Scola della Patienza/Parte prima/Capitolo VI

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CAP. VI

Quali siano in particolare quelle colpe, che sopra tutto s’hanno da fuggire nella Scuola della Patienza.


V
I fù una volta uno, che gettò in occhio à Bione filosofo, che non havesse potuto tirare alla sua scuola un giovane ch’egli molto amava. A cui Bione così rispose: Ascolta (gli disse) il mio huomo da bene: Non ti maravigliare, perche quel giovane è un formaggio fresco, e tenerello, nè si può così facilmente tirar con l’hamo, con il quale detto volse prudentemente darli ad intendere, che i giovani delicati erano poco atti alli studij, perche il [p. 262 modifica]gio vecchio hà bene qualche magagna, mà il fresco, e tenerello n’ha molto più assai, e à questo si possono assomigliare alcuni scolari non senza qualche ragione. Poiche fra la turba di molti scolari ve ne sono sempre alcuni, che à guisa di formaggio fresco, hanno mille vitij, son tutti pieni d’astutie, e d’inganni, e non sanno quasi far’altro, che ingannare. Sia pure un Argo il maestro, habbia pure à sua posta cent’occhi, che non potrà mai à bastanza scoprire le frodi loro. Il voler raccontare tutti i vitij de i scolari, saria una cosa infinita. Io brevemente ne dirò alcuni distintamente. Otto sorti di colpe per il più si sogliono commettere dagli scolari nelle scuole.

Et altre tante quasi ne commettono nella Scuola della Patienza i scolari poco ben disciplinati. Quelle sono le seguenti. Primo, non saper la lettione. 2. Ciarlare, [p. 263 modifica]e far delle baie. 3. Non portare il latino. 4. Fuggir la scuola. 5. Contrastare, ò dar fastidio à gl’altri scolari. 6. Dipingere diversi scarabotti, dormire, e non star’attenti quando si legge la lezione. 7. Fingere d’essere ammalati. 8. Dir bugie, e mormorare quando sono ripresi. Queste sono otto sorti di colpe, che non sono mai state tollerate, nè si devono mai tollerare nella Scuola della Patienza. Adesso noi anderemo brevissimamente dichiarando queste otto sorti di colpe, che sono le più conosciute, per guardarcene.


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§. 1.


L
A prima colpa, che si commette nelle scuole è il non saper la lettione, overo fingere solamente di saperla. Già si sa molto bene quello, che dice il maestro quando dice: Recita, ò tale, sù recita presto. Mà, che fà lo scolare da poco, e pigro à queste [p. 264 modifica]voci? Non altro se non, che borbottando sottovoce dice: Non la sò. Ovvero comincia così adagio adagio, ad ogni poco impunta, guarda spesso di nascosto il libro, molte cose lascia, e molte malamente le dice. Mà questo, e non saperla tutto è uno.

Quel divotissimo Autore Tomaso di Kempis introduce Christo che parla à questo modo. Dupliciter soleo electos meos visitare, tentatione scilicet, et consolatione. Et duas lectiones eis quotidie lego, unam increpando eorum vitia; alteram exhortando ad virtutum incrementa. 1 In due modi io soglio visitare i miei eletti, cioè con la tentatione, e con la consolatione, e ogni giorno leggo loro due lezioni. Una riprendendo i lor vitij: l’altra essortandoli all’accrescimento delle virtù. In questa maniera suol Christo far le sue lettioni. Mà quando s’han da reci[p. 265 modifica]tare queste lettioni? La sera in particolare, quando si hà da fare l’essame della Conscienza. Quivi il maestro ci dice: Horsù recita la lettione, recita; in che cosa ti sei hoggi fatto migliore, e di qual peccato ti sei emendato? Che vitio hai cominciato à tralasciare? sù Recita, Recita, e vediamo un poco, se tù sai bene la lettione.

E’ cosa non solamente da Religiosi, mà ancora da qualsivoglia altra sorte d’huomini l’essaminar bene le parole, i fatti, e i pensieri d’ogni giorno. Questo fecero ancora Seneca, Publio Sestio, e altri col solo lume della ragione. Questo insegnarono con l’esempio loro huomini santissimi; e questa oggi è l’usanza delle persone divote, d’essaminarsi ogni giorno diligentemente, e rivedere ogni sera tutti i più riposti nascondigli della Conscientia.

Et in vero, che questo ci detta [p. 266 modifica]la ragione; che prima d’andare a dormire cerchiamo di placare Iddio per le offese, che gl’habbiamo fatto il giorno; accioche, se col sonno a sorte s’accompagnasse la morte (il che in nessun modo potiamo sapere) non fossimo ancor forzati d’andare all’Inferno. E poi, quanto è ragionevol cosa il ringratiar Dio ogni giorno almeno una volta, de i beneficij ricevuti, il dimandar perdono delle colpe commesse, il proponere d’emendarsi per l’avenire, e d’esser più cautelato, e casto, ne i pensieri, nelle parole, e nelle attioni? E quegli, che temerariamente dispreggia queste cose, e si mette in letto senza prima essersi riconciliato con Dio, almeno con qualche minima parolina, è più tosto una bestia, che un’huomo.

Adunque, Christiano mio, Recita, Recita. Essaminati la conscienza del giorno passato. Poi[p. 267 modifica]che non sà la lettione colui, che se ne và à dormire, senza prima trattare con Dio, e raccomandarsi à Lui.

Mà lo scolare qualche volta recita, mà però malamente, e ad ogni parola vi frammette qualche altra cosa, che non fa à proposito. Così fanno quelli, che si mettono bene à far l’essame della conscienza ò à far’oratione, mà pieni di molti altri pensieri, e così recitano à tentone, e v’intromettono mille spropositi: Dichiariamoci con un essempio. Si trova talvolta alcuno, che dice il Pater Noster di questa maniera: Pater noster, qui es in caelis, e in questo mentre la mente si distrahe per la casa, e và cercando, che cosa si faccia in cucina, ò nella cantina, ò nel Granaio. Santificetur nomen tuum. e l’animo aggiugne: M’è stato fatto un gran torto questa settimana. Adveniat Regnum tuum. [p. 268 modifica]E’ una gran cosa questa, che ancor non voglian terminarsi queste guerre. fiat voluntas tua, sicut in caelo, et in terra. la povertà mi tratta molto male, s’io fussi più ricco forse starei meglio; à questo modo, me ne sto basso, miserabile, e da tutti disprezzato.

O Christiani, e che oratione è questa? Questo è un fermarsi ad ogni parola, questo è un sapere la lettione, e un pessimo recitare. Mà niuno portarà mai bene la croce, che farà malamente l’oratione. Vedete un poco di gratia un pessimo Rè Manasse, che poi si riconobbe. Qui postquam coangustatus est, oravit Dominum Deum suum, et egit poenitentiam valde; deprecatusque est Deum, et obsecravit intente.

Il quale dopo, che si vide alle strette pregò il Signor Iddio suo, e fece una gran penitenza; e pregava, e supplicava Dio con [p. 269 modifica]molta attenzione, e applicatione. Questo è quello, che Dio vuole, essere, pregato, e supplicato intente, con attenzione, e senza volontarie distrattioni.

Note

  1. [p. 291 modifica]Laert. l. 4. c. 7 .a. Thom. de Kemp. l. 3. c. 3. in fi. Vid. Trismegistum Auctoris l. 1 de Examine conscientiae per plura capita. c. 2 Par. c. 33. 2.

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§.2.


L
’Altra colpa, che si commette nelle scuole, è il ciarlare, e parlare senza proposito. E questo che altra cosa è, che l’andar cercando consolationcelle, e trattenimenti vani da queste cose create, e lamentarsi sempre in darno con alcuni, da i quali non se ne può sperare nè consiglio, nè aiuto di veruna sorte. E’ molto poco prattico quel mendico, e non sà far l’arte sua altrimente, che và dimandando limosina per le case de’ poverelli. Che buona limosina potrà [p. 270 modifica]giamai havere da essi? Quivi habita la Dea Inopia, nè hà per inquilini altri, che poveri mendichi. Et il mendicare, e cercare limosina da i poverelli, e da’ mendichi, è un gran sproposito, e cosa veramente da ridere. Và alle case de’ ricchi, và, il mio povero mendico, qui grida, qui fatti sentire, e picchia forte à queste porte: Una sol casa ricca ti può dar più larga limosina, che cento case di poverelli insieme.

Così à punto si ingannano di grosso coloro, che sperano liberarsi delle calamità, e dalle afflittioni con vanissime dilettationcelle. Quando questi tali hanno qualche tribulatione si procurano compagni, fanno conviti, vanno à balli, e à festini, passano il tempo in giuocare, e passeggiare, consumano l’hore, che sono pretiosissime, con inutilissimi ragionamenti, e pensano di fare alcuni viaggi [p. 271 modifica]poco necessarij.

O poverelli! Che importa mettere l’amalato in un letto di legno ò pur in un letto d’oro, se dovunque noi lo portaremo, ancor egli portarà seco la malatia? Il fondamento d’una mente pacata, e quieta è il non rallegrarsi di cose vane. Quelle allegrezze non riempiono il petto, mà solo alleggeriscono un poco: sono leggieri, nè possono rimediare in tutto, e per tutto alle afflittioni. Vano, e torbido è questo piacere, nè leva, mà accresce l’infermità.

Non enim Gaza, neque consularis
Summovet lictor miseros tumultus
Mentis, et curas laqueata circum
Tecta volantes.1

Perche nè le ricchezze, nè potenza alcuna humana è bastante à placare i miseri tumulti della mente, nè à scacciare i pensieri, i tra[p. 272 modifica]vagli, e le afflittioni, che se ne vanno attorno alle case de’ miseri mortali.

L’allegrezza soda nasce dalla buona conscienza. Perche nè l’andar attorno, nè la varietà de’ luoghi leva la tristezza, nè alleggerisce li affanni della mente. Bisogna mutar l’animo non l’aria. In qualunque luogo ce n’andiamo, ci vengono appresso i nostri vitij. Essendo di ciò dimandato da una persona un certo Socrate così le disse: Quid miraris, nihil tibi peregrinationes prodesse, cum te ipsum circumferas. Premit te eadem causa, quae expulit. Quid terrarum iuvare novitas potest? Quid cognitio Urbium, aut locorum? In irritum cedit ista iactatio. Quaeris, quare te fuga ista non adiuvet? Tecum fugis, Onus animi deponendum est. Non ante tibi ullus placebit locus.2 Che maraviglia, che l’andare attorno [p. 273 modifica]non ti giovi à niente poiche dovunque tu vada porti teco te stesso? e l’istessa cagione, che ti fece partire dalla tua patria, è quella, che hora ti dà fastidio. Che ti può giovare il veder nuovi paesi? Che cosa ti può giovare la notitia di diverse città, e d’altri luoghi? In vano ti pigli cotesta fatica. Vuoi tù sapere perche cotesta tua fuga non ti giovi? Tu fuggi in compagnia di te stesso. Bisogna, che tu deponga il peso dell’animo perche prima di far questo non troverai luogo alcuno, che ti piaccia. Il viver bene si trova in ogni luogo.

Perciò con queste dilettationcelle il dolore si sopisce, e cessa alquanto, mà torna presto più gagliardo, e tanto più forte si fa sentire, quanto meno in quel poco spatio si sentiva. Giob rincrescendoli assai d’una consolatione così vana diceva: Audivi frequenter talia, consolatores onerosi omnes [p. 274 modifica]vos estis.3 Io hò sentito molte volte cose simili; Tutti voi altri sete consolatori troppo fastidiosi. L’istesso tu puoi dire delle creature. Sono consolatori, che molto più gravano, che alleggeriscano. Che stiamo dunque a pascerci di vanissimi ragionamenti, perche cerchiamo aiuto dalle creature? Ecco, che l’istesso creatore offerendoseci prontamente ci dice: Ego, Ego ipse consolabor vos.4 Io stesso, io sarò quello, che vi consolarò. Venite ad me omnes, qui laboratis, et onerati estis, et ego reficiam vos.5 Venitevene pur da me tutti voi altri, che travagliate, e vi sentite carichi, ch’io vi ristorarò. Lasciamo dunque andare le consolationi vane, se habbiamo cervello, e per haverlo procuriamo d’havere una buona, e perfetta patienza.

Note

  1. [p. 296 modifica]Hor. l. 2. carm. Od. ib.
  2. [p. 296 modifica]Sen. ep. 28
  3. Iob. 16. 2.
  4. Is. 51. 12.
  5. Matt. c. 11.28

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§. 3.


L
A terza colpa in questa Scuola è il Non fare il latino. Sollecito perciò un certo Padre così essorta il suo figliuolo.
Scribe puer, vigila, causas age, perlege rubras
Maiorum leges.1

Scrivi figliuolo mio, stà vigilante, non dormire, fa le cause, e studia bene le leggi de’ nostri maggiori, E, che altro significa in questo luogo il portare per tempo il latino, se non l’antivedere, e la premeditatione dell’animo? Si deve preparare molto bene l’animo per le cose future, accioche venendo poi all’improviso qualche rovina, con la sua mole subbito non l’opprima. E Seneca con gran prudenza così ci avvisa: In ipsa securitate animus ad difficilia se praeparet. Miles decurrit sine ullo hoste, vallum iacit, et supervacuo labore lassatur, ut sufficere [p. 276 modifica]necessario possit. 2 Apparecchisi l’animo per le cose difficili mentre stà sicuro. Poiche il soldato, ancorche non vi sia nemico alcuno, se ne và scorrendo per molte miglia armato, fa trinciere, e per soverchia fatica ancor si stanca; solamente per poter supplire quando sarà il bisogno. Quegli che tu vorresti, che non ti manchi poi sul fatto, essercitavelo prima molto bene. Procuriamo, che la calamità, e l’afflittione non ci trovino spreparati.

Quei tre Apostoli non fur solamente una volta ripresi dal maestro loro là nel monte Oliveto. Perche ciò? Pensavano, che la cosa s’havesse a determinare per punta di spada, quando bisognava starsene cheti: fuggivano, quando bisognava star saldi: dormivano, quando bisognava vegliare; e tutti scioperati se ne stavano oziando quando era tempo di fare [p. 277 modifica]oratione. Non si apparecchiarono per quello, che havesse potuto avvenire, anchorche Christo, a far ciò li havesse con tanta sollecitudine essortati con queste parole: Vigilate, et orate, ne intretis in tentazionem: spiritus quidem promptus est, caro autem infirma.3 Vigilate, e fate oratione, accioche non entriate in tentatione. Lo spirito veramente è pronto, ma la carne è debole, e fiacca. Ma essi, nè vegliarono, nè fecero oratione, e così un’improvviso vento li gettò subbito per terra.

L’Ecclesisatico raccomandandoci molto questo avvedimento dice così: Fili accedens ad servitutem Dei, sta in iustitia, et in timore, et praepara animam tuam ad tentationem. 4 Figliuolo tu, che cominci à servire Dio, stà saldo nell’osservanza della divina legge, e stà sempre con timore, e apparecchiati per la tentatione. [p. 278 modifica]Perche le cose inaspettate gravano più, e l’istessa novità aggiunge un gran peso all’afflittione. Ciò, che per lungo tempo s’è aspettato, più piacevolmente se ne viene. E perciò niuna cosa ci deve esser’improvvisa. Deve l’animo antivedere il tutto; e si hà da pensare non tutto ciò, che si suol fare, ma si ben tutto ciò, che si può fare.

Perciò s’ha da formar talmente l’animo, che intenda, e sopporti con patienza la propria sorte, e sappia, che può occorrere a lui ancora, tutto ciò, che ad altri accade. Datti pur dunque ad intendere tù, che vieni à questa Scuola, e persuaditi d’haver a patire molte cose. Mà chi è quello, che si maravigli di sentir freddo nell’inverno; di patir nausea nel mare; di esser sbattuto mentre và in carrozza, e d’imbrattarsi in una via fangosa? Forte è quell’animo, che stà apparecchiato a queste cose. [p. 279 modifica]

Mà vi sono alcuni scolari, che talvolta portano il latino fatto al maestro, mà con pessimo inganno; tutto quello, che portano scritto al maestro l’hanno prima ricopiato da un’altro. E questo fra’ Christiani si fa in questo modo. Si trovano alcuni così fedeli difensori della propria dapocaggine, che ogni volta, che sono avvisati di qualche cosa, ò sono corretti, subito ti gettano in occhio: E che, io solo son corretto? Nè questo, nè quello, nè quell’altro hà fatto altrimenti di quello, che hò fatto io. Ne meno questo altro può sopportare tali parole ne si lascia burlare, ne può dissimulare tutte le cose: E quelli ancora mostrano la faccia, ne questi si sottomettono à tutti, e fanno molto bene. Perche non posso far’io ciò, che questi, e quelli fanno? Perche io solo hò da esser di peggior condittione di tutti gli altri? [p. 280 modifica]

O che malo argomento, O che brutto latino! Così andiamo quasi descrivendo gl’altrui costumi, e co’i nostri gl’imitiamo. Se ci componiamo a i mali essempi d’altri, e stimiamo dolce il perir con l’altra turba, veramente siamo troppo ridicoli. Che difesa posson fare i vitij altrui all’impatienza nostra? Habbiamo più illustri essempi della antica santità per imitare. C’invita S. Paolo dicendo: Imitatores mei estote fratres, et observate eos, qui ita ambulant, sicut habetis formam nostram: multi enim ambulant, quos saepe dicebam vobis (nunc autem, et flens dico) inimicos crucis Christi, quorum finis interitus. 5 Fratelli siate pure miei imitatori, e osservate quei, che caminano come fò io: Perche vi sono molti, che caminano talmente, come io gà vi dicevo, e hora ancor ve’l dico con le lagrime à gli occhi, che paiono tanti nemici [p. 281 modifica]della croce di Christo, e del patire, e ’l fine di questi tali non è altro, che la morte. Adunque e le calamità s’hanno d’antivedere, e prevenire; e sempre si devono imitare quelli essempi di virtù, che fra gl’altri sono più nobili, e illustri.

Note

  1. [p. 303 modifica]Iuvenal. Sat. 14
  2. [p. 303 modifica]Sen.
  3. [p. 303 modifica]Matth. 26. 41.
  4. [p. 303 modifica]Eccli. c. 2. 1.
  5. [p. 303 modifica]Phil. c. 3. 17.

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§. 4.


L
A quarta colpa è il fuggir la scuola, e lassar d’andarvi senza causa. E quest, che altro è, se non che fuggire l’afflittioni ma in modo non concesso. E’ lecito di medicare l’infermità, ma con legittimi rimedij. E’ lecito uscire dalla mendicità, ma senza inganni, e danno altrui. E’ lecito il mantenersi la riputatione, ma non con l’impatienza, nè con la superbia. Accade talvolta, che i scolari per paura del castigo se ne fugghino fuor di scuola, e lassino il mantello [p. 282 modifica]in mano del maestro. Così costoro si difendono la riputatione, ma perdono la veste dell’humiltà, e della modestia. O Christiano mio, che sei così superbo, quanto ti saria stato meglio perder qualche poco di rιputatione, e ritenerti la modestia.

Ci essorta S. Pietro con queste parole: Carissimi, nolite peregrinari in fervore, qui ad tentationem vobis sit, quasi novi aliquid vobis contingat; sed communicantes Christi passionibus gaudere, ut et in revelatione gloriae suae eius gaudeatis exultantes.1 Carissimi miei, non vogliate andar attorno con tal fervore, che vi sia causa di tentatione, come se vi accadesse qualche cosa di nuovo, mà rallegratevi talmente comunicando con la passione di Christo, che possiate poi compitamente rallegrarvi, e far festa quando si rivelerà la gloria sua. Egli ci avvertisce [p. 283 modifica]che quando l’afflittione, è in colmo, e stà in fervore, non stiamo ad andare attorno, con partirci dalla Scuola della Patienza per andare altrove, perche le calamità non si fuggono fuggendo. Del che avvertendoci religiosissimamente quel Sacro Scrittore dice: Multi quaerunt tentationes fugere, et gravius incidunt. Per solam fugam non possumus vincere, sed per patientiam, et veram humilitate, omnibus hostibus eficimur fortiores.2 Molti cercano di fuggir le tentationi, e cadono in esse molto più gravemente. Col solo fuggire, non possiamo vincere; mà con la patienza, e vera humiltà diventiamo più gagliardi di tutti gl’inimici.

Perciò dice S. Agostino: Qui hic non sua quaerit, sed Iesu Christi; labores patientissime tolerat, promissa fidenter expectat. Paratum est cor eius sperare in [p. 284 modifica]Domino, neque ullis tentationibus frangitur.3 Colui, che non cerca le cose sue mà quelle di Giesù Christo, sopporta con grandissima patienza le fatiche, e aspetta con fede le cose promesse. Il suo cuore stà apparecchiato a sperare nel Signore, nè viene superato da alcuna tentatione.

La peggior cosa, che in questo negozio possa trovarsi è, quando nelle malattie si dimanda consiglio ai maghi, e ai fattucchieri, quando s’adoperano incanti, devozioni superstitiose, e magiche vanità. Nè questo è altro, se non con honesta apparenza pigliar per medico il demonio.

Elia profeta disse in faccia all’empio Rè Ochozia: Haec dicit Dominus, Quia misisti nuntios ad consulendum Beelzebub Deum Accaron, quasi non esset Deus in Israel, a quo posses interrogare sermonem, ideo de lectulo, super [p. 285 modifica]quem ascendisti, non defendes, sed morieris.4 Questo ti manda a dire Iddio. Perche hai mandato a pigliar consiglio da Belzebub Dio d’Accaron, come non vi fusse Iddio in Israel per ricorrere a consigliarti con lui; perciò non ti leverai da cotesto letto dove tu sei, ma morirai giustissimamente. E così se ne morì. Degno supplicio di colui, che per mezo d’incanti, e maleficij voleva, che gli fusse restituita la sanità. Onde elegantemente disse S. Agostino: Ubi homo aegrotat, et Deus curat, magnum pietatis, et sanitatis indicium est.5 Dove l’huomo s’amala, e Dio è ’l medico, ivi è un gran segno di divotione, e sanità.

Note

  1. [p. 307 modifica]1. Pet. c. 4.
  2. [p. 307 modifica]Thom de Kemp. l. 1. de imit. Chr. c. 13. 3.
  3. [p. 307 modifica]S. Aug. in Ps. in 7. post med.
  4. Aug. in Ps. 7 post med.
  5. Aug. in Ps. 147 post init.

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§. 5.

L
A quinta colpa è, il contrastare, e darne hora a questo hora a questo, e hora a quello, questo è un vitio molto usato nelle scuole: darsi dei pugni l’un l’altro; poiche questa è spesse volte la conclusione de i contrasti, confermare le parole co i pugni. E quante volte s’odono dire quelle parole. Grandissimo Traditore, tù sei stato causa, ch’io ce n’habbia havuto; statti pure, che me la pagherai; e aspettane da me il dovuto premio. Sono vitij, che ci vengono d’Adamo lo scusar se stesso con accusar altri, e con simulatissime parole cercare di trasferir tutta la nostra colpa in altri.

Un’huomo impatiente hà in pronto sempre la guerra, nè gli manca mai, che mettere in lite, e in contrasti. Spesse volte sono cose leggierissime quelle, per le quali non leggermente ci turbia[p. 287 modifica]mo, e andiamo in collera, come a un punto sono quelle, che fanno contrastare insieme gli scolarelli. Siamo essacerbati da cose minime, e sordide: Occorre talvolta, che il servitore non è così lesto, e avvertito, la tavola non è così ben posta, e accommodata, ò la veste mostra qualche ruga; che subito si mostra fuori l’ira, e l‘impatienza. Anzi, il tossire d’alcuno, ò lo sternutare d’un altro, ò una mosca così non così ben cacciata, ò una chiave, che disavvedutamente cada di mano a qualche servitore, ò una porta malamente chiusa ci fa venire la rabbia. E come poi sopportaremo l’ingiurie, e le villanie se ci dà fastidio lo strepito di uno scabello ò d’una sedia, che si tira per sedere? E come patiremo la fame, e la sete, se un cibo, che sia un poco adusto ci mette sottosopra tutto lo stomaco? Un’animo male affetto, d’ogni minima cosa s’offende; di maniera tale, che [p. 288 modifica]l’istesso saluto, lo sguardo, il silentio, il riso, il dimandare, provoca ad altri a sdegno. Poiche le cose, che dogliono non si toccano mai senza dolore.

Nè si può contenere l’impatienza nostra di non accusare, e la tempesta, e ’l cielo, anzi l’istesso Signore della Tempesta, e del cielo. Hora ci lamentiamo, che troppo piova; hor che faccia troppo freddo, e hor troppo caldo, e hor che troppo duri l’inverno. Non consideriamo, che queste cose caminano secondo le leggi delle proprie stagioni. E’ certo, che ci teniamo da troppo, se ci paremo degni, che il cielo per nostro rispetto s’habbia da muovere altrimenti. Non si fa niente di queste cose per danno nostro; anzi non si fa cosa, che non ci sia molto salutifera, e di grandissimo giovamento. E così litighiamo indarno con l’aria se ci nega il sereno, in dar[p. 289 modifica]no calunniamo la terra, se i seminati non van bene: indarno ci scorrucciamo con gl’animali bruti, se non fanno a nostro modo: E non meno indarno, e più pazzamente accusiamo gl’altri, quando noi habbiamo qualche male. O quante volte si sentono queste parole: Quel furfante, quel furbo, quella forca, quel scelerato, mi hà tramato questo male; mi hà procurato questa disgratia: a questa carogna dò la colpa della mia rovina.

O poveri ignoranti, che non sapete la verità! Ogn’uno è cagione a se stesso della sua propria calamità: Ogn’uno si fabrica la sua fortuna: adunque imputi ciascuno a se stesso, e non ad altri il suo proprio vitio. A questi tali rispondendo Epitteto dice: Alios accusare ob calamitatem suam hominis est ineruditi: scriptum, eius qui erudiri coepit: Nec se, nec [p. 290 modifica] alium, eruditi.1 Incolpare altri per la sua propria calamità, è cosa da un’ignorante, e da uno, che non hà mai imparato. L’incolpare se stesso è cosa da uno, che comincia ad imparare: Non incolpare poi nè se, nè altri, è cosa da persona saputa, intendente ed erudita. L’accusar se stesso, è una chiarissima, mà rarissima virtù.

Note

  1. Epictet. Enchir. c. 10.

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§. 6.


L
A sesta colpa, è piangere, dormire, far delle baie, guardar per le fenestre, nè star’attenti alla lettione. E’ proprio dei fanciulli, l’amar grandemente certi ossarelli da giocare, Noci, imaginelle, e altre simili bagatelle; e difendersele, anche con le lagrime. E’ una gran colpa nella Scuola della Patienza amare con tanto affetto queste cose caduche, e frali: E quindi poi nascono quelle tante lagrime, e quei tanti, e sì gran dolori. On-

[p. 291 modifica]de ben disse, e con molta verità S. Gregorio: Numquam sine dolore amittitur, nisi quod fine amore possidetur. 1 Non si perde mai senza dolore se non ciò, che senza amore si possiede. Giob si può dire, che perdesse tutta la sua robba, di più di dieci figliuoli, anzi se stesso, tanto fu occupato da i dolori, e dalle piaghe; e nondimeno essendo rimasto appena vivo canta allegramente: Sicut Domino placuit, ita factum est, sit Nomen Domini benedictum. 2 Si è fatto, com’è piaciuto al Signore, sia sempre benedetto il suo santo Nome. Substantiam suam (dice S. Gregorio) mente reliquerat, quam sine delectatione possidebat. 3 Havea lasciato con la mente la sua robba; che senza diletto alcuno possedeva.

Di questo medesimo disse egregiamente S. Agostino: Iustus naufragus evadit dives, et nudus: His [p. 292 modifica]divitijs plenus erat Sanctus Iob; nihil in domo remanserat, omnia uno ictu perierant, quibus opulentus paulo ante videbatur: Subito mendicus in stercore sedet, a capite usque ad pedes vermibus scatens. Quid interiore felicitate felicius? Perdiderat omnia illa, quae dederat Deus; sed habebat ipsum, omnia, qui dederat Deum. O Virum putrem, et integrum! O foedum, et pulchrum! O vulneratum, et sanum! O in stercore sedentem, et in caelo regnantem! Si amamus imitemur, laboremus. Adiuvat certantem, qui certamen indixit. 4 Il Giusto quando fa naufragio, benche sia nudo, ne scampa ricco. Di queste ricchezze era pieno il S. Giob. Non gl’era rimasto niente in casa; ogni cosa in un colpo gl’era andata a male, con che poco prima pareva così ricco. fatto [p. 293 modifica]in un subito povero mendico, se ne stà sedendo in un letamaio, tutto pieno di vermi da capo a piedi. Che cosa si può trovar più misera di questa miseria? E che cosa più felice di questa sua interna felicità? Egli havea già perduto tutte quelle cose, che Dio gli havea dato, mà havea l’istesso Dio, che tutte quelle cose gl’havea dato. O huomo tutto marcio, e tutto intiero! O huomo brutto, e bello! O piagato, e sano! O huomo, che siedi sopra un letamaio, e regni nel Cielo! Se noi l’amiamo, imitiamolo: e per imitarlo, travagliamo, poiche chi intimò la battaglia aiuta il combattente.

Mà donde hebbe questi così forte petto, e così gran patienza? Perde senza dolore ciò, che possedette senza amore, sentiva ben’egli il dolore, ma lo sopportava facilmente: amava le sue facultà, ma moderatamente, e hebbe [p. 294 modifica]talmente i figliuoli, la moglie, e le ricchezze, come se non l’havesse havute haver per sempre: e come se non havesse dovuto esser per ciò misero, se l’havesse havute a perdere.

Servirsi, e godersi delle creature, e non l’amare con troppo affetto, qui stà la difficultà. Perciò esclama il Real Profeta dicendo: Nolite cor apponere. 5 Non vi applicate troppo il cuore. Ogni bene de’ mortali è mortale: Tutto ciò, di che tù sei Padrone, e hai appresso di te, non è tuo. Un’infermo non hà cosa, che sia ferma, e stabile, e un fragile, e mortale non hà cosa, che sia eterna ed immortale. Tanto gl’è necessario perire, quanto perdere: e se intendiamo bene questo istesso; è gran consolatione il perdere di buona voglia quello, ch’ad ogni modo si hà da perdere.

Che aiuto dunque troveremo [p. 295 modifica]noi contra queste perdite? Non amare tanto le cose, che hai da perdere. Non vi applicate il cuore: l’animo, che và emulando Dio, s’innalzi sopra tutte le cose humane; e non getti niente di se fuora di se: sappia, ch’egli è fatto per cose più alte, e nobili, che per collocare l’amor suo in queste cose caduche, e frali. Ah come siamo vani? Andiamo dietro alle cose belle, e soavi; amiamo le bagatelle, e le pupattole: e quando ci son levate queste baie, ci difendiamo con abbondantissime pioggie di lagrime: cioè perdiamo con gran dolore ciò, che con tanto amore possedemmo. Amiamo meno queste cose transitorie mentre le possediamo, e meno ci dorremo quando le perderemo. E questo affetto dell’amore si deve ogni giorno andar più restringendo; E come il Rè Tarquinio passeggiando per il suo giardino, [p. 296 modifica]andò col suo bastone levando, e tagliando le cime dei papaveri; così s’ha far continua resistenza a questi più gagliardi affetti, e subito, che cominciano ad alzare il capo; cerca di subito supprimerli. Vuoi tù haver minor dolore? Porta manco amore.

Note

  1. [p. 318 modifica]S. Greg. l. 1 mor. c. 3. med.
  2. [p. 318 modifica]Iob. c. 1. 12.
  3. [p. 318 modifica]S. Greg. l. 1. mor. c. 3. med.
  4. [p. 318 modifica]S. Aug. to. 10. ser. 105. de temp.
  5. [p. 318 modifica]Ps. 61. 11.

[p. 296 modifica]

§. 7.

L
A settima colpa è, il fingere d’essere amalato. È un inganno molto usitato fra scolari, voler più tosto amalarsi da burla, che travagliar da vero. S. Agostino adirato variamente con la sua gioventù, e deplorandola così dice: Tantillus puer, et tantus peccator ludebam pila puer, et eo ludo impediebar quomminus celeriter discerem litteras, peccabam faciendo contra praecepta parentum, et [p. 297 modifica]magistrorum. 1 Io era un putto tantino, e era così gran peccatore: Giocavo, essendo putto, alla palla, e da quel giuoco ero impedito dall’imparare, e così peccavo facendo contra quello, che mi comandavano i miei Padri, e i miei maestri. Aulo Persio, quando ancor’egli era giovinetto, se gli accadeva talvolta di non sapere quello, che gl’era stato prescritto dal maestro, s’ungeva gli occhi, e fingeva d’haverci male. Egli stesso confessa l’inganno:
Saepe oculos, memini, tangeam parvus olivo,
Grandia si nollem moituri verba Catonis
Discere

Io mi ricordo, (dice egli), che quando ero piccolo, e non volevo imparare i versi di Catone a mente, mi fingevo d’haver male a gl’occhi, e me li ungevo d’olio.

Molte cose fingono i scolarelli [p. 298 modifica]per scappar dalla scuola. E quando non vi vanno, hanno subito in pronto le scuse per dire al maestro. È accaduto tal volta, che ’l maestro dimandava ad uno scolare, perche fusse venuto così tardi alla messa? a cui lo scolare subito rispose: Signor maestro mi bisognò apettar la collatione: a cui subito soggiunse il maestro; Hor và, & aspetta, che ti vò dar la merenda. Non v’è cosa, che i scolari habbino più pronta, quanto lo scusarsi delle colpe: Son stato amalato, fui impedito, non hò potuto, e mille altre cose tali dicono per iscusarsi.

Fù comandato a Giona Profeta, che andasse a Ninive a predicare la penitenza a quel popolo. Ma il buon Giona cominciò a scusarsi, e fingendo quasi d’esser amalato facea del sordo a far le cose impostegli, drizzava il suo viaggio altrove, s’andava scostando da [p. 299 modifica]Ninive, raccomandava la sua fuga al mare, e in somma voleva ogn’altra cosa, che predicare. Scolare veramente poco ubbidiente, e, che troppo facilmente si diede a credere di non poter quello, che se havesse voluto non haverebbe ancor potuto. Mà gonfiandosi il mare, e soffiando a più potere il vento, fu mandata fin dal profondo per maestro una Balena accioche insegnasse a Giona, che egli poteva fare benissimo quello, che diceva di non potere. O Giona mio. Tù vedi hora quanto sia differente il non volere, dal non potere. Il non volere spesse volte è la vera cagione; mà si ricuopre con dir di non potere. È certo, che perciò moltissime cose non potiamo, perche non crediamo di poterle fare. Amiamo, e difendiamo i nostri vitij, e vogliamo più scusarli, che lasciarli.

O quante volte si sente quella [p. 300 modifica]parola infingarda: Non posso, perche mi stringete? Non posso: Le mie forze non bastano per digiunare, il mio stomaco non può sopportare l’inedia: non posso fare queste fatiche; non posso lasciare l’usanze mie: non mi posso privare di quelle cose, che fin’hora mi son state concesse. Perche mi travagliate in darno? Non posso.

Sono già un pezzo fa sbandite dalla Scuola della Patienza queste voci. Sentite uno scolare, che generosmaente grida: Omnia possum: e in, che modo? In eo qui mi confortat. 2 Io posso ogni cosa in virtù di quello, che mi conforta. Quei due fratelli figli di Zebedeo, alla dimanda, che lor fece il Signore di bere quell’amarissimo calice; risposero animosamente Possumus. 3 Sì Signore, che noi potiamo. Noi altri per il contrari,o quando si tratta di patir qualche cosa; spesse volte ri[p. 301 modifica]spondiamo subito quelle parole da huomini pigri, dapochi,, e infingardi: Non possumus, Non possumus. Non potiamo.

E da qui nasce,, che non impariamo mai del tutto,, e compitamente la Patienza. Poiche essendo nelle cose nostre troppo creduli a noi stessi, quando ci è proposta qualche cosa, che la potessimo fare veramente mà con qualche difficultà, subito rispondiamo forte sfacciatamente, e ad alta voce: Non possumus; Non potiamo. Eh via, tenta un poco te stesso, prova un poco meglio le tue forze, comincia, e forzati, e fa quel, che tu puoi. Non vi è la più brutta cosa nella Scuola della Patienza, che all’incontrarsi con ogni minima difficultà, dir sempre queste parole: Non possumus. Non posso, Omnia possum grida S. Paolo. Rispondono gli Apostoli, Possumus. Veramente, che [p. 302 modifica]a chi ama da dovero, non scappano mai di bocca queste parole: Non voglio, non posso. Se l’amore è vero, ò può ogni cosa, ò non è vero.

Note

  1. [p. 324 modifica]S. Aug. l. 1. confess. c. 9. 10. & 11.
  2. [p. 324 modifica]Phil. c. 4. 13.
  3. [p. 324 modifica]Matth. c. 20. 23.

[p. 302 modifica]

§ 8.

L’
Ottava colpa nelle scuole è, dir delle bugie, e mormorare quando sono ripresi. Questi sono delitti capitali nelle scuole, non si purgano se non con buone staffilate, e buone vergate. Quello poi, che è la menzogna in una scuola di Grammatica, questo è l’impatienza nella Scuola della Patienza. Perche si come la bugia è quella, che nega ciò, che si deve affermare, overo afferma ciò, che si deve negre, e quello, ch’è nero dice esser bianco; così l’impatienza di una molestia leggera la fa grave, e di grave [p. 303 modifica]intolerabile. Ma questo è l’origine dell’impatienza, il credere di patir troppo, di sopportar cose insopportabili, e d’esser travagliato a torto. Ita mentitur iniquitas sibi. 1 A questo modo una menzogna si ricopre con un’altra.

Quanto meglio fa colui, che quando è afflitto discorre con se stesso a questo modo. Che cosa dici tu, huomo impaziente, sei tu forse andato alla Scuola della Patienza per andar poi gridando per tutto, quando patisci qualche cosa, che la patisci a torto? Eh via, non dire queste parole, tutto ciò, che tu patisci, e molto peggio ancora, l’hai meritato cento, seicento, e mille volte. In che modo patirai le fiamme, se non puoi sopportare le stritture, e le scintille del fuoco? Amico, Iddio non ti fa ingiuria. Pigliati quello, ch’è tuo, e sopporta quello, che Dio ti manda. Tu sei quell’innocen[p. 304 modifica]te, e tanto senza colpa, che Dio, che pure è ottimo padre, voglia affliggerti più del dovere? O huomo da bene, ò come da te stesso ti accarezzi, e come tutto ti lisci, ma pazzamente! Et essendo tu un lupo rapace, la tua pazza credulità ti dà ad intendere d’esser una mansueta pecorella. Quindi poi nascono quelle voci: perche tutte le tempeste si scaricano contra di me? Et alla fine, che peccati sono i miei, e che hò fatto? Io te ’l dirò, ma fra tanto ascoltami con patienza.

S. Antonino racconta, che San Pietro Martire fù accusato a’ i suoi Superiori, che furono vedute, e sentite alcune persone profane, che stavano ciarlando nella sua camera. Per il che il povero S. Pietro ne fu ripreso publicamente in Capitolo, e fugli ordinato, che ne dicesse la sua colpa, e poi ne facesse quella penitenza, che gl’altri ha[p. 305 modifica]vessero giudicato. Fece ogni cosa il buon Santo, mà con grandissima tristezza, e malenconia. Poiche la sua conscienza non lo rimordeva d’haver commesso alcuna cosa simile; e sapendo, che per soli sospetti ciò era contro di lui stato finto; quando partitosi dal Capitolo se ne ritornò in camera; e ivi si prostrò innanzi all’imagine del Crocifisso con gli occhi tutti pieni di lagrime, e per isfogarsi con gran lamenti così gli disse: Signore, che cosa hò fatto io, per esser così severamente punito, e castigato a torto? E volendo Giesù Christo favorire una candidezza così grande del suo servo, gli rispose subito da quell’imagine, queste parole. Et io, Pietro, che cosa feci, per patire a torto una morte così crudele? Vergognossi all’hora quel Santo, e sentendosi comparare a una persona sì innocente, si diede subito per [p. 306 modifica]colpevole, e per reo.2

Note

  1. [p. 328 modifica]Psal. 26. 12.
  2. S. Anton. p. 3. t. 16.

[p. 306 modifica]

§. 9.

H
Ora, che dici tù, che sempre ti lamenti, e torni sempre a replicare: et io, che hò fatto? Dimmi di grazia, e Christo, che fece? E la Madre di Christo, che fece, per patire quel dolore, ch’ella patì? I santi Apostoli Pietro, e Paolo, che fecero? Tante centinaia di migliaia di martiri, che fecero? Tanti huomini santissimi caricati di gravissime calunnie, che fecero? E pur tu mi ritorni a replicare; Et io, che hò fatto? O quanto diresti meglio col buon Ladrone, che fu crocifisso insieme col Signore: Nos quidem iuste, nam digna factis recipimus1: Tutto ciò, ch’io pato, giustissimamente m’avviene perche me l’hò meritato co i miei peccati.

Nè altrimente ancora [p. 307 modifica]habbiamo da sentire noi altri. Siamo stati castigati? ci sovvenga di grazia, non solamente quello, che patiamo, ma ancora quello, che habbiamo fatto. Se vogliamo esser buoni giudici d’ogni cosa, la prima cosa, che ci habbiamo a persuadere è, che niuno di noi è senza qualche colpa. Perche di qua nasce, che grandemente ci sdegniamo, quando diciamo, non hò peccato, non hò fatto niente, e non confessiamo cosa alcuna; e ci sdegniamo qualche volta d’essere avvisati, e corretti; peccando in quel medesimo tempo, nel quale aggiungiamo a i nostri difetti l’arroganza, la scusa, e la contumacia. Percioche, come disse benissimo Fabio, lo scusarsi d’una colpa commessa è commetterne un’altra. L’huomo da bene hà caro d’essere avvisato, ma il tristo sente grandemente quando è ripreso; Mà chi è costui, che possa [p. 308 modifica]professarsi affatto per innocente, e senza veruna colpa? Spesse volte patiamo innocentemente per una causa, essendo già stati assai bene per un’altra colpevoli.

I fratelli di Gioseppe, all’hora Vice Rè dell’Egitto, erano innocenti quando dal lor viaggio furono ricondotti prigionieri, sotto falso pretesto, che havessero rubato una tazza d’argento. Hora qui che diremo? Se si tratta della tazza, essi n’erano del tutto netti, e innocenti, mà qui c’è un’altra cosa peggiore. Haveano commesso un furto assai più grave, poiche non rubarono un vaso d’argento a suo Padre, ma sì bene il loro fratello Gioseppe. E questo furto, che già venti anni prima era stato commesso, s’havea da punire anchorche tardi. L’istesso accade spesse volte a gl’altri.

Amiamo dunque la verità, e quando ci occorre patire qual[p. 309 modifica]che cosa, sia pur ciò, che si voglia, diciamo insieme con i fratelli di Gioseppe: Merito haec patimur, quia peccavimus. 2 Noi patiamo meritatamente queste cose, perche habbiamo peccato. Amò la verita colui, che disse: Iram Domini portabo. 3 Io sopportarò l’ira del mio Signore, perche hò peccato contro di lui.

Quelli poi, che si credono di essere innocenti, e di non haver meritato castighi così gravi, questo solo ci guadagnano col mormorare, che patiscono più gravi pene, e alle volte raddoppiate ancora: a quel modo appunto, che interviene allo scolaro, che mormora dopo d’haver havuto un cavallo, che meritatamente se gli ne dà un’altro. Confessiamoci dunque pure per colpevoli, habbiamo à patire ciò, che si voglia, e sopportiamo l’ira del Signore per haver[p. 310 modifica]haverlo offeso. Qualunque fa professione d’essere scolaro nella Scuola della Patienza, sia pur forzato a patire qualunque cosa, impari a dire queste parole. Tutto quello, ch’io patisco, lo patisco giustamente, e ricevo il condegno premio de’ miei peccati. E questo è far profitto, Confessare d’haver meritato ogni male.

Note

  1. [p. 332 modifica]Gen. c. 44. 5. & seq.
  2. [p. 332 modifica]Gen. 42. 21.
  3. [p. 332 modifica]Mich. c. 7. 9.