibizione, che rendessero possibili le disperate resistenze sino al martirio. Ci era una mezza libertà e perciò una mezza opposizione. Ci era il liberalismo del medio ceto, rivolto contro i baroni e i chierici, favorito dal Sovrano, e perciò in certi limiti cortigiano, ipocrita, e, come si dice oggi, in guanti gialli. Un saggio delle idee di quel tempo e di questo modo di opposizione ce lo dà il seguente brano di uno scrittore napolitano di quella età: «La giusta idea che fossero i chierici ministri del regno del cielo gli aveva esentati da tutt’i pesi del regno della terra; e la cura destinata loro delle anime e del culto divino gli ha oltre misura arricchiti di beni e privilegi in questo mondo. Non è già nostra intenzione di diminuire in nulla la vantaggiosa opinione del clero presso il popolo; quei ministri della religione li rispettiamo nel fondo del cuore. La religione è una delle prime leggi fondamentali dello Stato; e il senso di tali leggi non deve mai fare l’oggetto della discussione del semplice cittadino. Al consiglio del Sovrano appartiene il decidere delle loro inutilità e vantaggi; siccome la sua suprema potestà ne crea o depone i ministri, ne fissa o sospende l’esercizio, i riti, le funzioni, ne spiega o vela le dottrine, o le vendica, altera ed abroga conformemente a’ lumi che su di ciò la divinità, di cui è il rappresentante gl’ispira. Dico la Divinità, perchè altrimenti che significherebbe [p. 341 modifica]quel Dei gratia Rex? Ascoltare e ubbidire, ecco in questo caso il dovere del suddito. Ma la religione, e soprattutto la vera religione ordina agli uomini di amarsi, vuole che ciaschedun popolo abbia le migliori leggi politiche, le migliori leggi civili. Ella impone a’ suoi ministri l’osservanza di queste leggi. Essi devono dare l’esempio: la loro condotta è la base della purità delle coscienze de’ popoli. Ma, parlando a cuore aperto, hanno eglino da più secoli mai dato, o dànno tuttora un tale esempio? Le loro immunità personali, l’esenzione dei loro beni da’ tributi, le giurisdizioni usurpate, gl’immensi acquisti sorpresi, la maniera rigogliosa con la quale hanno sempre sostenuto tali giurisdizioni ed acquisti, le dottrine bizzarre da loro insegnate a tal fine, e tanti altri loro pretesi privilegi, dritti e riguardi non sono nel fondo tante manifeste infrazioni delle leggi politiche e civili? Essi sono troppo ragionevoli, onde volere sottrarsi all’evidenza di questo argomento. Noi non parliamo a’ sacerdoti di Cibele o di Bacco, e molto meno ai preti di Hume e di Rousseau; noi ci lusinghiamo di ragionare co’ ministri della vera religione, e fra questi soprattutto con quei d’Italia, li quali si son quasi sempre distinti per l’affabilità e dolcezza del loro carattere, non meno che per l’aborrimento pel bigottismo e l’intolleranza. Non vi ha una contea, baronia o altro simile feudo, non vi ha una rendita stabile e fissa, una abitazione comoda e decorosa destinata a compensare i sudori di un ministro di Stato, di un presidente, di un consigliere o di un generale; dove tanti guardiani, priori, vescovi ed abati possedono sotto questo titolo de’ pingui feudi e rendite fisse intatte da’ pesi de’ Sovrani ed intangibili, e le loro abitazioni fanno scorno a quelle de’ principi. I frati, comechè giurino solennemente di osservare una maggior povertà del clero secolare, sono andati più oltre nell’accumulare, e han [p. 342 modifica]tolto a’ poveri secolari i mezzi da potere sussistere. In coscienza potrebbono essi occupare nell’università le cattedre, nella Corte le cariche, nelle parrocchie i pulpiti, e fino nelle case l’intendenza degli affari domestici? Potrebbero senz’arrossire far da speziale, da mercante e da banchiere? In quanto al loro numero, è divenuto così eccessivo, che se i principi non vi mettono presto rimedio, il loro vortice inghiottirà l’intiero Stato. Onde viene che il minimo villaggio d’Italia debba esser retto da cinquanta o sessanta preti, senza contare gl’iniziati di altro rango? Le città vi pullulano di campanili e i conventi fanno ombra al sole. Vi ha in qualcheduno di esse venticinque conventi di frati o suore di san Domenico, sette collegi di gesuiti, altrettante case di Teatini, una ventina o trentina di monasteri di frati francescani forse cinquanta altri di diversi ordini religiosi di ambi i sessi, e più di quattro o cinquecento altre chiese e cappelle di minor conto; ma non vi sono all’incontro che trentasei smilze parrocchie, verun osservatorio astronomico, verun’accademia di pittura, di scultura, di architettura, di chirurgia, di agricoltura e di altre arti e scienze, veruna buona fabbrica di panni o di tele, veruna buona manifattura di seta o di cotone, veruna biblioteca appartenente al pubblico, verun orto botanico o gabinetto di curiosità naturali, o teatro anatomico; veruna cura per rendere i porti netti, le strade comode ed agiate, gli alberghi proprii e le città illuminate, il commercio più vivo. Pensano i chierici di dover sempre sentire i comodi della società senza mai sentirne alcun peso? Che la bilancia penderà sempre a lor favore? Che non vi sarà mai da sperar l’equilibrio?» Pittura viva di quel tempo nelle sue idee e nel suo linguaggio. Si sente a mille miglia il laico, il borghese e l’avvocato. Il Sovrano è per lui l’infallibile. Dovere del suddito è ascoltare e ubbidire. Rispetta la religione; ha il [p. 343 modifica]maggiore ossequio verso i suoi ministri; li accarezza anche; e fra tante dolcezze che botte da orbo! Il suo dispetto è che quelli sieno così ricchi, e lui, cioè loro, fra tante strettezze. Se anche loro avessero un feudo, passi. Ci si vede l’effetto della coltura. Il confronto fra tante chiese e conventi, e tanta negligenza di scienze, arti, industrie e commerci, è eloquente. Si sente il progresso dello spirito con un carattere ancora volgare. L’animo è ancora servile, lo spirito si è emancipato. Tali erano i giureconsulti, da’ quali usciva il movimento liberale, in quella forma un po’ grottesca tra l’insolenza verso il prete, e la servilità verso il Sovrano. Pure, teneri com’erano delle leggi, doveano essere portati naturalmente, per necessità della loro professione, a combattere l’arbitrio non solo ne’ chierici, ma anche ne’ laici, e a promovere una monarchia non più assoluta, ma legale, se non liberale. Questa tendenza è già manifesta in Giannone. Adora le leggi romane, ma adora innanzi tutto la legge, ed è inesorabile verso l’arbitrio. «Fin da’ primi tempi, egli dice, della repubblica niente altro bramavasi dalla licenziosa gioventù romana, salvo che non esser governati dalle leggi, ma che dovesse al re ogni cosa rimettersi ed al suo arbitrio, come nota Livio: Regem hominem esse, a quo impetres ubi Jus, ubi iniuria opus sit, leges rem surdam, inexorabilem esse. Sentimenti pur troppo licenziosi e dannevoli. Meglio sarà che nella repubblica abbondino le leggi, che rimetter tutto all’arbitrio de’ magistrati.»

Così la quistione ecclesiastica si allargava, e diveniva quistione legale, combatteva l’arbitrio sotto ogni forma. Le usurpazioni de’ nobili e de’ chierici erano contrastate, come illegittime, contrarie alle leggi politiche e civili. E del pari erano biasimati gli atti arbitrarii nelle autorità secolari, e anche nel Monarca. In questo pendio si andava molto innanzi. Arbitrio erano non solo gli atti [p. 344 modifica]fuori delle leggi, ma le leggi stesse non conformi a giustizia ed equità. Gli scrittori cominciarono a notare tutt’i disordini e abusi nelle leggi civili e criminali, e i principi lasciavano dire, perchè non si toccava della forma de’ governi, nè era messa in dubbio la loro potestà, anzi si facea loro appello per isradicare gli abusi. Il moto liberale in Italia non veniva dalla filosofia o da ragioni metafisiche, come dicea Giannone, ma da un intimo sentimento di legalità e di giustizia. Al cinquecento il motto dei riformatori era la corruttela de’ costumi. Allora fu la ingiustizia delle leggi. Quel moto era religioso ed etico; questo era politico, quello stesso moto sviluppato nelle sue premesse e allargato nelle sue conseguenze.

Il movimento, rimasto in gran parte speculativo e senza immediate applicazioni in Bruno, in Campanella, in Vico, quasi ancora un’utopia, allargandosi nella classe colta, si concretava nello scopo e ne’ mezzi per opera principalmente de’ giureconsulti. Scopo era combattere i privilegi ecclesiastici e feudali in nome dell’eguaglianza, combattere l’arbitrio in nome della legge e riformare la legge in nome della giustizia e dell’equità. La leva era il principato civile, elemento laico, legale e riformatore, sul quale si appoggiavano le speranze dei novatori. Le idee erano sviluppate con grande erudizione, con molta sottigliezza d’interpretazioni e di argomentazioni, come di gente avvezzate alle dispute forensi. In Germania il movimento era appena spuntato, rimasto nelle alte regioni della speculazione. Il sensismo di Locke avea generato lo scetticismo di Hume, e n’era nata una nuova speculazione sull’intelletto umano, una filosofia o una critica dell’intelletto, del quale Locke avea scritta la storia. Kant e poi Fichte concentravano lo spirito in quegli ardui problemi, e attendevano a gittare profonde le radici prima di alzare l’albero, pensavano alla base, sulla quale dovea sorgere la civiltà [p. 345 modifica]nazionale. Di questi filosofi in Italia era appena penetrato Locke, e in una traduzione mutilata dalla censura. Il movimento, come si andava sviluppando nell’Inghilterra e in Germania, aveva appena qualche eco in Italia, anzi anche colà penava a farsi via, dominato dagl’influssi francesi. La Francia era la grande volgarizzatrice delle idee dal secolo anteriore elaborate, era non la dimostrazione, ma l’epilogo, non la ricerca, ma la formola, non la speculazione, ma l’applicazione, la scienza già assodata ne’ suoi principii e divenuta catechismo, in una forma letteraria e popolare, che rendeva la propaganda irresistibile. La negazione giungeva all’ultima sua efficacia nell’ironia bonaria di Voltaire, con tanto buon senso sotto tanta malizia. L’affermazione giungeva alla precisione di un catechismo in Rousseau, che combatteva quella società convenzionale in nome della società naturale, dalla quale scaturivano i dritti dell’uomo, il suffragio universale e la sovranità del popolo. Già la sua non era quasi più una speculazione filosofica; era una Bibbia, filosofia divenuta sentimento, e calata nell’immaginazione. Montesquieu sollevava i più ardui problemi di politica e di legislazione, in una forma incisiva, la quale, più che scienza, era sapienza condensata e formulata. Intorno a questi centri si aggruppavano gli enciclopedisti, e una moltitudine di scrittori diversi d’ingegno e di coltura, ma tenuti tutti a quel tempo grandi uomini. Ben presto non ci fu più uomo colto in Italia che non li leggesse avidamente.

Abbondarono i filosofi, i filantropi e gli spiriti forti, i nuovi nomi de’ liberali o degli uomini nuovi, o novatori. I filosofi erano filantropi o amici dell’uomo, o umanitarii, e insieme spiriti forti, o liberi pensatori, che in nome della ragione o della scienza condannavano tutto ciò che nelle idee o ne’ fatti se ne allontanava. La loro azione pubblica era avvalorata dalle associazioni secrete [p. 346 modifica]de’ Franchi Muratori, mossi dagli stessi fini, e dagli stessi sentimenti. Emancipare il pensiero e l’azione da ogni ostacolo esteriore, religioso o sociale, uguagliare giuridicamente le classi, provvedere all’istruzione e al benessere delle classi inferiori, queste erano le basi del nuovo edificio che si voleva costruire. Credevasi che tutto questo si potesse ottenere con articoli di leggi, a quel modo che avevano fatto Solone, Licurgo, Numa. E blandivano i sovrani, e li predicavano istrumenti provvidenziali per il rinnovamento del mondo. Si formò una pubblica opinione, il cui centro era Parigi, la cui voce erano i filosofi. Seguire la pubblica opinione, fare alcune riforme secondo i dettami de’ filosofi era un mezzo di governo, un modo di acquistarsi fama e popolarità a buon mercato, come era nel secolo decimosesto il proteggere letterati e artisti. Il gran delitto del secolo, il violento attentato alla nazionalità polacca rimase seppellito sotto quel nembo di fiori che i filosofi sparsero sulla memoria di Elisabetta e Caterina II, di Maria Teresa e Giuseppe II e di Federico II, i cortigiani e i corteggiati di Voltaire, di D’Alembert, di Raynal, e degli enciclopedisti. Nè voglio già dire che fossero riformatori solo per calcolo: chè sarebbe calunniare la natura umana. Riforme benefiche, e non pericolose alla loro autorità, anzi buone a rafforzarla, le facevano volentieri, cospirando insieme l’utile proprio e l’interesse pubblico: il calcolo si accompagnava col desiderio del bene, col piacere delle lodi, e con l’intima persuasione, imbevuti com’erano delle stesse idee. Il simile avveniva in Italia. I principi gareggiarono nelle riforme, Carlo III e Ferdinando IV, Maria Teresa e Giuseppe II, Leopoldo, Carlo Emmanuele, e fino papa Ganganelli, che alla pubblica opinione offerse in olocausto i gesuiti. I filosofi, domandando in nome della libertà e della uguaglianza l’abolizione di tutt’i privilegi feudali, ecclesiastici, comunali, [p. 347 modifica]provinciali, e di ogni distinzione di classi o di ordini sociali, avevano seco i principi, che lottavano appunto da gran tempo per conseguire questo scopo, fondando il loro potere assoluto sulla soppressione di ogni libertà o privilegio locale. Fin qui filosofia e monarchia assoluta andavano di conserva. Lo stesso accordo era per le riforme economiche amministrative e giuridiche, come semplicizzare le imposte, unificare le leggi, svincolare la proprietà, promovere l’industria e il commercio e l’agricoltura, assicurare contro l’arbitrio la vita e le sostanze de’ cittadini. I principi, ci stavano, e qual più, qual meno erano innanzi in quella via. Pensavano che, fiaccato il clero e la nobiltà, sciolte le maestranze, rimosse tutte le resistenze locali, sarebbe rimasta nelle loro mani la signoria assoluta, assicurata da due nuovi ordigni che succedevano a quella campagine disfatta dal medio evo, la burocrazia e l’esercito. E non pensavano che i principii da cui movevano quelle riforme, e che costituivano la pubblica opinione, menavano a conseguenze più lontane, essendo impossibile che abolendo i privilegi rimanesse salvo il privilegio più mostruoso, ch’era la monarchia assoluta e di dritto divino, e che, frenando l’arbitrio nei preti, ne’ baroni e ne’ magistrati, potessero essi governare a lungo co’ biglietti regii e i motuproprii. Erano conseguenze inevitabili, che presto o tardi avrebbero condotta la rivoluzione anche se la Francia non ne avesse dato l’esempio. Ma per allora nessuno ci badava, e si procedeva allegramente nelle riforme, persuasi tutti che bastassero ministri illuminati e principi paterni per potere pacificamente e per gradi rinnovare la società. Gli scrittori non impediti, anzi incoraggiati e protetti, lasciavano le speculazioni astratte, e trattavano i problemi più delicati e di applicazione immediata con quella sicurezza che veniva e dall’applauso pubblico e dalla benevolenza de’ principi, direttori della pubblica felicità. [p. 348 modifica]Beccaria dice: «I grandi monarchi, i benefattori dell’umanità, che ci reggono, amano le verità esposte dall’oscuro filosofo, e i disordini presenti sono la satira e il rimprovero delle passate età, non già di questo secolo e de’ suoi legislatori». E Filangieri con entusiasmo meridionale così conchiude il libro secondo della sua Scienza della Legislazione: «Il filosofo dee essere l’apostolo della verità e non l’inventore de’ sistemi. Il dire che tutto si è detto, è il linguaggio di coloro che non sanno cosa alcuna produrre, o che non hanno il coraggio di farlo. Finchè i mali che opprimono l’umanità non saranno guariti; finchè gli errori e i pregiudizi che li perpetuano, troveranno de’ partigiani; finchè la verità conosciuta da pochi uomini privilegiati sarà nascosta alla più gran parte del genere umano; finchè apparirà lontana da’ troni, il dovere del filosofo è di predicarla, di sostenerla, di promuoverla, d’illustrarla. Se i lumi che egli sparge non sono utili pel suo secolo e per la sua patria, lo saranno sicuramente per un altro paese. Cittadino di tutt’i luoghi, contemporaneo di tutte le età, l’universo è la sua patria, la terra è la sua scuola, i suoi contemporanei e i suoi posteri sono i suoi discepoli». La filosofia è già oltrepassata. Non la si dimostra più, è un antecedente generalmente ammesso. Lo scopo non è fare una filosofia, inventare un sistema. Lo scopo è un apostolato, propagare e illustrare la filosofia, cioè la verità conosciuta da pochi uomini privilegiati. È la verità annunziata con tuono di oracolo, col calore della fede, come facevano gli apostoli. È una nuova religione. Ritorna Dio tra gli uomini. Si rifà la coscienza. Rinasce l’uomo interiore. E rinasce la letteratura. La nuova scienza già non è più scienza; è letteratura.