Il secolo che muore/Capitolo X

Capitolo X

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Capitolo X.

CUSTOZA E MONTESUELLO.

Garibaldi! La gioventù italiana si rimescola a questo nome, più che non faccia il cavallo di battaglia al suono della tromba guerriera; a questo nome drizzano spaventati le orecchie il destriere di Sileno e il capitano La Marmora. Forse al solo sentirmi rammentare Garibaldi, Euterpe e Clio hanno a quest’ora preso la mantiglia per venirmi a susurrare nelle orecchie un cantico nuovo ad esaltazione dell’eroe. Non vi scomodate, o Muse, che quello che col vostro aiuto poteva dire di lui, io l’ho già detto, nè ci potrei aggiungere parola. Quando mai le tenebre avessero ad inviluppare la terra, così che la umanità, perduta ogni idea del giusto e dell’onesto, si fosse ridotta a camminare a [p. 8 modifica] tastoni, ella si volga al luogo in cui Garibaldi vive, ovvero a quello in cui le sue ossa riposeranno: ritroverà sempre la via della virtù.

Enrico IV, sul punto d’ingaggiar battaglia, ammoniva i suoi soldati: «Raccoglietevi dove vedrete sventolare il mio pennoncello bianco, perchè voi lo troverete sempre sulla via dell’onore.» Pei re, il sentiero dell’onore è quello del trono, traverso la strage di creature viventi, e poco preme se conterranee, o straniere; pel figlio del popolo, il sentiero dell’onore è quello della pace: nati tutti da un medesimo padre, perchè gli uomini non si dovranno alfine sovvenire come fratelli? Solo una guerra è giusta, quella contro l’aggressore di casa tua.

Un dì il Garibaldi, per questo nostro cielo italiano, comparve circondato da altri luminari; noi li credemmo stelle ed erano lacrime di San Lorenzo;1 esse furono piante; in cielo ci è rimasto Garibaldi, che di stella diventò sole: tramonterà [p. 9 modifica] la sua vita mortale, ma la fama della sua virtù durerà, finchè si trovi una bocca per magnificarla ed un cuore per benedirla.

Pregusti pertanto, egli mortale, la immortalità: esulti nell’altissima gioia di aver vinto la morte; dacchè da questo premio in fuori altro non gliene diedero gli uomini, nè egli lo avrebbe voluto.

Però insieme col Garibaldi una schiera di generosi si affaticò in altra guisa per le fortune della patria: operò meno con le armi, più col consiglio: più parca gloria acquistava, forse veruna, ma durò pari i patimenti, e a paragone di lui concorse al risorgimento dell’Italia.

Molti anni si sono accumulati sul capo di questi incliti cittadini; la loro vita non vediamo arrivata presso al verde, sicchè importa per tutti che noi la liquidiamo, senza ambagi, prima di depositarla, a mo’ di bilancio, nella cancelleria della morte.

Repubblicani tutti fummo e siamo. Educazione, genio, carità patria e necessità ci fecero tali, ed anco, mirabile a dirsi, i frati, i quali insegnandoci a leggere il latino sopra Tacito, e il greco sopra Tucidide, credevano mostrarceli come mummie di Egitto, mentre essi accendevano nel nostro cuore inestinguibile l’amore per la repubblica. Come Sansone cavò il miele dalla gola del leone, la schietta tirannide ci fu maestra di libertà; imperciocchè in verità vi dico ch’è più sana la tirannide netta, [p. 10 modifica] che la libertà menzognera: la tirannide schietta ha virtù di rinnovare nelle vene degli oppressi il sangue coll’odio; la libertà menzognera abietta i redenti con la corruzione; non noi lo diciamo, bensì la storia dei secoli ci mette davanti agli occhi come le monarchie precipitino i popoli nella viltà e nella inopia; la repubblica invece li feliciti con la generosità e l’agiatezza.

E poi, proponendoci a scopo di vita affrancare la patria dalla dominazione straniera, non avevamo potestà di scelta; imperciocchè l’Austria, oltre il terrore delle armi proprie, si facesse strumento di impero le tirannidi di seconda mano e le paure sacerdotali intese ad imbestialire la gente sotto sembianza di religione. E l’anima del popolo allora, ahimè! giaceva morta dentro il corpo vivo, al contrario di quanto narra la leggenda di Merlino, il Savio mago, di cui lo spirito viveva dentro il corpo sepolto.

Tutti i camposanti, io l’ho provato, possiedono un’eco; chiama là dentro, e qualcheduno ti risponderà, ma nelle città fatte cimiteri di anime vive dentro corpi morti, non affaticarti a gridare; tu perderai la voce: quivi è ineccitabile il silenzio. Come hai tu cuore di chiamarle camposanto? Lo infesto e infinito e infame gracidare dei ranocchi nelle curie, nello cattedre e nei diari ti fanno fede che le città italiche non diventarono camposanto, bensì pantano. [p. 11 modifica]

No, non è così; camposanto ad un punto, e pantano; camposanto per ogni voce di virtù e di gloria, pantano agli stridi ribaldi e servili. Olh! questi odierni saturnali di abiettezza durano troppo; almeno nei saturnali antichi i servi comandavano un giorno; adesso corrono anni che il padrone sopporta la pessima delle signorie, quella degli schiavi.

Tre per tanto le tirannidi di allora, ed una servitù sola. In quale dei principi potevamo confidare? Aspidi tutti, uno peggiore degli altri; il casereccio, supremo in malignità. Due traditi testimoniarono di lui: uno, il Santarosa, morendo pose un libro per puntello tra la lapide e la bocca del suo sepolcro, onde questo aperto perpetuamente raccontasse la truce storia di colui che lo tradì; l’altro, che fu poeta, insegnò alle crescenti generazioni l’orrore di quel nome; infelice! Egli, sopravvissuto alla sua fierezza, disdisse l’ire; ma fece di più, il Berchet chiese perdono delle sue colpe e l’ebbe: a sè tolse la fama e non la diede altrui. Benedetta la morte! Deh! lascia, o morte, ch’io ti baci le mani quante volte chiudi il libro della vita di un uomo, e dopo avervi scritto in fondo Ne varietur lo consegni all’eternità. Dio mi guardi da turbare le ceneri nel sepolcro, fossero anche quelle di un re: la Espiazione pose custode di cotesta tomba la Pietà. Dove il gian Giustiziere ha percosso, l’uomo deve chinare [p. 12 modifica] la testa, ed io la chino; solo ricordo che noi avevamo buono in mano per non ci fidare del principe domestico.

Quanto patimmo altri racconterà: intanto il mondo conosce che l’ardua lampada per alimentare la fiamma della libertà chiedeva sangue non olio, e sangue fu dato. E tuttavia non fu questo il più grave dei sagrifizi; l’amore, o piuttosto il furore della libertà impose che ogni altro affetto, che non fosse il suo, gli si immolasse in olocausto, e noi li strozzammo tutti come Ercole fanciullo i serpenti entrati dentro la sua culla. Pane nostro quotidiano lo scherno; bevanda le lacrime; e ciò nonostante ci consolavamo pensando che anche degli Apostoli di Cristo fu detto: — E’ sono pieni di vino dolce; — che le lacrime sono la migliore delle preghiere; e che quello che in terra si chiama martirio, gloria si appella in cielo.

Ecco l’ora in cui i lamenti diventano strepito di cascata e lo superano; ecco i sospiri si fanno uragano, che abbatte travi secolari e travolge per le terre d’Italia scettri e corone, come polvere dei campi; ecco sorgere un prete fra noi, il quale, o illuminato dall’ultimo raggio dello spirito di Dio, che lo abbandonava, ovvero intenebrito dalla prima ombra che gettava su lui lo spirito del male (e questo dicevano i preti) bandisce alle genti: voce di Dio la procella contro di cui argomento umano [p. 13 modifica] non basta; venuti i tempi di rendere al popolo le sue giustizie. I principi atterriti promettono cessare i costumi di belva, umanarsi; e i popoli credono ai sacerdoti ed ai re; a cui non credono, e che cosa non credono le moltitudini?

Ma la caterva dei preti si attacca smaniosa alle fimbrie del piviale del gran prete pigolando: — papa, che armeggi? Tu mandi a soqquadro la ciurma e la galera: o che non sai che il nostro giorno è la notte? Noi figli del mistero, noi creatori del domma, che non ammette discussione, noi fabbricanti della regola dell’infallibilità, consentendo libero l’arbitrio di pensare, ci avveleniamo da noi. Stentammo secoli e secoli a pigliarci la croce ed avvolgerla dentro una caligine di superstizione, ed ora, tremenda nella sua divina nudità, ti avvisi restituirla nelle mani del popolo? Poni mente al vaticinio che noi ti mandiamo: i preti un giorno conficcarono Cristo sopra la croce; il popolo, appena impadronitosi della croce, c’inchioderà il prete.

Il prete magno non intese a sordo, e la parola che egli aveva incominciato con la faccia di benedizione terminò in coda di maledizione; e da quel giorno non cessa procederci infesto, e a diritto, imperciocchè non mica la sola Compagnia di Gesù, bensì tutto il sacerdozio bisogna che sia qual’è, o che non sia: ogni argomento torna inane per necessità, imperciocchè egli non voglia e non possa essere [p. 14 modifica] esaminato; o che vorreste che il prete pigliasse il suo male per medicina?

Oh! no. Queste cose costumano i preti con gli altri; invero non furono essi che fecero portare al Nazareno la croce per inchiodarcelo sopra?

La più parte dei nostri andava convinta che dal tenere dietro a coteste girandole cattoliche non poteva uscirne altro che danno; alla meno trista, perdita di tempo, come a chi sbaglia cammino, e pure taluno di noi tacque, altri si spencolò fino a confortare il prete nella magnanima impresa, profferendogli le lodi serbate ai redentori della patria. Tanto potè nei petti italiani la paura di sperdere le forze, che unite dovevano appuntarsi contro lo straniero! Ci volle anco un’altra prova per persuadere la gente che se le chiavi in mano al prete non ponno stare come segno della sua facoltà di aprire le porte del paradiso, molto acconciamente ci stanno per significare il suo intento di schiudere le porta della Italia ai barbari, quantunque volte ci trovi il suo pro.

Rispetto a principi, tutti ci accordammo di sostenerli nello assunto loro; gli antichi sospetti furono messi da parte; ci parve bello il trovato di distinguere la libertà in libertà ed in indipendenza mostrando come la prima consistesse principalmente negli ordini civili interni, la seconda nell’affrancazione della patria dalla servitù straniera; prestammo [p. 15 modifica] impertanto la opera nostra nei consigli e sui campi. Prima dicevamo: attendiamo ad essere, che al modo di vivere provvederanno poi il tempo, i costumi e la buona fortuna. Tra noi non si conobbe Giuda; più tardi taluno dei principi, per onestare il proprio tradimento, trascorse fino ad accusare altrui di traditore: sciagurato! Si aguzzò il cavicchio sul ginocchio, e ben gli stette. Pare impossibile, ma io ho provato che la cosa, la quale a lungo andare maggiormente si vendica nel mondo, è il pudore offeso. Magistrati che spolverizzassero la cosa con la cenere di giustizia, non fecero difetto: suprema ancora della società pericolante, la magistratura! Lo dicono tutti i libri stampati.

Le armi al cimento inferme, e forse altra causa più rea, prostrarono le fortune italiche a Novara: allora principi e preti imbandirono la mensa sopra il cataletto della libertà, e vi si ubbriacarono col sangue dei martiri: ogni coniglio fatto sicuro della impunità, diventò gatto; ma la libertà vive anche nel sepolcro, e chiamato a sè l’odio ella gli disse: — Ripiglia a ordire la trama della vendetta! E l’odio così bene fece il compito, che indi a dieci anni in ogni villa fu udito suonare a stormo per la riscossa: cotesti pusilli feroci cascarono come croste secche di lebbra guarita. Il principe casalingo era rientrato nell’ombra, dalla quale sarebbe stato meglio non fosse uscito mai: gli subentrava il figliuolo; [p. 16 modifica] senno fosse, o vaghezza, avendo egli tenuto in alto la bandiera del risorgimento italiano (comecchè improntata della sua marca, quasi cavallo delle regie mandrie), successe, che a lui il popolo incerto dei propri destini si voltasse, chiamandolo a parte dei pericoli e della gloria.

Sarebbe riuscito a noi repubblicani sviare il popolo da cotesto sdrucciolo, gridandogli dietro: — Mala via tieni! — non so; fatto sta che ce ne astenemmo, anzi crescemmo il moto alla corrente, sempre fermi nello intento di raccogliere tutte le forze in un braccio solo per la redenzione della patria. Ci furono pegno di sicurezza il principe di stirpe domestica, la eredità delle offese, la vendetta delle ingiurie proprie, il premio maggiore del desiderio, ed anco la voluttà dell’opera veramente grande.

Questo eccelso mandato, noi istando, noi sovvenendo, noi minacciando, noi con ogni estremo conato eccitando, a stento, a pezzi e a bocconi, a spizzico, a miccino, a male in corpo, a spilluzzico, che peggio non va biscia allo incanto, fra bene e male, tentennando, cinciscliiando e ciondolando, fu nella massima parte conseguito. La monarchia senza noi non seppe fare, e fare repugnava con noi: s’ingegnò staccare quanti più potesse raggi dal capo della democrazia, per fregiarne il suo, ma le si spensero in mano, onde scemò la democrazia di [p. 17 modifica] splendore, e a se non lo crebbe: se io dicessi che ella ci volle bene come il fumo agli occhi, non direi mezzo del vero; però il nostro aiuto accettato e ad un punto aborrito; le vittorie della Italia meridionale astiate e temute, quantunque i frutti di quelle non con due, con quattro mani agguantati; le armi volontarie per sospetto congiunte alle stanziali e a disegno avvilite: le nuove imprese attraversate, comecchè conoscesse i promotori di quelle non ribelli a lei nel concetto, ne nel modo; al contrario avessero sempre depositato gli acquisti fatti nelle mani della monarchia, con l’amore col quale l’uccello porta al nido il cibo ai suoi nati.

Tali e tanti e così manifesti gli smacchi contro i volontari, che taluno ebbe a pensare, nè lo pensò solo, ma lo disse, che venissero mandati in campo per levarli dalle città onde non le mettessero a rumore, e le cimentassero in fortune pericolose pel principato: insomma fra la monarchia e la democrazia rinnovata la storia antica di Euristeo e di Ercole.

I posteri stupiranno della inaudita costanza della democrazia a promuovere la monarchia, nonostante gli strazi, le prigionie, le ferite e le morti; più della costanza maraviglieranno della fede per virtù della quale, in onta alle ingiurie atrocissime, persistesse nel suo proposito: forse non le capiranno neppure, però che nati liberi, essi non potranno [p. 18 modifica]18 IL SECOLO CHE MUORE

formarsi idea dello spasimo che mette in cuore ai cittadini la vista della povera patria lacerata dagli oppressori stranieri. Se i posteri mediteranno le parole, che certe volte disse l’antico Alberti, cioè, — ch’egli per la patria avrebbe dato anco l’anima — intenderanno la nostra pazienza e la dura necessità.

Rammentatevi San Filippo Neri chiedente a due gentiluomini romani un po’ di carità per sollevare una famiglia ridotta in estrema miseria: mandato con Dio, insisteva; di nuovo dimesso, improntava finchè ad uno dei gentiluomini saltata la muffa al naso gli affibbiò tale un ceffone, che per poco il muro non gliene diede un altro: il Santo, tuttochè Santo fosse, strabuzzò gli occhi, e si senti le mani chiuse a pugno, pure si tenne, e umile proseguì: Questo è per me, ma la povera famiglia aspetta pane.» Noi per amore di patria abbiamo durato la pazienza del Santo; e Cristo sa se abbiamo sofferto, e Cristo sa se la pazienza ci costi!

Giunti a questo orlo della nostra vita ci volgiamo indietro ed esultanti consideriamo scomparso dai nostri occhi il punto donde prima movemmo. La Italia è quasi compita; l’upas2 sacerdotale è quasi abbattuto. Ora la filosofia giova più della scure; e [p. 19 modifica] tuttavia vivete tranquilli, il filo della filosofia non taglia meno di quello dell’acciaio: benigno è il fuoco, che emana da lei, però non si acqueta se prima non abbia incenerito l’errore. Se lo stormo dei preti continua a schiamazzare, non vogliate temerne; quando scendete in una grotta con la torcia accesa, i pipistrelli accecati fuggono via stridendo e battendovi l’ale in faccia. Voltate un’altra pagina; questa del papato è letta.

Noi non ci lamentiamo del popolo, ne ripeteremo per lui il lagno che messer Francesco Petrarca moveva contro l’amore:

Ho servito un Signor crudele e scarso;


grande, anzi maravigliosa noi abbiamo ricevuto mercede nello esercitarci per tutta la vita in nobilissimo intento, e nel vederlo conseguito: forse non moriremo interi; e tanto basta; molto meno accuseremo la monarchia d’ingratitudine, perchè veramente noi tutto operammo per la patria; nulla per lei: fino al riscatto d’Italia abbiamo potuto andar con essa d’accordo; dopo no: non ce n’era punto mestieri; pure esempi nuovi vennero a confermare la esperienza vecchia, che i fini della monarchia e della democrazia sono essenzialmente diversi, naturalmente contrari. Chi di noi, o esperto poco, o fiducioso troppo, s’industriò conciliarle, perse l’opera e il consiglio, e si attortigliò involontario viticchio alle gambe della umanità, la quale nel suo [p. 20 modifica] indefesso cammino ha bisogno di procedere senza impacci.

Orsù, — è dolorosa l’ora dell’addio; l’orgoglio nostro repugna a condannarci alla inerzia, mentre il sangue ci pulsa sempre nelle arterie, ma confessiamolo aperto, il nostro compito è fornito. Anco ai Romani entrati nel senio concedevasi che dalle faccende pubbliche si appartassero: dopo i sessanta anni le domande dell’ufficio di giudice vietate; e ci era una legge a posta3. La gente non lodava, all’opposto tentennando il capo, deplorava Mario, il quale fatto vecchio si mesceva fra i giovani ad armeggiare4. Noi abbiamo respirato un’ora l’aria benedetta della libertà; noi lavata la patria col sangue dei martiri dalla secolare contaminazione, ella adesso può inalzare con animo sereno la sua preghiera al padre delle cose, e comparire con dignità nel concilio dei popoli. Riposiamo; altre menti, altri cuori desiderano le sorti future. A modo che Giacobbe usciva dal seno di Rebecca, tenendo agguantato pel calcagno Esaù, così dalla nostr’anima proruppero gemelli l’odio e l’amore. La nostra voce di troppo ingrossò nel concitato impero e nella smaniosa maledizione, onde da un punto all’altro diventi blanda per benedire e per pregare: sovente nelle nostre pupille balenò il raggio del genio della [p. 21 modifica] umanità, ma più spesso parve che le furie vi agitassero le loro fiaccole: un dì premeva che sopra la bandiera degli antesignani si leggesse: Odio, Forza; oggi deve portare lo scritto: Amore, Scienza. Riposiamo, riposiamo: è dolce il sonno sopra l’avello, che chiude la tirannide sacerdotale; giova addormentarci sotto l’arbore glorioso di cui le fronde ventilate pare che mormorino: — Salute all’Italia redenta dal pensiero e dal sangue dei suoi figliuoli!

— E ora, via, torni al soggetto, mi ammonisce un lettore.

— Torniamoci pure, rispondo io.

— E tanto più presto ci torni, soggiùnge egli, inquantochè a lei non mancarono i buoni consigli fino dalla gioventù sua prima5.

— Ella ha ragione da vendere, ma ormai il vizio mi si è fìtto nelle ossa, e rinfacciarmelo adesso che sono vecchio non mi pare discrezione. I vecchi nestoreggiano, mio caro signore, ed ella sa che essi acquistano in lingua, quanto persero in denti.

— Certo non si può negare, il vizio da lei fu sempre confessato, ma senza attrizione, nèe contrizione, imperciocchè tornasse sempre a fare peggio di prima: pensi, che se è suo il peccato, la penitenza è nostra, e si ravveda una volta. [p. 22 modifica]

— Ebbene, signor lettore, senta un po’ me: se un giorno, per non bisticciarmi co’ miei critici, e per amore di menare buono per la pace, convenni con essi, che nei romanzi si ha da ragionare poco, e se punto, meglio che mai: i drammi senza impaccio devono precipitare al fine; lo scrittore flagellare il sangue di chi legge, come il fantino il cavallo che ha sotto se vuol vincere il palio, per poi gelarglielo a un tratto con la catastrofe inopinata; se un giorno, dico, consentii così, non per questo affermai cosa giusta, nè vera: parlai a modo degli altri, a patto che mi lasciassero fare a modo mio.

E primamente, consideri di grazia, le digressioni posi sul principio dei capitoli, onde a cui piace possa metterle da parte, e proseguire nella lettura del racconto; come appunto fece l’Ariosto:

Lasciate questo canto, che senz' esso
Può star la storia, e non sarà men chiara.

E noti poi la diversità grande che passa fra il dramma e il romanzo; in quello concorrono le arti del musico, del pittore, del coreografo, del sarto, del macchinista, e via discorrendo; anzi, si avvantaggia fino dell’arte di coloro che fanno da mare6; [p. 23 modifica] mentre il romanziere bisogna che a tutto provveda da sè. Ne il dramma stesso procede scevro da digressioni, a mo’ di esempio dei soliloqui, i quali se levi, co’ sogni e le descrizioni, il dramma ti apparirà un ombrello senza seta. O pensi un po’, che sia benedetto, al Byron e al Balzac per tacere degli altri; dai sedici canti del Don Giovanni, del primo, se levi le digressioni, gli è bazza se te ne resta in mano la materia di otto; e se il Balzac non menava il can per l’aia, o come avrebbe potuto fornirti quelle sue maravigliose e ad un punto desolanti analisi del cuore umano?

La censura della frequente allusione alle vicende della propria vita, ai suoi nemici, a se stesso per me giudico più che di giustizia priva di carità; chi reputa nello scrittore elettiva la qualità di obiettivo e di soggettivo, s’inganna: ella viene di natura, che il Dante, l’Alfieri e il Byron non potevano essere diversi da quello che furono; e obiettivo fra i germani fu il Goethe, non già lo Schiller; nei primi prevale il cuore, nei secondi il cervello: a chi pertanto sorti da natura prevalenza soggettiva, la rampogna dell’uso di quella equivale a criticare l’aquila perchè adopera l’ale. — E perchè redarguite l’offeso, se di tratto in tratto si lamenta? Voi dite: Le sono piaghe antiche: ma io vi rispondo che le piaghe dell’anima non sanano mai:

Piaga per allentar d’arco non sana.

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Il cuore che non sente più il dolore, è pari alla sorgente inaridita. Da questa sensibilità squisita scaturiscono le immagini, le fantasie e i pensieri; malavvisati! non desiderate che cessi; sarebbe lo stesso che spegnere la candela, voi rimarreste al buio. Il pittore manda dal droghiere per la varia ragione delle tinte, che stempera poi sopra la sua tavolozza, ma lo scrittore ci stempera sempre la propria anima, comecchè ella abbia a somministrargli i moltiplici colori per dipingere la sua opera. Gl’impedirete che ei si sfoghi? Gl’imporrete che egli, come il barbiere di Mida, scavi una fossa e ci confidi il segreto che il re Mida ha gli orecchi di asino? Imbestino nei volgari diletti i suoi nemici la vita; di tristo padrone durino schiavi peggiori; levando il muso insanguinato dalla carcassa dello Stato, mostrino i denti, sieno quanto vogliono adesso codardi, persecutori, astiosi e ignoranti, ma sentano che noi possiamo inchiodare i loro nomi in cima al patibolo. Noi vogliamo che i figliuoli si abbiano a vergognare dei loro padri: altre volte i fiorentini per causa meno dura cambiarono di casato. Il nostro Dio non ci consentiva altre frecce che quelle con la punta d’infamia; e noi ne saettiamo i nostri nemici: la vendetta del poeta è la provvidenza di Dio sopra questa terra.

Il solo diletto non ha offerto mai scopo degno agli scrittori; la natura ed i maestri insegnano loro [p. 25 modifica] a mescere l’utile col dolce; ed io secondo le mie povere forze mi sono industriato sempre di seguitare questo precetto: però mi piacque stringere co’ miei lettori quasi un patto dicendo: Io vi diletterò due ore, e tre se volete, ma durante un’ora state a udire le mie lamentazioni e le mie dottrine: che se vi duole udirle, lasciatemi significarle, e voi non ci badate.

Ed anco penso: la nuova generazione, nella quale mi affido, ha smesso il convulso che travagliò la generazione antecedente; ella sospira i negletti studi; ella ricorda come i grandi capitani dell’antichità fossero discepoli di filosofi, e filosofi eglino stessi; grande si manifesta nella presente generazione l’ardore di meditare intorno la ragione delle cose: certo piace a me, ed alla patria giova, che ella mediti con le mani appoggiate al pomo della spada, — ma mediti.

Per le quali cose il retto giudizio delle digressioni nei romanzi e nei poemi si riduce come ogni altro nodo a questo pettine: se ti garbano e t’istruiscono, e tu tienle care e fanne tuo pro, ovvero ti riescono sazievoli, e tu, o butta via il libro, o meglio, va’ dal libraio a farti restituire il prezzo pagato per comprarlo, ch’io so di certo ch’ei te lo renderà con gl’interessi.

Antichissimo, noto a tutti, e insopportabilmente avvantaggiato lo scopo della Francia: più che non [p. 26 modifica] sentirsi oppressa in casa, a lei piacque mai sempre opprimere altrui: tutti i popoli, anzi tutti gli uomini la natura dotò di ugnoli e di denti canini; ai francesi la natura in questo, o si mostrò parziale, o fu superata dal costume. Per fortuna assai, e più per delitti, la Francia costituitasi in arnese gagliardissimo da guerra, remuove i Pirenei e si attacca alla cintura la Spagna, con una catena di Borboni; poi per virtù di arme e di astutezza frantuma intorno a sè Italia e Germania; così le ammannisce a diventare, a seconda della occasione, o facile preda, o facile satellizio.

A parere. mio Napoleone III troppo fu esaltato e depresso anche troppo, massime da noi altri italiani, che dovremmo pure considerare, se avessimo fior d’intelletto, com’ei promovendo i nostri negozi, non potesse mandar male i suoi: e questo, bene inteso, io dico per ciò che concerne il suo contegno verso l’Italia, imperciocchè quanto al modo col quale s’impose principe, non credo che per molto maledirlo che si faccia, non possa, e a diritto, essere esecrato assai più. Però, non a scusa di lui, bensì per tuo governo, lettore, avverti che difficilmente troverai per le storie un trono, il quale non sia stato murato con calcina di frode, spenta nel sangue del popolo. Uomo non volgare pertanto fu codesto Napoleonide, e per essersi a lungo riparato in Italia, egli conobbe i nostri incliti patriotti; [p. 27 modifica] e con taluni di loro usò con familiare domestichezza; dei nostri indomati proponimenti egli ebbe non solo notizia, ma ci prese parte; combattè per questi; pianse... (chiedo perdono al lettore: uomini cavati dalla creta ond’era tratto Napoleone non piangono; quindi correggi: perse) un fratello morto per noi. Che se diventato imperatore si scappucciava e si genufletteva al prete, pensa che gli era forza armeggiare con la Francia, nel secolo scorso ferro arroventato nella fucina del diavolo, in questo, baccalà messo in molle nell’acqua benedetta. In Francia tutto si muta, ma non si smette nulla, nè Gesù bambini miniati, nè disegni da postribolo, nè enormezze da far drizzare i capelli, nè cipria per impolverarli. In ogni secolo pari la violenza, onde altri la segua nei suoi mostruosi trabalzi7; però se il Bonaparte e i preti si facevano le forche, va’ sicuro che l’uno conosceva l’altro; si sorridevano per mostrarsi i denti; la passava proprio fra corsaro e pirata. Il Bonaparte, più che altri, era uomo da sapere che il pensiero si converte in trapano capace da forare il porfido; e neppure ignorava la natura implacabile di quelli che lo adoperavano; aveva tocco con mano come la barbarie e la sventura, i preti del pari che i tiranni a [p. 28 modifica] masticare la Italia ci lasciarono i denti; il macinato macinò la macina; un popolo che non intende morire, che non si può far morire, gli è pure di necessità che tosto o tardi rifiorisca nella sua potenza vitale.

A questi giorni saltò su un Pallavicini sindaco di Roma; a lui non fu amica la fama, ma s’ella porgesse il vero, o piuttosto il falso, ignoro; questo so, che avendo egli mandato fuori una grida alla libera ci affermava: gli uomini d’ingegno essere stati quelli che hanno ristorato la fortuna italica; dopo tra i fattori della unità nostra, mette ancora la monarchia: si sa, questa finchè lo Stato nostro duri monarchico, ha da incastrare dentro tutti gli atti officiali, come il gloria in fondo ai salmi, e l’amen ai piedi degli oremus; nel manifesto del sindaco Pallavicini bandito in occasione

del balenar che fece il rege a Roma


ci cascava come una rima obbligata. Pertanto il Napoleonide giudicò oggimai fatale la ricostruzione della Italia a Stato uno e potente.

Nè diverso egli ebbe a giudicare della Germania, tenace anch’essa nei suoi propositi ed irrequieta per ricuperare potenza da lei più che dall’Italia prossimamente goduta e perduta. Da parecchio tempo si faceva palese come o l’Austria, o la Prussia sarebbe spinta dai casi a formare lo impero germanico, e poichè l’una inciampava l’altra, una delle [p. 29 modifica] due doveva uscire dal campo. L’Austria volle forse, ma certo non potè pigliare il sopravvento; il suo stato disforme glielo vietò: difatti, o come un’accozzaglia di gente in tutto e per tutto diversa sentirebbe o bisogno o vaghezza della nazionalità? L’Austria è una bottega di pellicciaio; una somma di popoli oppressi: intento ed opera incoerenti alla sua essenza. Per converso il compito della unità germanica, quanto sconvenevole all’Austria, altrettanto si addice alla Prussia; difatti non solo i prussiani, bensì i tedeschi degli altri Stati emuli o avversi, convennero seco lei nel line comune; e non una classe, ma tutte, così feudale, come democratica e borghese.

La vecchia politica della Francia, comecchè a lei sommamente garbasse e ai suoi rettori (qualunque essi fossero) non dispiacesse, ormai cascava a pezzi; allora il Bonaparte si avvisò astutamente di mettere perpetuo screzio fra l’Austria e la Prussia, esacerbarle una contro l’altra, intrigare affinchè la formazione dello impero germanico, poichè impedire non si poteva, riescisse dopo molto travaglio erachidinosa. Dall’altra parte, dacchè comprende che in Ispagna la sua dominazione non cestirebbe, nè quella di verun membro della propria famiglia, osteggia la candidatura orleanese, si arruffa per la prussiana, e nel concetto di rendersi mancipio il fanciullo delle Asturie, questo favorisce. Suo [p. 30 modifica] principale fondamento la Italia, onde per un lato bastasse a porgergli alla occorrenza efficace sussidio, dall’altro non diventasse potente per guisa da abilitarla a procedere da se sola, ovvero diversa, peggio poi contraria ai suoi disegni. E tu, lettore, considera com’egli scendendo primamente in Italia, allorchè bandiva volerla libera dalle Alpi all’Adriatico, significasse l’animo suo con bastevole chiarezza; se noi volemmo intenderlo in altro modo, fa peccato nostro, non già sua perfidia; se egli avesse voluto intendere della universa Italia, egli, che di geografia sa di certo, avrebbe detto dalle Alpi al Lilibeo, ovvero a Girgenti; e ciò chiarisce come il Bonaparte non mirasse mica a ricostruire intera la nostra patria, bensì a fabbricare pei suoi servizi un braccio col Piemonte, la Lombardia e la Venezia, capace a contenere, e, alla occasione, a stringere la Germania. Di vero anche i prussiani la intesero così, e ne dà prova la repugnanza loro, prima e dopo la guerra del 1866, alla occupazione del Tirolo meridionale per parte degli italiani. Se la Italia si trova ridotta oggi nei termini in cui la vediamo, certo non fu per volontà di Napoleone, il quale si industriò con ogni maniera accorgimenti innestare sul tronco lorenese della Toscana un principe della sua famiglia; sperò che il Borbone di Napoli non venisse schiantato da procella domestica, ed ebbe per certo che l’ancora della barca [p. 31 modifica] di san Pietro non si potesse, nè si dovesse sgrappare dallo scoglio, dove la tengono fissa la ignoranza dei popoli e lo interesse dei principi, e si ingannò; imperciocchè sia ben folle chi crede che i consigli umani commessi in balia della fortuna si scorgano meno sbattuti in terra, che in cielo un foglio attaccato alla zampina della rondine.

Che la Francia provocasse sotto mano, o per lo meno consentisse alla Italia la guerra contro l’Austria, nel 1866, parmi cosa da non potersi negare; certo la Italia pigliava più vigore di quello che la Francia avesse presagito, o che avrebbe sul principio sofferto; ma adesso per la potenza superlativa nella quale ad un tratto era sorta la Prussia, ella abbisognava di ausilio più valido, e che stringesse più da vicino la Germania. Grande spasimo per la Francia Sadowa! Al doppio scopo di tenersi bene edificati i cattolici in casa e fuori, e la Italia devota, il Bonaparte giudicò bastevole il ripiego di avere, in virtù di nuove convenzioni, confermato il papa portinaio preposto all’ufficio di aprirgli le porte del nostro paese quante volte ne avesse talento.

Il papato ormai sa da parecchi anni e sente essere arnese di governo in mano ai principi, e ci si adatta; imperciocchè, oggi, malgrado la molta sua improntitudine, si periti a contendere con gli Stati per soperchiarli, mentre all’opposto lo miriamo [p. 32 modifica] spencolarsi fuori di finestra per dire: — principi! o principi! se la mia corda sfilaccica, la vostra si disfà: oramai siamo diventati due debolezze, attortigliamole insieme, e vediamo se unite formeranno una forza capace a tenere legato per le mani e pei piedi anco un secolo il genere umano. — Non gli danno retta, ed a ragione, perchè promise sempre e sempre tradì; ed avendo i principi oramai ridotto il prete in servitù, non lo accettano socio: chi potendo comandare allo sbirro e al prete li patirebbe compagni? Chi con chierco si confida, come chierco è senza guida, dicevano i nostri vecchi. Tanto, in comunella co’ preti, si corre sicuro il rischio di romperci il collo più presto; meglio vale perderci soli. Così la pensano parecchi coronati e, a parere mio, con giudizio, per questa volta.

Lo imperatore di Francia da tutte queste sottilità si aspettava un solenne sconquasso della intera Germania: era da sperarsi che la Baviera e gli altri Stati cattolici aborrissero la lega dei protestanti; la Danimarca cogliesse il destro per vendicare le patite ingiurie; il re di Annover con gli altri principi spodestati rimuginassero novità per tornarsene a casa; e pure veruna di queste previsioni si verificò, perchè, camminando sui trabiccoli, l’uomo finisce quasi sempre col fiaccarsi le gambe: cotesta politica dura, che fa suo fondamento la naturale necessità delle cose, governando la logica [p. 33 modifica] non i raziocini soltanto, ma si e più i successi umani, nei primi si comprende; nei secondi si sente: in quelli persuade, in questi costringe, e se il concetto della unità italica ha potuto allignare in onta agli errori e ad ogni sorte contrarietà, egli è perchè cotesto fatto si palesava necessario nell’ordine morale e politico, quanto nel fisico la tendenza dei pesi al centro di gravità. Quanto poi la necessità del concetto possa sopra il suo buono esito, di leggieri se ne persuaderà chiunque consideri la Italia conseguisse il fine della sua unità al pari della Germania, questa vincendo, e l’altra perdendo battaglie: la necessità del fatto vinse la sventura: che se tu mi opporrai non essere riscattata tutta la terra italiana, io ti risponderò, che nè anche la Germania potè fino ad ora costituirsi in uno Stato solo: però quanti sono tedeschi si sentono inevitabilmente attratti alla unità germanica come l’ago della bussola al polo, e gli abbracciari, che adesso la fama racconta, dei due imperatori di Germania e di Austria non sono mica bugiardi; all’opposto sincerissimi, perchè l’uno tasta l’altro per conoscere dove l’avrà a stringere, per soffocarlo più presto.

Volete voi vedere qual sia la mente del prete verso la Italia? Il papa prega Dio, e confida in lui, onde non si riuniscano al capo della patria le parti, che ne durano avulse! Volete voi chiarirvi [p. 34 modifica] che la politica astiosa della Francia contro noi procede meno dall’uomo che dalla nazione? Mirate! Cotesta politica sopravvive ai funerali dello impero: non essa la ereditò da Napoleone, bensì Napoleone l’ebbe a provare parte della corona che s’imponeva. Dicasi quello che sentiamo, e quello che è vero: la Francia ustolò la guerra contro la Prussia, quasi esorcismo, il quale scongiurasse il fantasma di Sadowa, che le rimescolava le viscere della vanità, poi, ingenerosa, pretese lavarsene le mani a mo’ di Pilato, ed ora più spasimante che mai ne arrovella, forse provocando i suoi ultimi fati, e certo tenendo in sussulto il mondo per presentimento di future guerre. Nizza e Savoia l’impero ingordo e fraudolento arraffò: forse la repubblica magnanima e leale le restituisce? Lo impero per libidine di dominio ci calcò nel cranio il triregno papale armato di punte; la repubblica si morde il dito, perchè abbiamo gettato da noi cotesto supplizio; e di più pigliasi cura di farci sapere che se non viene a rificcarcelo in capo non è per manco di volontà, bensì di potestà; rifatte appena le forze, tornerà allo esercizio dell’antica tirannide: ricresciuti gli ugnoli, ripiglierà a lacerare... e allora, qual cuore di uomo presumi che possa desiderare la cessazione dello avvilimento di Francia? Tu conduci il senno e costringi la pietà a invocare da Dio che colmi la misura della tua miseria, che ti cancelli dal libro dei [p. 35 modifica] poli... Non maledite ancora, non vi sconfortate, il verme del passato rotto su la schiena si agita, ma non vive; pare che scontorcendosi minacci, e lo attortiglia lo spasimo dell’agonia... pensate a scavargli la fossa. La Francia adesso è in istato di crisalide, in breve (per quanto ci voglia fede robusta, nondimeno ardisco sperarlo) rotto lo involucro dell’ira, del cordoglio, della superbia offesa e della febbre di fastidire il vicino, volerà farfalla, simbolo della parte divina infusa nell’uomo dal suo Creatore.

— Bene sarebbe stato non nascere, ma poichè venni al mondo, il meglio sta nell’uscirne presto. — Così favellava Curio, e provveduto in fretta quanto gli parve necessario al bisogno, s’incamminò verso Brescia. Tanto la passione lo teneva legato, che in andando egli non pose mente ai mesti volti, nè alle parole dolorose delle persone nelle quali occorreva: appena giunto a Brescia ei si fece a casa Cammini amica vecchia della sua famiglia, e non v’incontrò anima viva; allora si avvisava recarsi alla dimora della baronessa Olfridi, vedova attempata, ma per patrii spiriti e per solerte benevolenza sul fiore della vita, ed anche lì tutto deserto; sceso daccapo sulla pubblica via, considera i passanti e mira quello reggersi colla mano la fronte, [p. 36 modifica] questo con ambedue farsi visiera agli ocelli, uno desolato guarda il cielo, l’altro non ha balìa di levare la faccia da terra; lamentevoli le madri, dolorose le fanciulle; spirava da ogni lato un’aura di desolazione: un lutto grave opprimeva di certo la città.

Curio si accosta a tale, che giudicò alla sembianza cortese, per domandargli qual fosse la causa di tanto cordoglio; costui non lo badò neppure, e così gli accadde con altro e con altro fino a cinque, sicchè ne stava per rinnegare la pazienza; non lo sovvenendo partito migliore, si lascia trasportare dalla piena, la quale come fu arrivata sopra certa piazza si biforcò, parte continuando a camminare pel medesimo tramite, e parte volgendo ad altro lato: di vero taluni andavano alle porte per accogliere i sorvegnenti, mentre altri si affrettano a soccorrere gli arrivati all’ospedale. Curio fu co’ secondi, e intantochè scorreva la via, riunite varie frasi tronche, costruiva la fiera notizia della rotta di Custoza, e quasi fosse poco, ecco aggiungergli trafitte all’anima le voci dello esercito sbandato; Garibaldi respinto, ferito... taluno accertava ucciso; immensa la strage degli italiani sopra le sponde fatali del Mincio. Nel salire le scale. Curio si sentiva sotto mancare le gambe, tantochè, per non cadere, ebbe ad aggrapparsi al muro; pure, innanzi di entrare nello spedale dove giacevano i feriti, i [p. 37 modifica] moribondi e, ahime! anco i morti, ricuperò il coraggio, pensando al debito sacro die gli correva di frugare se fra quei miseri si trovasse parente od amico, e, trovatolo, sovvenire.

Stupendo colà l’andare, il tornare, lo strepito dei passi, la polvere continua sagliente dallo ammattonato al palco, l’afa degli aneliti fumosi; chi portava materassi, chi biancherie, spugne, secchi, di ogni maniera arnesi, scansandosi e urtandosi, — pietà ad un punto e maraviglia a vedere. La schiera delle formiche, arrovellata a riporre la raccolta nel granaio, quando l’urge lo inverno, non sarebbe similitudine capace a ritrarre cotesto, più che solerzia, spasimo di solerzia; e tuttavia non vi notavi confusione; comando e obbedienza, lampi pari; non pace mai, nè tregua; i chirurghi nonchè il sudore non si asciugavano il sangue; più prestanti di ogni altro le donne, massime le fanciulle, che con la intera anima riversata negli occhi attendevano ad adattare faldelle, a fasciare, a forbire.... La Carità supplice accennava al Pudore, che pel momento acconsentisse a starsi un po’ indietro; ed il Pudore se ne andava adagio adagio alla porta ad aspettare le fanciulle quando sarebbero passate per tornarsene a casa.

Curio dardeggiava con gli occhi la faccia dei giacenti in cerca di persona amica, nè stette un pezzo ch’egli ebbe riconosciuto il maggiore Mainieri, [p. 38 modifica] soldato bravo quanto piacevole e arguto, amico grande di casa, quasi parente diletto; gli fu accanto di un salto; già lo avevano medicato; adesso se ne stava come assopito, eccettochè il dolore lo costringeva di tratto in tratto a far greppo con le labbra, donde però non usciva gemito alcuno. Vistolo in cotale stato, Curio maledisse alla sua avventatezza, e per tema di sturbarlo rimase immobile così, che la moglie di Lot, quando diventò di sale, a petto a lui non ci sarebbe stata per nulla. Ora a poco a poco due grosse lacrime formatesi nel cavo degli occhi del maggiore, sgorgano fuori, e dopo essere rimaste per alcuno spazio di tempo penzole alle sue palpebre come diaccioli ai merli di una rocca, gli cascano giù per le gote; e sembra che il mìggiore se ne spaventasse, perchè di subito spalancò gli occhi quasi per trattenerle e per impedire che altri le vedesse, ma nè ei le trattenne, nè potè impedire che altri le vedesse, e Cario accostando il suo volto al volto del soldato con due baci gliele bevve, mentre vinto dalla passione, egli stesso proruppe in pianto, e lo bagnò con le sue.

— Non piango per me, sai; quantunque io senta che non ce la caverò liscia...

— Dio, non me lo dite! Come state? Dove siete ferito?

— Una scheggia di mitraglia mi ha fracassato il braccio; ma con un braccio di meno si vive; si [p. 39 modifica] resta soldati con la tara del cinquanta per cento, ma sempre soldato; la ferita mortale ho ricevuta qui nel cuore... io ne morrò... e mi piace morire.

— No, voi dovete vivere per gli amici, per li patria...

— Per la patria? Rammenta Curio, che io t’ho detto ch’io non piangeva per me. In vero io piansi per l’onore militare perduto, per la patria, dopo tanta speranza, scaraventata nella ignominia; piansi sopra tanto lume d’intelletti divini diffuso invano; piansi sul sangue di tanta brava gente sparso per ribattezzare l’antica servitù. . Ah!

— Ma che sia proprio vero, ch’io abbia a vedere la fine della mia povera Italia?

Il maggiore chiuse gli occhi, e singhiozzò; Curio continuava:

— Il popolo non ha dato vite, danaro e tutto quello che aveva? Il popolo non diede armi, navi, Provincie?... Chi è lo sciagurato che si è preso tutti questi tesori e li ha buttati via, come fanno i ragazzi con le piastrelle sull’acqua... tre, quattro guizzi per gioco, e poi giù in fondo per sempre.

— Cause occulte e rimote, onde accadde questo, figliuolo mio, ci hanno ad essere, anzi ci sono, ma a me non è dato indagarle, nè mi gioverebbe esporre; le prossime sì, e te le dirò, perchè tu ne faccia senno. Voi giovani veniste al mondo in tempi brutti; la urgenza del male non lascia campo ai [p. 40 modifica] propri esperimenti; approfittatevi degli altrui. Causa prima dei nostri disastri io metto la presenza del re alla guerra: i principi stanno d’incanto a capo degli eserciti, quando si chiamano od Alessandro Magno, o Federigo II, o Gustavo Adolfo, o Napoleone I, perchè allora all’autorità del grado aggiungendo la maggiore autorità della molta perizia, maneggiano gli eserciti come macchine e li avventano come leoni; diversamente ti riusciranno sempre di impaccio e di pericolo. Di vero, o concedono che il supremo comandante non li consulti, e allora faranno meglio a starsene a casa; si vince anche in poltrona, e se non è vero non importa; per la reputazione del principe basta che il popolo lo creda; o all’opposto pretendono essi mettere il becco in molle, e allora, o diranno cose che saranno come portare ghiande alle querce, e perderai tempo, o come è da supporsi diranno svarioni, e allora il povero capitano bisogna che procuri renderli capaci, pigliandola alla larga e con un sacco di precauzioni, le quali, se stanno poco bene in Corte, in campo poi stanno malissimo, scompigliando i consigli e ritardando l’azione: ancora il capitano, quando il principe gli cammina dietro ai calcagni, più che a vincere il nemico, deve attendere a preservare costui incolume da ogni stroppio: però, senti me, che parlo schietto, se avessi ad essere capitano supremo, io preferirei avere una veste di fiasco [p. 41 modifica] avviticchiata alle gambe quando cammino, che un principe per compagno quando combatto. La seconda (ho fatto male a non metterla prima) sperpetua, il La Marmora; cocomero ingrossato dalle piogge moderate; imperito costui non si potrebbe dire, se non che, invece di riporre la scienza nel cranio, la porta sul groppone: e qui se vuoi ch’ei ce la porti a ceste, a ceste volentieri accorderò che ei ce la porti. Non ci è numero, non misura, non stadera, che valgano a calcolare, misurare o pesare la sterminata presunzione di cotesto uomo: ei farebbe la barba a Carlo Magno, e piglierebbe ad allattare Annibale e Giulio Cesare, se avesse le poppe: lo hanno abbaiato in tutte le cinque parti del mondo, in tutte le lingue gli hanno detto che ei vada a fare il capotamburo, ma egli duro; oramai ei si è ciurmato da sè gran capitano, e non ci ha più rimedio, però tentenna il capo, e compassionando leva gli occhi ed esclama: — Sciagurati! non sanno quello ch’ei si dicano. — Anco la presenza gli nuoce, dacchè egli si muova come un ragnatele spaventato: io non so per quale sua disgrazia quanti disegnatori, illustrando il maggiore romanzo del Cervantes, presero ad effigiare il Cavaliere della trista figura, sembra che si sieno dati la intesa di pigliare a modello il La Marmora. Non ci è Cristi: guarda bene il gran capitano di Biella, e ti parrà don Chisciotte nato e sputato. L’aspetto dell’uomo [p. 42 modifica] impressiona più. die tu non pensi: mira la testa di Napoleone primo console, e provati a negarmi che egli sia eroe: che cosa ti parrà di La Marmora col suo capo a pane di zucchero, e gli occhiali a cavallo sul promontorio che gli tiene le veci di naso? Io non lo dirò, se prima non gli avrai messo un filo sotto, facendogli, col tirarlo, muovere le mani e i piedi a sêsta8. Improvvido negli apparecchi, nè strategico, nè tattico, povero di partiti, nei consigli incerto, impacciato nei moti; in mal punto sta ed in mal punto corre: flagello vero della milizia italiana; avrei detto di Dio, ma Attila gli ha preso il posto. La reputazione di servitore umilissimo, devotissimo e obbedientissimo di casa Savoia gli procacciò favore inestimabile in Corte, e per mio avviso a torto, perchè nè prudente assume sopra di sè gli errori altrui, nè animoso li riversa sopra chi tocca; in somma nè Strafford, il quale si lasciò decapitare per Carlo I, nè Bava, che scrisse addirittura il disastro del 1848 doversi attribuire a Carlo Alberto: della famiglia dei servi per certo egli è, ma spetta più particolarmente alla specie dei servi insolenti: difatti per iscusarsi egli va [p. 43 modifica] sussurrando lui non esser capitano comandante, bensì capo di stato maggiore: scusa come ingenerosa fallace, perchè se conosceva i comandi infelici, dovesse opporsi a spada tratta, o inascoltato risegnare lo ufficio: ed ho sentito anche spandersi la voce di poca connessione nello esercito, di salmerie disordinate e confuse, i quali difetti se furono, e taluni furono, non si dovessero attribuire a lai per lungo tempo ministro della guerra.

Quanto valga il suo emulo Cialdini ignoro, ma del La Marmora so tanto, che sul conto loro io posso in buona coscienza profferire il giudizio di colui, che avendo a scegliere fra due sonetti, lettone uno disse: stampate l’altro, che peggio non può essere. La emulazione di questi due soldati forse necessitò il comando supremo del re, onde in lui si smussassero i puntigli, e, se così fu, anco questo si ha da deplorare come sciagura.

Pareva dovesse essere studiato con diligenza il campo delle battaglie imminenti, però che sia naturale guardare bene il luogo dove abbiamo una volta battuto il naso; ma non fu così: procedemmo a casaccio sul terreno che intendevamo ricuperare; i tedeschi che non n’erano padroni lo conoscevano palmo a palmo, noi non avevamo imparato niente; l’esperienza delle patite sconfìtte era trascorsa via per le teste dei nostri condottieri, come l’acqua piovana per le doccionate, senza lasciarvi posatura. [p. 44 modifica] Tre modi ci si presentavano per condurre la guerra offensiva: espugnare una per volta o tutte assieme le fortezze, ovvero introdursi nel mezzo di queste, isolare l’una dall’altra, distruggendo per siffatta guisa la ragione strategica del quadrilatero; finalmente, irrompere nell’Austria pel Friuli da un lato e pel Tirolo dall’altro, occupare Vienna e buttare all’aria la Ungheria: qui grande l’acquisto, pari al pericolo; ma per concepire e mandare a compimento simili partiti audacissimi, ci vogliono capitani che si chiamino Scipioni, ed eserciti composti di romani; e poi alle monarchie non garba sollevare la polvere delle rivoluzioni, memori sempre che chi semina il vento raccoglie la tempesta: il disegno di espugnare le fortezze, lungo, pieno di accidenti, spegnitoio di militare entusiasmo; riprovato dai maestri di guerra, massime se il nemico tenga con un esercito potente la campagna. Dei tre concetti elessero il secondo. Pertanto il presidente dei ministri Ricasoli, il venti del passato mese, lesse alle Camere il manifesto di guerra contro l’Austria9. [p. 45 modifica]

Nel giorno stesso il capitano La Marmora faceva sapere all’arciduca Alberto, che avrebbe messo mano alle armi tre giorni dopo la data del manifesto, lasciando in dubbio se il 23 o il 24: difatti doveva intendersi il 24, perchè il giorno che incomincia il termine non si comprende nel termine; invece egli principiò il 23, e questi mi paiono ganci diritti e gherminelle a uso Oudinot, cosicchè il capo di stato maggiore John rilevò il tiro quasi per uccellare il capitano La Marmora. Il fine della battaglia di Custoza certo fu dare comodità al Cialdini di traghettare il Po e stabilirsi sopra la sinistra sponda di quello: ora considera se si poteva far peggio; il Cialdini prima del 26, per quanti sforzi ci adoperasse, non poteva essere pronto a [p. 46 modifica] passare il fiume; le ostilità si ruppero il 23, la battaglia s’ingaggiò il 24; dunque vi era tempo sufficiente per l’arciduca Alberto di prostrare La Marmora diviso dal Cialdini; ma il capitano La Marmora si era fìtto in testa che il nemico rifuggisse dalle difese del territorio fra il Mincio e l’Adige; fisima proprio non vera, neè verosimile, essendo stato munito cotesto territorio, dopo il 1848, da un semicerchio di fortilizi tra Chievo e Tomba; ma, che vuoi tu? Come madre natura fabbricò i gamberi, così fece il cervello del capitano La Marmora, perchè entrambi camminassero alla rovescia. All’opposto l’arciduca Alberto, ottimamente informato, si avvisa batterci sul terreno che il capitano La Marmora suppone deserto, ributtarci in Lombardia, poi voltarsi celere e baldanzoso per la vittoria contro il Cialdini; ed in conformità della presa deliberazione, lasciate di cheto le stanze lungo l’Adige, ordina ai suoi si facciano avanti, per occupare le colline tra Salionze e Sommacampagna. Il capitano La Marmora, che di ciò sa niente, comanda al Della Rocca si atteli col suo corpo di esercito tra Sommacampagna e Villafranca; al Cucchiari tenga in soggezione il presidio di Mantova; ai generali Longoni e Angioletti s’inoltrino fìno a Marmirolo, e quivi stieno per riserva. Durando passi il Mincio, ma la divisione Pianell rimanga sopra la sponda destra; sulla sinistra il Cerale [p. 47 modifica] osservi Peschiera. Il Sirtori e il Brignone occupino le alture verso Sona. Ormai incaponiti nel supporre sgombro il paese, in mezzo del quale si avventuravano, comecchè prossimi ed in vista di due fortezze, procedono senza provvedhnento di possibile battaglia, anzi senza neppure confortare i soldati di cibo e di bevanda, sicchè parvero padri scolopi che menassero alla prima comunione gli scolari da ventiquattro ore digiuni, non già capitani soldati alla battaglia10: seguivano le salmerie condotte da gentame di scarriera, che stava al soldo degli impresari, capace di mettere lo scompiglio in casa del diavolo. Anche nelle passate guerre si ebbe a deplorare simile disordine; parecchi generali, e il capitano La Marmora in particolare, lo seppero, lo videro, e non ci rimediarono.

A questo modo procedendo, c’imbattemmo alla sprovvista nel nemico, col quale, appena visto, ci azzuffammo senza concetto di guerra, d’onde nacque un accapigliamento alla rinfusa, che di mano in mano ingrossando, per la strage diventò battaglia, per arte militare una baruffa: fu combattuto in tre gruppi, perchè in tre punti ci percossero gli austriaci con mosse di fianco; il primo sotto Villafranca, dove si trovarono il principe Umberto, Bixio [p. 48 modifica] e Cugia, credo anche il Govone: sfolgorati dalle artiglierie, urtati dall’impeto dei cavalli, cotesti uomini prodi tennero fermo disposti in quadrati, in uno dei quali ebbe a ricoverarsi il principe Umberto, che, a detta de’ suoi commilitoni, in cotesto giorno fece il debito di soldato italiano: tutta la giornata essi contennero il nemico: vi ha chi assottiglia, anzi nega addirittura il merito a quei valorosi, perchè non fecero di più; ma a parere mio fu grande onore per loro tenere testa finche durò la battaglia contro un nemico potente di cavalli e di artiglierie, proteggere la ritirata del nostro esercito a sera, ributtando in atto di vincitore, piuttostochè di vinto, due volte gli austriaci, una volta a furia di cannonate, ed un’altra per isforzo di cariche di cavalleria.

Il corpo del generale Durando s’incamminò mattiniero verso le colline di Sona; la sua via doveva essere diritta fra Monzambano e Castelnuovo, senonchè il Cerale, che comandava la prima brigata, temendo dei cannoni di Peschiera, invece di andare in su, scese per la sponda del Mincio fino al Borghetto, dove incontrato il traino mosso per la medesima strada, lo fa ripiegare sopra se stesso mandandolo sottosopra; nè qui cessano gli errori del Cerale, che ripigliando la via per Castelnuovo s’inferra dentro certa via stretta e incassata, senza pigliare alcuna delle precauzioni che si costumano quando [p. 49 modifica] si cammina per paese nemico; quanto a intrepidezza a tutta prova io tengo dal Cereale, ma per accorgimento, bisognerebbe si facesse ristagnare il cervello: provata che egli ebbe la dura batosta, pretese schermirsi dicendo che senza rompere uova non si fanno frittate; pur troppo non si combattono battaglie senza sperpero di vite umane, ma bisogna evitare le frittate. Io era con lui, e per lui mi trovo lacero questo mio povero braccio, ma ciò non dico per rancore, bensì per verità: verun sottotenente di volontari avrebbe proceduto con si poca considerazione, ed egli può bene disprezzare la propria vita, ma come capitano deve pigliarsi cura della vita altrui.

Le disgrazie nascono sempre gemelle, però il generale Villermosa, condottiero dell’antiguardia della divisione Sirtori, nell’uscire da Valleggio, invece di svoltare a destra per Santa Giustina, tira su per la via di Castelnuovo, e così raddoppia la vanguardia della divisione del Cerale, e la leva a quella del Sirtori, il quale non addandosi dello abbandono del Villermosa, quando se lo aspetta meno dà di capo nel nemico, che lo riceve a suono di cannonate ottimamente disposte su le alture, e per le strette dei colli11: ormai la vittoria impossibile, [p. 50 modifica] e la ritirata rischiosa: vi rimasero feriti Durando, Dho e il Cerale, il generale Villarey ucciso, ed altri non pochi: i soldati sgomenti di vedersi condotti al macello, imprecando la stoltezza dei capitani, sbandaronsi; sì, che serve celarlo? fuggirono. Ciò accadde ai più famosi soldati, dai romani ai francesi, ed accadrà sempre, quando avvenga che per errori continuati perdano ogni fiducia nei loro condottieri; se il generale Pianell non era, al quale sovvenne la ispirazione di varcare il Mincio, respingere gli assalti nemici, e proteggere la nostra ritirata, o fuga, prigioni o morti noi ci restavamo tutti. Degli altri gruppi io non so darti distinta notizia, però anche là e’ fu una matassa arruffata; bastonate da ciechi.

Pur troppo le parole del soldato ferito erano vangelo: giusta quello che ne sparse la fama, il La Marmora fino dalle ore mattutine se ne andava a Gherla, e nel cammino imbattendosi nella divisione Brignone, la mena seco ad occupare le alture di Custoza, donde mira come gli austriaci abbiano fatto lo stesso su le colline della Berrettara: ciò [p. 51 modifica] nonostante egli ingiunge al Brignone si spinga innanzi, e questi lo fa inoltrandosi fino a Monte Godio: allora il La Marmora lo pianta lì, e galoppando solo verso Villafranca, va a vedere come le cose procedano da questa parte, ed anche per condurre rinforzi al Brignone; di vero torna, ma trova il Brignone a mal ridotto dallo sforzo degli austriaci incalzanti, e costretto a ripiegarsi sopra Monte Godio: il terreno compariva ingombro di morti; si contavano tra i feriti il generale Gozzani e il principe Amedeo. A Custoza i nostri tentarono resistere, ma neanche in questo punto la fortuna volle arridere al valore scompagnato dalla perizia; fummo respinti. Il re, il quale se ne stava a contemplare la battaglia fra Villafranca e Custoza, visto retrocedere la divisione Brignone, corre via a Valleggio, di là varca il Mincio e si conduce a Goito: per questa guisa, se mai ci era stato sul campo di battaglia un comando supremo, venne affatto a sparire. Il La Marmora, per onestare la cosa, disse più. tardi essere stato suo intendimento sgarrare la prova sopra le alture di Custoza con le divisioni del secondo corpo, mentre il Bixio e il principe Umberto sostenevano il terzo corpo nella pianura; sproposito o bugia che il Rustow gli rimbecca, dichiarando: — dal suo stesso rapporto si fa manifesto, come ciò non fosse per nulla il caso, dimostra la sua testa in balìa di ' [p. 52 modifica] deplorabile confusione12. — La verità è, che il La Marmora, perduto il lume degli occhii, povero di partiti, di animo volgare, giudicando i successi non secondo la realtà, bensì a norma della sua dabbenaggine, tenne per disperata la fortuna della guerra, e mandò subito dopo la battaglia di Custoza i due famosi telegrammi; uno al Garibaldi del tenore: «Disastro irreparabile! Coprite la ritirata e Brescia;» l’altro al Cialdini concepito così: «Disastro irreparabile! Coprite la capitale (Firenze).» Da tanto poi che erano disperate le fortune della guerra, gli austriaci non pensarono manco per ombra a traghettare il Mincio e ad inseguirci: e questo afferma eziandio il La Marmora; nondimanco l’esercito intero fu addossato all’Oglio, e il re pose tranquille le stanze a Torre Malamberti presso Pescarolo.

I giornali italiani tacquero quasi due giorni, e in questo frattempo i devotissimi, avendo ripreso fiato, incominciarono a sussurrare che la battaglia veramente perduta non si poteva dire, sì piuttosto non vinta; con inezia e parola francesi la battezzarono insuccesso, e a torto, imperciocchè perduta la facessero lo scopo mancato della medesima, che fu mettersi in mezzo alle fortezze del quadrilatero, e il campo abbandonato; più che tutto, i due telegrammi, non mai abbastanza deplorabili. [p. 53 modifica] Se non che qui vennero fuori i devotissimi del La Marmora, ed a posta loro andarono bisbigliando ch’egli li sconfessava, e parve bruttissimo tiro, perchè, se non furono sua fattura, non si rimanga a mormorarlo sottovoce; lo dica chiaro ed aperto; ma vorrà disdire forse anco il suo rapporto dove significa: «non avendo avuto buon successo il nostro tentativo di stabilirci tra il Mincio e l’Adige per separare le fortezze le une dalle altre, la posizione da noi presa lungo il Mincio diveniva senza scopo.»? Gli intendenti della milizia, nei giudizi loro discreti, a queste insanie non possono reggersi tanto, che non siano costretti ad esclamare: Da quando in qua il condottiero, se non riesce al primo tratto nella sua impresa, l’abbandona? Costumò così Napoleone a Marengo? Fino alle quattro pom. è fama lo avesse respinto il vecchio Melas; a codesta ora sopraggiunse il Desaix, il quale, interrogato, disse se essere giunto tardo per impedire che una battaglia si perdesse, sempre a tempo perchè un’altra se ne guadagnasse, e così fece. Forse era cessato lo scopo di porgere la mano al Cialdini, varcato che avesse il Po? Da quando in qua si mettono due fiumi in mezzo tra voi e il nemico che non v’insegue? Il Rustow, per trovare un’aurora boreale di senso comune in tutto questo garbuglio, immagina che l’esercito si versasse in disordine maggiore di quello che si supponesse, e [p. 54 modifica] certo tacquesi allora e non si dice neanche adesso, ma è vero, come il maggiore Mainieri narrava a Curio, che non pochlii soldati fuggirono, gittate le armi, maledicendo gli stolti capitani: però in breve ripresero animo, e desiderarono ritentare la prova sotto guida migliore: moltissimi all’incontro durarono ordinati e pugnaci come quelli del Pianell e gli altri del Bixio; le due divisioni Angioletti e Longoni intatte, non avendo preso parte al combattimento: inoltre, o il Cialdini sul Po che ci stava egli a fare?

Eppure comandava a ben quattordici divisioni, esercito più numeroso di quello del Mincio. Intorno a Cuastoza furono i nostri centoquarantaseimila, e di questi combatterono soltanto sessantaseimila. Settecentoventi ne caddero morti, tremilacentododici si noverarono i feriti; tra le nostre e quelle del nemico, le perdite si bilanciarono: perchè dunque ci demmo per vinti? Al fatto di Marengo, di già riportato, il Rastow aggiunge con legittimo orgoglio l’altro di Ligny, dove i prussiani sbaragliati poterono in due giorni riordinarsi e battere Napoleone con la famosa percossa di Waterloo.

Non si volle vincere, proruppe un giorno quel fiero uomo che è Nino Bixio: però io non mi accosto alla terribile sentenza di lui, che è naturale cosa desiderarsi la vittoria con maggiore anelito da quelli che si sentono meno capaci ad acquistarla [p. 55 modifica] per virtù; ed ella ci viene sempre feconda di utili resultati: di rado l’uomo renunzia alle sue comodità, e più di rado alle lusinghe dell’amor proprio appagato; quando poi l’agonia dell’utile e l’agonia della vanità s’intrecciano in uno interesse solo, allora poi giudico impossibile che ci renunzi l’uomo: questo parmi più vero, che tra la speranza generosa, ma piena del pericolo di perdere, e la ghiottoneria di guadagnare con sicurezza, prevalse nei nostri guidaioli la ghiottoneria; non si contò la vergogna. Il capitano La Marmora rinfoderò il brando sul fianco sinistro, e diventato Scriba cavò fuori dal destro il pennajolo: nelle sue mani l’uno e l’altro del pari infelici: arduo è sgarrare col calamaio colà dove fece fallo la spada: non ci fu altri che Lutero, al quale riuscì vincere col calamaio: e vinse nientemeno che il diavolo in persona, ma glielo scaraventò nella testa. Ora il La Marmora, professandosi cattolico, non ha fede che nell’acqiia benedetta. In verità di Dio, io per me penso che quando la monarchia ci schiera davanti agli occhi i suoi capitani, i suoi ammiragli, i suoi ministri, lo faccia pel medesimo spirito onde i giocolieri ti mostrano, sopra l’avversa parete, le figure grottesche della lanterna magica, per tenere allegra la brigata divertendola dal senso dei mali presenti e dalle apprensioni del futuro. [p. 56 modifica]

— Oh! sia ringraziato Dio, che ci ha concesso la morte: adesso, se ci condannassero a vivere, quale strazio sarebbe pari al dolor nostro?

Così lamentava Curio, e il buon maggiore percosso dalla desolazione del giovane avrebbe volentieri rinnegato le sue parole: pure, voglioso di rimediare come meglio poteva al mal fatto, soggiunse:

— Coraggio, Cario, sempre coraggio, che tutto quello che ciondola non casca: ora fa’ una cosa, va’ fuori, e procura raccogliere qualche notizia per te ed anche per me.

— Ho paura.

— Paura! E di che?

— Sì, paura da non potersi dire: io tremo tutto nel presagio di sentirmene contare delle peggio: le forze italiane mi fanno l’effetto dei birilli del biliardo, che si mettono ritti per essere buttati giù.

— Or via, Curio, pensa che il diavolo non è mai brutto come si dipinge: va’, torna, e fa’ presto; rammenta ch’io sto sulle spine, e alla disgrazia sono uso opporre cuore di rocca: la incertezza mi ammazza.

Curio andava per le vie di Brescia speculando onde trovare persona, la quale dal sembiante gli [p. 57 modifica] promettesse accoglienza cortese, allorchè di un tratto gli si presenta davanti un gruppo, che trasse a se la sua intera attenzione: un uomo aitante della persona, di barba e di capelli grigio, con la camicia rossa dei garibaldini, si portava in collo un altro soldato del pari garibaldino, di cui il capo gli penzolava sopra la sinistra spalla: il vecchio tirava innanzi a stento, appoggiandosi con la destra mano al muro, che non si attentava di abbandonare. La gente passava senza badarlo, non per mancanza di cuore, figurarsi se questo può mai avvenire a Brescia! ma perchè si sentiva da più dolenti cure compresa, e le grandi angosce strozzano le piccole. Curio, nella speranza di spillare dal soldato qualche novella che facesse al suo caso, gli si accosta bel bello per profferirglisi, ma appena gli ebbe sbirciato la faccia, che esclamò:

— Gua’! Filippo, sei tu? Come diavolo ti trovo qui?

E Filippo: — Curio, proprio mi ti manda Dio: dammi una mano per adagiare su questo muricciolo il poverino che porto.

— Fatti in là, Filippo, che basto solo, e tu barelli: a sorte non saresti ferito?

— No, grazie a Dio, ma le forze pur troppo mi mancano — e così dicendo casca giù ginocchioni con le mani in avanti. Curio, aiutato da un cittadino che di là passava, mise Filippo a sedere [p. 58 modifica] accanto all’altro; poi prese una rincorsa piantando ambidue, e in meno che non si dice un credo, mentre Filippo pur troppo sospettava essere abbandonato (la sventura, quando si maritò col bisogno, per primogenito partorì il sospetto) rideccoti comparirgli dinanzi Curio con un palmo di lingua fuori, carico di berlingozzi, bocce di liquori e di due fiaschi di vino.

Però Curio, andando alla volta di Filippo, mirò da lontano una cosa, che gli mise la pulce dentro l’orecchio, senza che ei potesse rendersene ragione. Filippo si era tirato in grembo il soldato, e sciorinando su lui il fazzoletto olim- bianco, gli rinfrescava il capo riarso, gli cacciava le mosche, e di ora in ora lo andava dolcissimamente baciando. Il bene è sempre bene, diceva Curio fra se, ma i troppi amen guastano le messe. Filippo stese ansioso le mani a ciò che Curio gli porgeva, ma non sì tosto lo ebbe guardato, esclamò:

— Ohimè! Curio, che è questo che tu hai portato? acqua, acqua... tu me la vuoi far morire?

— Hai ragione, soggiunse Curio, e via da capo a precipizio; tornò in un attimo coll’occorrente, ma anco per questa volta riuscì il sussidio inefficace, però che il giovanetto vagellando sbattesse smanioso di qua e di là la testa. Filippo mandava giù dalla fronte a quattro a quattro le gocciole del sudore; in cotesto punto, non sapendo che fare di [p. 59 modifica] meglio, diede di piglio alla boccia dell’acquavite, e sia lode al vero, ne mandò giù un gran sorso.

— Ah! mi sentivo proprio morire, sospirò restituendo la boccia a Curio: rinfrancato così, riprese:

— Curio, piglia il capo al ragazzo e tienglielo fermo con più grazia che puoi: ecco, adesso m’ingegnerò aprirgli le labbra e versarvi un po’ di acqua.... sta’ attento.... e fa’ adagio.

Certo fu più quella che gli versò sul petto, che nella bocca; pure cotesto refrigerio di acqua valse per fare aprire gli occhi all’infermo: e Curio allora, secondo l’usato costume, precipitoso interrogava Filippo.

— E adesso che almanacchi qui, con questo povero ragazzo?

— Vengo da Montesuello....

— Da Montesuello! Là dove è caduto morto il Garibaldi?

— Che morto! Accidenti a chi lo crede e a chi lo dice. Per Dio! non mi stringere il collo... Cario, non mi strozzare!

Difatti Curio gli si era avventato al collo, scaricando sopra di lui un turbine di baci.

— Neanche ferito? Assicurami che non è stato nemmeno ferito.

Ferito sì, ma gli è un nonnulla ... povero uomo! Ogni battaglia a cui si trova gli lascia il ricordo [p. 60 modifica] sul corpo; però egli ha bene altro per il capo che pensare alle sue ferite; ha bisogno di sentirsi sano, e sano è; egli ha già ripreso a menare le mani contro i tedeschi.... a quest’ora si batte.... a quest’ora vince.

— Come, tu credi che costà si combatta e tu stai qui?

— Il generale Garibaldi in persona, saltò su a gridare Filippo avvampato nel viso... mi ordinò, mi pregò di condurre subito via questo fanciullo ed acconciarlo in qualche casa perchè si curi....

— È ferito?

— No, travagliato fieramente dalla terzana a cagione delle intemperie e della soverchia fatica; forse ci ha miscuglio di qualche altro malanno: almeno il medico del reggimento ne dubita.

— E s’è così, che ci stiamo a gingillare? Su, portiamolo all’ospedale.

— Gli è appunto allo spedale che io non lo voglio portare.

— E perchè?

— Perchè negli spedali è forza vedere e udire cose, delle quali la verecondia si offende.

— Filippo, che diavolo arzigogoli? Ai giorni nostri un giovanotto di diciassette anni ha da scandalizzarsi di quanto possa vedere o udire nello spedale, dopo esser passato per la trafila delle caserme e dei campi? [p. 61 modifica]

— Un giovane forse no, ma una fanciulla di certo sì, e questa è una fanciulla.

— E, tocco di disgraziato, in mezzo di strada la baciavi?....

— Silenzio, Curio, ella è mia figlia.

— Oh! tua figlia! E da quando in qua? Io non seppi mai che tu avessi moglie.

— E che bisogno ci era che tu lo sapessi? Quanto più preziosi i tesori, più si tengono nascosti. Adesso, ella mi ha abbandonato per vita migliore, almeno così mi giova sperare; però non le bastò il cuore di lasciarmi solo, e innanzi di morire mi pose sopra le braccia questa figliuola.

— Dimmi, Filippo, ed era bella cotesta tua moglie?

— Ella mi amava.

— Donde nasceva, dal popolo? dalla borghesia? Era gentilesca nei modi?

— Ella mi amava: l’amore ch’ella mi portava finchè visse, e che io portava e porto a lei, non ci lasciarono attendere ad altro. In vita, io la guardai traverso una contentezza che non era terrena, in morte traverso un pianto, che pur troppo è terreno: per indole, per sembianza, per affetto, questa mia creatura è tutta lei.

Curio mirò curiosamente la fanciulla e gli parve che non ci fossero sfoggi; allo improvviso, come vergognando degli inani propositi, usci fuori dicendo: [p. 62 modifica]

— Dacchè sei qui, e qui rimanti fintantochè io torni, che spero avere trovato il fatto tuo.

E via di corsa daccapo: questa volta il suo cammino era indirizzato al palazzo della egregia donna, la baronessa Olfridi: anco adesso cercò invano il portinaio; salite le scale a tre scalini per volta, si attacca al cordone del campanello, e tira giù, che pareva il diluvio.

— Furia! Furia! si sentì gridare per di dentro, date tempo al tempo! Discrezione, se ce n’è!

Si spalanca la porta.

— Oh, signora baronessa! E come diamine viene ella ad aprire in persona? La mi scusi, se....

— Curio! Come ti sei fatto grande! E chi vuoi che ti venga ad aprire se non io? Mi trovo in casa sola: Nisio, il cocchiere, e Bertino, il cameriere, se ne sono andati col Garibaldi, menando seco i cavalli; Gaspero, il portinaio, si attaccò alle falde loro ed anch’egli volò via. Eleuteria, la mia figliuola, guarda a vista suo marito, e dei cinque figliuoli si serve come di altrettanti uncini per trattenerlo, onde non pigli insieme con gli altri il cammino verso il Garibaldi: delle mie quattro donne non posso far capitale; sono a curare gli infermi ed i feriti per le case, alla stazione, per gli ospizi; appena ne ho il comodo, una scappata ce la do ancor io; ed ecco perchè ti vengo ad aprire l’uscio.

— Meglio così! [p. 63 modifica]

— Come? No davvero, che non è meglio così: non è meglio per la ragione che alla vista di quei bravi figliuoli, così malconci dalla rabbia dei nostri nemici, mi piglia una passione al cuore, che non ti so dire; non è meglio per me, percliè la vecchiaia è trista e la solitudine mi uggisce; io sento bisogno, più. che del pane quotidiano, vedermi ogni di attorno i miei nipotini.... io sono di levata. Curio mio; nella mia famiglia vivo, e finchè duro me la voglio godere... hai capito?

— Sì, signora; ella parla unicamente, ma io non lo diceva per questo, avendo il pensiero rivolto a Filippo: lo conosce, signora, Filippo?

— E chi è questo signore? Lo sento per la prima volta nominare adesso.

— Ebbene, vostra signoria sappia ch’egli è un sergente....

— E che me ne importa?

— Ma lasci dire; un sergente, bravo a prova di bomba; nella guardia nazionale di Milano egli tenne uffizio di sergente istruttore, e di giunta era maestro d’arme, onde egli ha potuto per questa via insegnare a tutti i giovanotti di Milano, me inclusivo, il maneggio della carabina, della spada e della sciabola. Filippo, oltre l’ufficio di sergente maggiore e di maestro d’arme, teneva eziandio una moglie, che egli amava, e però non faceva vedere a nessuno: il sergente racconta che la [p. 64 modifica] donna a fare da lampana sotto il moggio ci aveva piacere.

— Male; un tiranno, secondo il solito.

— No, signora, il prelodato sergente afferma sopra la sua coscienza, e badi ch’egli è galantuomo, questa essere stata la volontà espressa della moglie, la quale si sentiva contenta dello amore del marito, come il marito arcicontento dello amore della moglie.

— Allora muta specie e dirò: benissimo.

— La buona donna, sul più bello, essendosi infermata, venne a morte.

— Tribolazioni quotidiane di questo nostro pellegrinaggio sopra la terra.

— Prima però di chiudere gli occhi, ella gli pose una bambina sopra le braccia dicendogli: Ecco, ti lascio questa in ricordo di me! La bimba crebbe e adesso annovera sedici anni. Ora ha da sapere come Filippo alla chiamata del Garibaldi ha fatto a modo del suo cocchiere, del suo cameriere e del suo portinaio.... come vorrebbe fare il suo signor genero, e come avrebbero fatto tutti i suoi figli, se il cielo gliene avesse concesso.

— Certamente... che dubbio?

— Veruno. Il pover’uomo, con cotesta figliuola sulle braccia, non sapeva a qual santo votarsi, un piede aveva fuori dell’uscio e l’altro dentro per amore della ragazza, cui non gli bastava l’animo abbandonare, e la figliuola a sua posta non [p. 65 modifica] intendeva separarsi dal padre. Allora, senta che cosa mi stilla Filippo. Nella divina asinità del suo cuore... avverta, signora baronessa, questo concetto è di mia particolare invenzione, e come mi esce dalla mente, io, caldo caldo, lo servo a lei... dunque Filippo, nella divina asinità del suo cuore, trasforma la figliuola in giovanetto, la veste da garibaldino, e, senza punto badare alla tenera età, nè alla delicata complessione, la conduce seco a durare fatiche alle quali anco i più robusti vengono meno, e a cimentarsi in pericoli che mettono i brividi addosso ai meglio animosi. La giovanetta ha preso la febbre, e il padre teme di peggio. Il Garibaldi ha comandato al padre la meni subito qua, e stia a custodirla finchè non risani; Filippo non la intende così; allo spedale non ce la vuole mettere, e dalla guerra non si vuole allontanare: io l’ho incontrato teste più morto che vivo, colla sua figliuola in collo, vagare per la città in traccia di un asilo fidato dove deporre cotesta parte dell’anima sua, ed una volta sicuro che le useranno carità di patriotti e di cristiani, se ne torna al fianco del generale. Sentito appena il suo bisogno, io ho pensato subito a lei, e ho detto a lui, cioè a Filippo: — Tu sei nato vestito; non moverti di lì, che ho il fatto tuo: per la qual cosa udendo adesso come la signoria vostra abbia tutta la sua gente fuori di casa, ho pensato: tanto meglio così, la signora non [p. 66 modifica] si troverà in imbarazzo a dare un po’ di ricovero alla poverina.

— Curio, voi dovevate sapere che quando non avessi avuto libere altre camere, ci sarebbe stata la mia. Orsù, andate per la ragazza; e intanto io allestirò alla meglio quello che fa bisogno.

Curio si rovescia, proprio così, verso la baronessa, le bacia e le ribacia le mani, poi senz’altre parole scappa via: giunto colà dove lo aspettava Filippo:

— Su, sorgi et ambula, e non aggiungo: tolle grabatum tuum, percliè ti toccherebbe a schiantare il muricciolo...

— E dove andiamo?

— Andiamo da mia madre, vale a dire da una santissima donna, che come madre reverisco ed amo, dalla baronessa Olfridi.

— Dio te ne renda merito; ma ora a trasportare questa figliuola come si fa?

— Ecco come si fa: con la tua destra agguantati il braccio sinistro, con la mano sinistra stringimi il braccio destro; così, bravo; ecco fatta la seggiola; qui sopra adageremo la ragazza; ora bisognerebbe che anch’essa si aiutasse passandoci le braccia al collo ed agguantandocisi bene per non cadere all’indietro; a questo modo la porteremo pari come una sposa.

E come disse fecero; se non che la fanciulla non [p. 67 modifica] potè, siccome avevano sperato, aiutarsi, ond’ella ad ogni momento per difetto di spalliera minacciava cadere riversa: sudavano entrambi dalla fatica, e più per la pena; allora Curio soffiando osservò:

— Non ci è rimedio; qui ci vuole proprio una seggiola. E sbirciato d’intorno, mira un carbonaio seduto sopra lo sporto della sua bottega: il carbonaio e la sedia parevano ricavati dal medesimo pezzo di ebano, tanto essi erano neri. Curio gli si accosta e gli dice: Alzati.

— E se non mi volessi alzare?

— Che m’importa che tu non voglia; basta che tu ti alzi e mi dia la seggiola.

— È matto.

— Senti, carbonaio, io non sono matto; ho bisogno della tua seggiola per trasportare quel povero garibaldino infermo, che miri là; lo portavamo a braccia, ma non si potendo attaccare a noi, ogni momento stava in procinto di cascare per di dietro; molto più che anche suo padre si regge a mala pena in piedi.

— Come così è, vengo io, rispose il carbonaio, saltando su e tirandosi dietro la seggiola, dove tosto riassettata la ragazza continuarono la via.

Filippo aveva contrastato per non cedere ad altri il trasporto della figliuola, ma poi ci si adattò dietro la osservazione di Curio, che reggendo lievemente il capo della figliuola per la nuca, le avrebbe [p. 68 modifica] impedito di ciondolarlo sul petto da una parte all’altra.

Il carbonaio, nello ardore della sua benevolenza, non aveva posto mente alla polvere di carbone onde egli e la sua seggiola andavano imbrattati, e molto meno ce l’avevano posta gli altri; sicchè Curio, essendosi asciugato più volte con le mani il sudore, ed avendo anco reso più volte lo stesso servizio alla inferma che grondava, in breve venne a fare di sè e di lei un tutto uguale al carbonaio: però giunti che furono al palazzo Olfridi, la baronessa, che li aspettava a gloria in capo di scala, al vederli non sapeva più in che mondo si fosse; erano tre cafri in un gomitolo: già stava per dare di volta, chiudere l’uscio e tirare i chiavistelli, quando valse a trattenerla la voce di Curio, il quale si mise a gridare:

— O che scappa, baronessa?

— Aspetto bianchi, e voi mi venite neri.

Nonostante le apprensioni di cui i nostri personaggi andavano compresi, di tanto non poterono trattenersi che non prorompessero tutti in uno scoppio di risa; fino la fanciulla, poco prima risentita, rise. Il carbonaio, che si sentiva in colpa di cotesto caso, si confondeva in scuse al mal fatto, chiamandosi pronto a sopperire alle spese di ranno e di sapone; onde le risa crescevano vie più: impertanto appena gli parve poterlo fare, se la svignò lasciando [p. 69 modifica] la seggiola, la quale indi a un’ora gli fu riportata da parte della baronessa, con cinque lire di mancia, cui egli da principio rifiutò ferocemente, ma la moglie a poco a poco lo ammollì, e all’ultimo con una stretta lo vinse, dicendo: «Pigliale, serviranno a rinnovare la provvisione di polvere e palle, caso mai quei cani avessero a tornare.» La guerra essendo durata poco, e così remosso ogni pericolo d’invasione, il carbonaio e la carbonaia, messo in consulta il da farsi delle cinque lire, deliberarono all’unanimità di comprare tanto vino e beverloie alla salute del generale Garibaldi.

La baronessa, poichè le fu recata in camera la fanciulla, voltasi agli astanti piacevolmente lor favellò:

— Ed ora voi altri ve ne potete andare. Curio, tu conosci la casa, al camino la pentola bolle, in dispensa troverai il bisogno: apparecchiate da voi, e mangiate. Tu, Curio, a quanto sembra, hai maggiore necessità di lavarti che di mangiare, il signor Filippo forse più di mangiare che di lavarsi, ma di ambedue le cose l’uno e l’altro di voi ha certamente bisogno.

— Grazie, signora mia, grazie, ma veda, se non le fosse d’incomodo, le darei aiuto a spogliare ed a lavare la ragazza.

— Signor no, la decenza lo vieta.

— O se l’ho fatto tante volte? [p. 70 modifica]

— E che rileva cotesto? Quando costringe la necessità, allora va bene che il padre riunisca alle sue anco le prerogative della madre, a patto però che tornino a separarsi subito dopo che la madre, od altra donna la quale ne tenga le veci, soppraggiunga a ripigliarle; e ora ci sono io a fare da madre.

Filippo chinò il capo, e sospirando soggiunse:

— E quando potrò tornare?

— A suo tempo sarà avvisato: per ora, reverisco; e presolo per mano lo scortava fino al limitare della porta; voltandosi poi vide come Curio non si fosse mosso: E lei che fa?

— Aspettava la intimazione di sfratto. Ecco la intimazione, disse sorridendo la baronessa; e, messagli la mano sopra una spalla, lo cacciò fuori chiudendogli l’uscio in faccia.

Filippo e Curio lavaronsi e si misero a mensa; se non che Filippo quasi ad ogni boccone si levava, e con le nocche battuto alla porta della camera della baronessa, chiedeva con la voce del mendicante:

— Si può entrare?

— No, signore.

Ed egli tutto umile rifaceva i passi: all’ultimo la baronessa un po’ spazientita lo ammoni:

— Senta, non stia a disturbarsi più oltre: sarà chiamato. [p. 71 modifica]

La egregia donna, spogliata la giovane, adoperò verso quella le più delicate mondizie di cui meritamente sono vaghe le gentildonne, e mentre l’allindiva, secondochè la femminile curiosità la persuadeva, di tratto in tratto la guardava e viepiù sempre stupiva.

— Dio! Dio! ella non rifiniva di esclamare, come sei bella; che volto! che capo! E come ti chiami, carina mia?

E la fanciulla, fattasi in faccia color di rosa imbalconata, rispondeva:

— Mi chiamo Eufrosina.

— Il nome di una Grazia, e ti sta bene.

Le sciolse i capelli folti e nerissimi, glieli forbì, glieli profumò con olio lievemente odoroso di ireos, e infine glieli compose a benda lungo le tempie; non si saziando contemplarla e baciarla. La contentezza della buona signora superava di mille doppi quella del restauratore di quadri, al quale fu data a ripulire la rozza tavola dove Leonardo da Vinci aveva dipinto l’Angiolo: narrasi come l’artefice mano a mano che lavando la lordura scopriva cotesto miracolo dell’arte, si sentisse conquidere dentro, finche avendolo disvelato tutto, tanta dolcezza lo vinse, che si lasciò cadere in ginocchioni per adorarlo. Suprema forza della natura, bellezza.

In effetto, la baronessa infervorata dall’entusiasmo, andava ripetendo: [p. 72 modifica]

— Ma tu sei creatura modellata da Dio, con le sue sante mani: Eufrosina, vedi, la mia figliuola Eleuteria, che pure è in fama di bella, in faccia a te parrebbe un moccolo in paragone del sole.

E non cessava stazzonarla: la vestì di finissima camicia di tela batista, e in capo le pose la più preziosa delle sue cuffiette; la ricreò con un cordiale, tornò a guardarla, tornò a baciarla, e poi, lieta così che non capiva nella pelle, spalanca la porta e grida:

— Sor Filippo... sor Filippo, adesso, se vuole, può venire.

E quegli non aspettò si rinnovasse l’invito. Curio, che gli veniva dietro, a posta sua domandò peritoso:

— E a me non sarebbe permesso?

— O chi ti para?

Vieni amore a veder la gloria nostra,
Beltà sopra natura altera e nuova.

Il padre, comecchè uso a contemplare quel caro sembiante, rimase estatico a vederla così trasformata, e come i devoti costumano recitare le orazioni, egli sussurrava sommesso:

— Che maraviglia! quanto bella! quanto buona!

E la baronessa osservava a Curio:

— Ma lo credo io, che il sor Filippo repugnava a metterla allo spedale; cotesto creature si custodiscono. Dio mi perdoni, nel ciborio; Curio, ma guarda quegli occhi, fammi il piacere di [p. 73 modifica] guardarmeli bene, e dimmi poi se non ti paiono fatti di filo di rasoi; perchè gli occhi tagliano, e di che tinta!

Non ci era mestieri tanta fiamma per accendere il cuore di Curio, ma ciò che lo fece andare in visibilio, fu quando la fanciulla in sembianza umile lo pregò:

— Signor Curio, vorrebbe accostarsi più presso a me...

Non se lo fece dire due volte, ed ella, presolo per la mano, gliela strinse con immenso affetto dicendo:

— Anche lei il Signore Dio rimeriti della sua carità.

Curio non ebbe balìa di aprire bocca; un formicolio dalla mano stretta gli corse su pel braccio, e dal braccio gli salì negli occhi, che in un attimo rimasero assorti in un mare di fuoco: essendosi poi provato ad articolare parola, dalla gola stretta non valse a cavarne altro che un singulto; e il poveretto, il quale non sapeva ancora che fosse amore, credè che gli ci fosse rimasto un ossetto della braciola mangiata poc’anzi.

Dopo alcuna dimora, la baronessa riprese:

— Ho mandato pel medico, ma, signor Filippo, stia allegro, che non sarà nulla; alla peggio una terzana, e voi lo sapete il proverbio che dice: «i vecchi ammazza e i giovani risana.» Se non fossi per passare da presuntuosa, io piglierei a guarirla [p. 74 modifica] da me; giuoco che tra otto giorni o dieci ella vi torna in fiore, più che non sia mai stata. Adesso poi bisogna che riposi: vedete come la si sforza a tenere gli occhi aperti; andate a dormire, a passeggiare: a rivederci a pranzo.

Filippo si china, e, preso un lembo della vesta alla baronessa, glielo bacia dicendo:

— Signora, voi siete una santa...

E Curio, con quel suo fare avventato, lo interromice, esclamando:

— Non ci è bisogno di stupirne; qui in Brescia tutte le donne sono così...

— Non tutte, adulatore, non tutte, riprese la baronessa sorridendo, però non nego, la massima parte.

— E adesso che facciamo?

— A parer mio, il meglio sarà andarcene a dormire, rispose Curio; se non che subito dandosi un picchio al capo esclamò:

— Ignorante che sono! E il povero maggiore mi era già uscito di mente! Addio, Filippo, addio; va’ a dormire, che a me tocca andare fino allo spedale a rivedere il maggiore; un bravo uomo, sai? Credendo egli perduta la guerra, si era dato alla disperazione; io gli ho promesso portargli notizie [p. 75 modifica] fresche, e poichè son liete, giudico crudeltà ritardargliele; dunque a rivederci.

— Aspetta, Curio, che vo’ venire anch’io.

— O la fatica? il sonno?

— Vedere un patriotta di cuore, e parlare con lui di battaglie, mi fa più pro che dormire.

Andarono; però, nonostante i bei propositi di Filippo, egli sentendosi debole di forze, si appoggiò al braccio di Cario, e per un buon tratto di cammino procederono a maraviglia; di repente Curio si svincolava da Filippo con tanto buon garbo, che per poco non lo mandò riverso per la terra; la cagione ne fu lo aver visto Curio una corba di limoni, i quali pensando potessero essere accetti al maggiore, corse a comprarli alla sua maniera, cioè a pigliarli per pagarli poi quello che chiedevano. Di nuovo si rimettono in via, e Filippo di nuovo si regge al braccio di Curio, finchè a questo non gli frulla pel capo la fantasia che forse il maggiore mancava di zucchero, e allora i limoni soli a che buoni, se non che alleghire i denti? Di qui un secondo sbalzo e un altro squasso, che per questa volta avrebbe di certo stramazzato Filippo, se non dava in pieno nella pancia ad una massaia, che pareva un pagliaio.

— Buona grazia vinse il palio! gridò la donna stizzita, rendendogli la spinta col cambio, onde Filippo potè, quantunque traballando, reggersi in [p. 76 modifica] piedi e dirle grazie di cuore. Per la quale cosa la massaia reputandosi uccellata, piena di rovello si allontanò brontolando un carro di villanie. Curio intanto, lieto del fatto suo, profferiva il braccio a Filippo, ma questi respingendolo disse:

— Va’ al diavolo, ch’io terrei mettermi in una tasca la tramontana e in un’altra il grecale, piuttostochè venire a braccetto con te.

Accostaronsi al letto del maggiore, dov’egli se ne stava appisolato, senoncliè, udito appena il rumore dei passi che gli si avvicinavano, aperse gli occhi sospirando:

— Quanto ti sei fatto aspettare!

— Maggiore, non una ma venti scuse potrei addurvi una migliore dell’altra: ma a che pro? Ecco: io vi ho condotto un’anima di leccio, che viene adesso dal quartiere del generale Garibaldi.

— Viene! E perchè torna?

— Non istate a farvi il sangue verde, maggiore, questo vi basti, che stoppa ce ne avanza, nèe Garibaldi si rimane da torcerla.

— Sì? Su presto, racconta.

— Il sergente Filippo ve lo racconterà per filo e per segno.

— Se permette, signor maggiore, disse Filippo, [p. 77 modifica] salutando coll’alzare della mano verso il berretto, le domanderò innanzi tratto se sappia dove diavolo ci abbiano cacciato?

— Dillo a me, che lo conosco a mena dito! Gioghi, che per vederne la cima bisogna metterci addirittura a pancia all’aria; rupi a strappi appuntate come le guglie del duomo di Milano: nevi da un anno all’altro, ghiacciaie eterne, e a giorni per ore e ore un fiato di bocca di forno: calli poi dove la camozza, dopo averci steso il piede, lo tiene in alto quasi per deliberare se debba o no avventurarcisi, e all’ultimo non ne fa niente; fiumi, che menano a rotta di collo macigni come fossero rena, sempre a guadarli pericolosi, sovente impossibili; dai fianchi del monte, di sul capo da mille ripari naturali, o condotti ad arte, ti fioccano palle senza sapere chi ringraziarne: sembra che i demoni del luogo, impietriti in cotesto rocce, sparino a man salva: in mezzo al terribile laberinto, ai tempi di Andrea Hofer, si dice che ci restassero morti non meno di quarantamila uomini fra bavari e franchi.

— Proprio così, ed anco adesso, dopo cinquantasette anni, tu miri biancheggiare di ossa certa valle, che ha nome il burrone dei morti; però al presente è troppo peggio del 1809 e del 1848, perchè da quest’ultimo anno gli austriaci, in capo ad ogni svolta dei monti, hanno fabbricato un fortino armato di tutto punto. Cotesti fortilizi, posti là a [p. 78 modifica] sbarrare la strada, paiono mastini che ti mostrino i denti... da un punto all’altro ti sembra che abbiano a pigliare la rincorsa per saltarti alla gola. Glielo avevano avvisato a quel coso del La Marmora: Generale, badi al Caffaro, al Tonale e allo Stelvio, che da coteste parti gli austriaci sbucarono sempre.»

Ma ei non la volle capire.

Il Clementi, che è un macellaio di Bormio, mio amico, sulla fine di maggio si raccomandava, con le braccia in croce, mandassero gente a guardare i passi; facile impresa presidiando il Giogo, il Casino dei rottieri, le cantoniere, la chiesa e la casa del cappellano; più tardi impossibile; non gli si diede ascolto; precipitando gli eventi, il Clementi implora: forniteci armi e munizioni che ci difenderemo da noi: se il governo frigge con l’acqua e non le vuol dare a ufo, ce le metta a debito, e, se non si fida, da una mano gli schioppi, dall’altra i quattrini: e’ fa predicare ai porri: il dì veniente i tedeschi dallo Stelvio e dal Tonale irruppero sopra le terre lombarde. Così, un macellaio alla prova si mostrò più esperto di strategia del capitano La Marmora. Adesso il Generale ha spedito in fretta e in furia da quelle parti i colonnelli Guicciardi e Cadolini, e staremo a vedere ciò che sapranno fare.

— Ma sicuro che bisognava tenere l’occhio sul Tirolo, perchè ecco qua come i tedeschi possono scendere da codesto lato in Lombardia, e [p. 79 modifica] minacciarci di fianco e alle spalle, intanto che noi c’inoltriamo nel Veneto; così noi potremmo, a volta nostra, speculandoli in cotesto posizioni, assalirli a tergo ed occupare il Tirolo.

In questa opinione mi conferma l’ottimo sistema immaginato dagli ingegneri tedeschi, i quali, avendo fatto il castello di Toblino chiave della vôlta, partirono in due le linee della difesa, di cui la prima piglia da mezzogiorno scendendo dalla valle inferiore della Sacca verso la estremità settentrionale del lago di Garda; l’altra dopo avere rimontato la medesima valle per le Giudicarie conduce al lago d’Idro; anco da Toblino a Trento, il terreno è munito di forti arnesi di guerra, che si collegano col quadrilatero e con le altre difese. E a uomini come state, sergente?

— Io non saprei; chi ne dice una e chi ne conta un’altra. Ella sa quanto me, come l’arrolamento dei volontari prima fosse aperto, poi chiuso, all’ultimo riaperto: senza aggravarmi la coscienza, mi è concesso sospettare che il governo barcamenasse nella speranza di non chiamarli mai, o, chiamati, rimandarli subito: basta, io credo che da principio, a farla grassa, saremo giunti a quindicimila; adesso ogni giorno ne arriva13; ma, o [p. 80 modifica] sigiiore, che gente! Chi in giacchetta, chi in falda, taluni persino in manica di camicia; chi con le scarpe, chi scalzo; quale usa il cappello alto, quale basso; la più parte in berretta, e queste di tante fogge, stoffa e colori da destare le convulsioni al capitano La Marmora; giovani imberbi, barbe bianche, maestri con gli scolari, capi di bottega co’ garzoni; e donne in copia travestite da uomo, o no: breve, immensa e pittoresca disformità, la quale, se mette tanto di cuore nel patriotta, lo fa diventare vizzo al soldato che sa chi abbiamo a combattere, ed in quali luoghi.14

— Ma intanto che viaggiano, il governo penserà a vestirli e ad armarli a dovere.

— E che dice ella mai, signor maggiore? E proprio una pietà. Le camicie rosse non bastano, e la stoffa n’è rada così, che sembra straccio servito a passare pomidoro; se vuole sincerarsene; consideri la mia, ch’è delle meglio; la si stinge subito pigliando mille colori, veruno dei quali si trova nell’arcobaleno: aggiungono una coperta leggera tanto da disgradarne le frittate fiorentine: solo a vederle viene il freddo addosso. Le munizioni tali, che se toccasse al nemico provvedercele, in verità di Dio, [p. 81 modifica] ce le manderebbe migliori; il vino, una maniera di minestra mora composta di acido tartarico, miele e campeggio: per me giuro che lo attingono a brocche a qualche pozzo infernale; di qui coliche, dissenterie, un rotolarsi bestemmiando per la terra e morire: fuori del campo gli avvelenatori si condannano in galera; in campo si pagano, anzi si fanno cavalieri. E bada, che le più volte muoiono di fame: ho visto io, con questi occhi veggenti, volontari, ai quali toccò nel corso di 28 ore mezza galletta ammuffita per uno, sicchè sovente fummo costretti a frugare sotto terra come bestie per trovare radica o patata, e con queste attutire la fame canina!!!15

— Eh! caro mio, se Messene piange, Sparta non ride: in questa parte anco l’esercito stanziale ne ha da contare delle belle: le armi sono buone?

— Qui poi esco dai gangheri; contro le carabine tirolesi, che ti spaccano il cranio con la palla alla distanza di 1800 metri, ci hanno mandato catenacci che non piglian fuoco dentro una fornace; sicchè, senza difesa, noi per un miglio e più siamo esposti alla morte16; di ciò porgono testimonianza molte rocce di cotesto alpi, ahimè! vermiglie di sangue italiano, e invendicato. Di promesse un sacco ma, [p. 82 modifica] le carabine di precisione le hanno di là da venire. Quanto a istruzione, gliene dirò una e basta: stavamo in procinto di azzuffarci, gli uffiziali avevano comandato di caricare le armi, quando io mi accorsi, dall’imbarazzo dimostrato da alcuni volontari, com’essi non sapessero da che parte cacciare la cartuccia dentro lo schioppo; e se io non glielo insegnava, mettevano prima la palla e poi la polvere.17

— O gli uffiziali che ci stanno a fare?

— Signor maggiore, rispose il sergente, rinnuovando il saluto militare della mano levata verso la berretta, voglia dispensarmi: ella m’insegna che i superiori hanno sempre ragione, e se torto, ragione al doppio: al soldato non è concesso neanco lodare, la si figuri se riprendere!

— Eh! via, smetti di fare il gesuita, come se non sapessi che voialtri siete più mormoratori e brontoloni degli ebrei menati da Mosè nel deserto: al solo guardarti in faccia conosco che ti struggi di voglia per dirne male. Su via, sbotra, o che hai paura ch’io ti faccia la spia?

— Allora per santa obbedienza le dirò, che, eccetto pochi, i quali meriterebbero davvero gli si accendessero i moccoli ai piedi, gli altri mi paiono, anzi sono, una mano d’intriganti, queruli e [p. 83 modifica] ciarlieri: l’uno astia l’altro: periti di milizia quanto io di turco: ignoranti dei luoghi, procedono a vanvera avanti e da parte: nelle aule politiche, granatieri; in campo, predicatori: generali di pentecoste, vo’ dire per virtù dello Spirito Santo, come gli apostoli. A vederli a cavallo tutti lustranti d’oro, gli è proprio un desio.....

— E ti peritavi a dire? Dio ci scampi, se ne avevi voglia!

— Ormai che ci sono mi vo’ sfogare: la si figuri: ci è tale, che per comparire mirabile con divisa indorata accattò a usura lire 500, per renderne in capo ad un mese mille; il che fa il ninnolo del 1400 per cento. Corse fama in quel tempo che la regia università degli usurai volesse collettarsi, per edificare una cappella e consacrarci la sua immagine, perchè nel calendario della sgozzatura costui può tenere le parti di pontefice massimo, e lo avrebbero fatto; ma trovandosi gli ebrei nel collegio in maggioranza, imbiancarono il partito col pretesto che la religione mosaica vieta il culto delle immagini. Però è giusto dire che a repentaglio ci stanno, e questo me li fa sopportare, altrimenti li avrei in uggia più della quaresima: vero è però che una volta parve supremo vanto fra noi menare le mani, e fu quando quei curiosi dei francesi sentenziarono che gl’italiani non si battono, ma oggi ch’essi hanno mostrato che si [p. 84 modifica] battono anche troppo, i giovani dovrebbero imparare, e se non lo imparano da per loro glielo insegneremo noi altri vecchi, come la minima delle virtù militari sia fare il proprio dovere in campo. Rispetto ai soldati gregari, o bassa forza, come la abbia a chiamare, colpa prima del governo, che niente lasciò intentato per iscreditarli, poi delle Commissioni, che, ravvisando negli arrolamenti un cauterio onde purgare la città, ci travasarono il meglio delle galere e dei penitenziari; per ultimo valga il vero, del Generale...

— Chi Generale?

— Quando si dice generale, o di chi altri può intendersi se non del Garibaldi?..

— E ti attenti accusarlo?

— E perchè no? I credenti stimano solo Dio perfetto, i miscredenti nemmanco lui. Garibaldi poi vuol essere benvoluto non già adorato; difatti se gli si presenta un facinoroso in sembianza compunta e gli dichiara sentirsi infastidito della infame vita tratta fin lì e volersi fare ammazzare per la patria, il Garibaldi gli metterà una mano sulla spalla con voce soavissima gli dirà: «Sì, caro, fatti ammazzare alla prima occasione, e procura con la bella morte espiare la tua scellerata vita; così adoperando ci è caso che tu ritorni in grazia di Dio e della patria!» Io ho veduto per esperienza simili tratti riuscire, allorchè ci troviamo [p. 85 modifica] in procinto di battaglia, perchè la passione che mosse il facinoroso si mantiene rovente, anzi cresce fra lo strepito delle armi e il furore dei cannoni, onde, prima ch’egli si sboglientisca, casca morto: nel parapiglia i buoni soldati non si accorgono chi sia loro caduto allato: morì per la patria, e qual sarà il tristo che gli laverà la faccia intrisa di sangue per ravvisare un furfante? Ma incastrarli permanentemente nello esercito, gli è un’altra faccenda; scaccia la mala natura, e ti ritorna più impronta che la mosca sul naso; le costoro riotte e rapine e male parole e peggiori fatti ti manderanno a soqquadro ogni cosa: più volte vedemmo venire i gendarmi fra noi e levarne una funata, e con quanta umiliazione dei buoni e discredito del corpo, ella, signor maggiore, immagini. Quanto all’artiglieria, a levarla su in cielo, in coscienza, non sarebbe metterla in alto quanto si merita...

— E’ ci è di già, Filippo, e’ ci è, e te ne dovresti essere accorto! Ormai la costellazione del cannone governa il mondo...

— Insomma, Curio, più buona gente dei nostri artiglieri io non ho mai visto al mondo. Il maggiore Dogliotti, solo, vale un Perù.

— Allora non può essere a meno che alla fine della campagna non lo eleggano capitano...

— Che diavolo spropositi? Volevi dire colonnello...

— No, Filippo, non erro; poichè quanto vi ha [p. 86 modifica] di codardo, d’ignorante e di birbone, è spinto innanzi; non resta per mercede ai buoni che mandarli indietro....

— Lasciamo i morsi ai cani, interruppe il maggiore. Ditemi, sergente, dalle mosse del Generale si argomenta dov’egli intenda venire?

— Non si argomenta, signor maggiore, si legge espresso, perchè nelle giravolte di coteste giogaie non ci è da sciegliere; egli può bene tenere segreto il modo di penetrarci, ma, quanto alla strada, essa fu tracciata dalla natura: certo più facile sarebbe stato per le valli del Non e del Sol investire Trento, ma il capitano La Marmora non volle che il Garibaldi sforzasse i passi dello Stelvio e del Tonale; però non avanza altro che il Caffaro.

Ora non ci è mulattiere, il quale non sappia che tenendo questo sentiero si arriva al lago d’Idro, donde per le Giudicarle bisogna andare al ponte del Chiese: di qui si sale sul Bendo, fra Agrone e Tiene, per discendere alla valle del Sacca; da questa poi, per sepezzano e Scenico, a Trento. Come già le ho detto, furono spedite due colonne al Tonale ed allo Stelvio per tenere in rispetto i tedeschi, onde non irrompano un’altra volta. Tuttavia, ecco, maggiore, glielo confesso col cuore in mano, belle cose noi non facciamo: la si figuri un gruppo di nodi che ci bisogni sciogliere uno per volta. I tirolesi con la palla delle loro carabine spaccano una [p. 87 modifica] palanca a mille e più metri di distanza, e gli austriaci, serve assai, al fuoco ci stanno al pari di ogni altro soldato del mondo.

— È vero; ne buscano in buona fede: ma i montanari, come ci si mostrano? Furono un dì amici.

— Dia retta a me, maggiore: che la genta culta un giorno ci si professasse amica, può darsi, ma ora, ecco, non mi pare. La bandiera italiana, col vescicante savoiardo in mezzo (come cotesti sboccati sbottonano senza ombra di reverenza) non attecchisce; la età appaltona non comprende la grande anima del Garibaldi, il quale quanto più bistrattato più si ostina, amatore malgradito ed importuno, ad affaticarsi per la monarchia; di fatto ciò non può procedere che da somma abiezione o da somma generosità, e voi sapete che ai tempi nostri gli eroi sarebbero centauri. I montanari poi io giudico addirittura contrari, e ciò perchè, quando l’anima umana piglia la ruggine della servitù, ci vuole il diavolo a ripulirla, e dobbiamo anche ringraziare i preti, i quali vanno predicando noi essere nemici mortali della religione, ed amici parimente mortali delle galline..... e delle donne.....

— E se non sarà lì, sarà all’uscio accanto; ma veniamo al grano, sergente, fin qui ne avete date, o ne avete buscate?

— Date, per Dio, date, e ne daremo sempre; ma adagio a gonfiare i palloni: per me, dopo la taccia [p. 88 modifica] di vile, quella che più rincresce è di millantatore: la vanteria è il sole della Francia, lasciamo che a cotesta fascina si scaldino i francesi. Ascolti: dopo essersi fatto aspettare un pezzo, il raggio della luce dall’alto dei colli si versò giù per le valli, e la faccia del Garibaldi splendeva come quella del sole. Inoltriamo i nostri passi sulla terra italiana, egli disse, e senz’altre parole spinse una colonna comandata dal maggiore Castellini al ponte del Caffaro, allora confine fra la Lombardia ed il Tirolo: bello di speranza e di generosità, egli bandiva ai volontari la virtù dello esercito, la prodezza del re; la vittoria già conquistata nelle contrade venete; la necessità di correre traverso le armi austriache, per giungere in tempo a stringere la mano dei fratelli sopra i campi gloriosi di battaglia18, e precisamente in quel punto l’austriaco ricacciava, voi lo sapete, il nostro esercito di qua dal Mincio, e il re, prudentissimo guerriero, si serbava a migliori fortune affidato alle groppe del suo cavallo.

Non così il Garibaldi; e quantunque gli austriaci ci bersagliassero quasi a man salva da luoghi da [p. 89 modifica] lunga pezza ammanniti, bene poterono renderci sanguinosa la vittoria, non impedircela: sgarrammo la puntaglia ed inseguimmo fino a Storo il nemico, con la baionetta nelle reni. Qui accadde un fatto degnissimo di poema e di storia, e fu, che certo capitano austriaco sfidò a singolare tenzone il tenente Cella friulano: entrambi valorosi davvero, e l’uno competente all’altro; però o al maggior perizia, o piuttosto la fortuna sovvenisse il tenente, fatto sta che il capitano, rilevate diciassette ferite, si ebbe a rendere: finche durò il duello cessammo di tirare da una parte e dall’altra; e il vincitore con parole blande consolò il vinto, che a questo modo deve costumare chiunque abbia voglia che la vittoria gli frutti lode e non biasimo. Con tali presagi e con tali successi il capo ci fumava come un camino, e il terreno ci scottava sotto i piedi impazienti di sosta: stavamo per metterci in marcia su Storo, valicando il Chiese, quando il capitano La Marmora ci arrandellò tra capo e collo il telegramma: «Disastro irreparabile! (Coprite Brescia.» Ci parve che ci tagliassero i garretti: mogi mogi, scorati rifacemmo i passi; parevamo tanti fratelli della Misericordia che tornassero da associare un morto. Fermi a Lonato, a contemplare gli austriaci imperversanti senza sospetto per la valle del Chiese, noi ci mordevamo le mani; il Garibaldi pareva in vista una statua di marmo; chi gli era vicino, dal [p. 90 modifica] continuo torcere della bocca, che peggio non poteva fare se avesse mangiato fette di limone, si chiariva com’egli ci patisse più di noi; all’ultimo non potemmo più stare al canapo, e il Generale di punto in bianco ordinò andassimo a ripigliare le posizioni abbandonate, cacciassimo via il nemico da Montesuello. Gli austriaci ci attesero a pie fermo, ed a ragione, che chi sta bene non si ha da movere, ma, appena ci scorsero alla lontana, presero a bersagliarci dalle trincee di Sant’Antonio. Che cosa potevamo opporre noi? I migliori alleati dei nostri nemici erano i nostri schioppi; oltre alla meschina portata, nello spararli correvamo il rischio di ammazzarci da noi, così li provavamo logori ed arrugginiti. Per maggiore disdetta ecco annuvolarsi il cielo, e fra lampi e tuoni rovesciare giù acqua a catinelle. Dunque, mano alla baionetta e addosso. Pareva che la morte bacchiasse le noci; ma invece di noci erano giovani prestanti e belli ed italiani tutti: ad ogni passo giù un morto, od un ferito; ma dai dai, sopra il nemico ci siamo, e la superiorità delle armi ora non gli giova; primo moto di lui, la fuga, indi a poco, infervorato dagli ufficiali, volta faccia e ripiglia le offese: cozzavamo peggio dei montoni, un po’ indietreggiando essi, un po’ noi; alfine, noi altri chiusi e stretti in un gomitolo ci avventammo, e lo incalzammo a pie del Montesuello. Molto sangue grondava la nostra persona, ma più [p. 91 modifica] sudore; credevamo vinto ogni intoppo, e ci ingannammo; però che là, dove il monte svoltando a levante sembra che chiuda ogni adito al passeggiero, ci attendessero gli austriaci riparati da formidabili ridotti; se gl’istrumenti erano pronti a sonare, e noi non meno vogliosi di ballare. Qui dicemmo: aut aut, o l’audacia e la celerità ci salvano, o nulla ci salva; si avventa un battaglione come un maroso; e come un maroso respinto dalla scogliera si ripiega lacero e fremente; ne subentra un altro, un altro poi, sempre con valore ed infortunio pari; si sdrucciolava nel sangue; l’anelito fumoso dei petti lacerati impregnava l’aria, sicchè respiravamo una nebbia sanguigna. 11 Garibaldi, tutto avvampato nel sembiante, si tuffa dentro la mischia, più che da capitano, da soldato: di repente balena e sparisce, che una palla lo ha ferito in una coscia. Un urlo spaventoso si mescolò al ruggito del tuono, allo strepito delle armi da fuoco, e tutto vinse; ma il Garibaldi, tocca appena la terra, si leva, e fasciato alla meglio, si adagia sopra una barella e sta nel mezzo della battaglia. Il Garibaldi non parlava, guardava i volontari, e basta; anzi ce n’era di troppo, però che lo sguardo del Garibaldi tolga all’anima ogni viltà, come l’acqua lava il corpo da ogni sozzura: finchè egli ti guarda, la codardia non si attenta accostarsi a te... finchè il suo sguardo dura, tutti si sentono eroi. Ma egli non poteva [p. 92 modifica] trovarsi da per tutto; e i volontari leoni sempre, pure, lo ripeto con dolore, leoni travagliati dalla febbre. Ahimè! la sconfitta di Custoza, la fame, il freddo, i giornalieri disagi, le armi infami, l’odio e lo spregio in cui sembra loro essere tenuti, e sono, ha messo nelle anime loro tale uno sgomento, che li fa desiderare la morte: non importa la vittoria, basta finire la vita: non volsero le spalle.... diedero indietro disperati.... ormai credevano la battaglia perduta. Di poca fede i giovani soldati; per noi vecchi, non è vero, maggiore? finche ci è fiato ci è speranza. Ed, io vedendo allontanarsi la barella dove giaceva il Garibaldi, dissi fra me: gatta ci cova; ed è chiaro: il Garibaldi non uscì mai dal campo se prima non avessero vinto i suoi: dunque aspettiamo a vederne delle nuove, e mi era apposto: di un tratto, dalle alture di Santo Antonio, quattro cannoni pigliano a seminare la strage nella colonna degli austriaci, la quale non si prova nemmanco a ordinarsi sopra la strada, e spulezza via più che di corsa. Gli austriaci fuggendo speravano ridursi daccapo ai fidati ripari di Montesuello, ma venne loro interdetto, che le compagnie del maggior Mosto, sopraggiunte alla Berga, li chiamano a morte; onde essi continuano la fuga lasciandoci in potestà nostra le posizioni di Montesuello, del Ponte di Caffaro e di Bagolino. Ed ecco come, non disperando mai, si finisce sempre col vincere; sovente accade che in [p. 93 modifica] mezzo al fragore delle armi, allo affanno della zuffa, alia polvere e al famo, la vittoria cammini a tastoni incerta dove si abbia a posare; tocca al buon capitano ritrovare le orme, agguantarla e incatenarla come schiava fuggitiva al carro del suo trionfo. Di altro non so, perchè mi sono partito dal campo.

— Come partito? Sul più bello si parte?

E il sergente, con mi suo ghigno amaro:

— Non dubiti, maggiore, che io sono di quelli che rimangono addietro a chiudere l’uscio; qui venni, per comando espresso del Generale, a curare una mia creatura di sedici anni, che....

— Che mai?

— Che, nel seguitarmi alla guerra, cadde inferma. Ora ritorno.

— E tu. Curio, a che stai?

— Io non istò per niente, me ne vo con lui a prendere il posto della sua figliuola.

— Dunque non perdete tempo, andatevene.... ogni minuto perduto ò un delitto, un tradimento.... ma no, aspettate.... voglio venire anch’io.

Immemore dello stato in cui si trovava, il buon maggiore appuntella il braccio ferito per ispingersi fuori del letto: nell’impeto del moto manda in pezzi lo apparecchio e sfascia la piaga, con suo inestimabile spasimo: il sangue scorre a fiume dalle lacere vene, lo invade un freddo sudore, la immagine delle cose circostanti gli si perde dentro una [p. 94 modifica] caligine sempre più densa, sviene; ma, prima di svenirsi, tanto potè raccogliere di spirito, che con voce abbastanza sonora esclamò: — Viva Garibaldi!

Quasi scintilla elettrica questa voce penetrò, circolò in un attimo nelle ossa di quanti la udirono ed in ogni angolo più recondito dello spedale: ogni atto, ogni affetto rimasero sospesi; i servigiali, accorrenti con farmachi od altro, arrestaronsi; i cerusici si fermarono da medicare le piaghe; una madre stette a mezzo curva sul figliuolo che si era chinata a baciare; un’amante cessò asciugare il sudore allo amico per angoscia convulso; gli infermi stessi, dimenticato un momento il dolore, come se si fossero dati la intesa, con una voce sola replicarono: «Viva Garibaldi!»

Gran cosa è questa: lo spirito umano esaltato dal divino entusiasmo domina lo stimolo del bisogno e supera perfino le trafitte del dolore. Come avviene ciò? In qual modo una parte della materia acquista virtù di prevalere cotanto sopra l’altra parte? La scienza irride come inane il vostro postulato e si vanta risolverlo in due palate.19 Per verità io [p. 95 modifica] meditai molti dei moderni libri sulla materia, ma non sono giunto a chiarirmi. Se io avessi a dare un consiglio alla scienza, le direi: — Cerca di molto, e afferma poco e tardi; cerca, poichè io non ti possa trattenere, ed anco potendo non te lo impedirei; ma cerca tremando di scoprire che tutta terra siamo: imperciocchè in quel giorno (se fia mai che venga) sarà spenta ogni poesia dell’anima: invidieremo i bruti, che camminando col muso chino a terra non sono costretti a funestarsi la vista con lo immenso inganno del cielo stellato.... le rane dal padule canteranno le glorie dell’uomo, che, uscito dal fango, tornerà intero alla mota materna. Oh! di quanto senno fece prova lo antico sapiente, allorchè disse: Se tutta la verità mi stesse chiusa nel pugno, aborrirei aprirlo per la paura di fare un tristo dono all’umanità!»

E lecito rinnovare agli scienziati

Che l’anima col corpo morta fanno,


la domanda mossa da Betto Brunelleschi a Guido Cavalcanti, aggirantesi pei sepolcreti: «Quando sarete giunti a trovare che Dio non è, qual profitto ne caverete voi?» Certo confesso infiniti i mali dell’abusata idea di Dio, ma chi può dirmi quelli che usciranno dalla sua negazione? Basta, io mi consolo pensando avere veduto passare più. sistemi filosofici sopra questa terra, che nuvoli in cielo.

Poichè il maggiore fu daccapo medicato. Curio [p. 96 modifica] e Filippo manifestarono il desiderio di attendere tanto ch’ei rinvenisse, se non che l’infermiere ne li distolse mettendo loro sottocchio che, nello stato di debolezza in cui si trovava, era mestiere risparmiargli ogni subita e gagliarda commozione, la quale non si sarebbe potuto evitare, quando il maggiore, tornato in sè, se li fosse veduti dinanzi. Curio pertanto e Filippo se ne andarono non senza molto raccomandarsi al cerusico, che lo salutasse per loro e confortasse con ogni maniera di affettuose parole.

A casa della baronessa ebbero cibo e riposo. Filippo non voleva intendere ragione, e comecchè affranto si apparecchiava a partire subito. Le persuasioni altrui, e più le gambe proprie, misero il veto all’avventato proposito. Sorsero, appena un po’ di chiarore apparve in oriente; la baronessa già levata li aspettava e li condusse in camera di Eufrosina, la quale pure seduta sul letto era ansiosa di vederli: appena le furono comparsi davanti stese le braccia, e con la manca strinse la mano a Curio, con la destra al padre, e, questo guardando, con ineffabile affetto gli disse:

— Babbo, ti raccomando il signor Curio.

Poi, rivoltasi a Curio, aggiunse: [p. 97 modifica]

— E a voi, signor Curio, raccomando il padre mio; da lui in fuori io non ho altri al mondo....

Non risposero, perchè piangevano; ella no, quantunque le lagrime le stessero in pelle in pelle per traboccarle dagli occhi. Filippo le baciò la mano e il volto. Curio si tenne facoltato a baciarle la mano soltanto; però a lui solo, mentre passava la soglia, riuscì voltarsi indietro a dirle:

— A rivederci, Eufrosina.

— Sì, a rivederci, e Dio vi accompagni.

Il povero Filippo non aveva ancora ricuperato la favella; strinse nelle sue le mani della baronessa e guardò in su; ed ella:

— Ho capito.... Filippo, sono madre anch’io.. . ed ho provato il dolore di perdere un figliuolo. Anzi, sentite un po’: io temo forte che la povera Eufrosina non reggerebbe alla incertezza del vostro stato, quindi vi proporrei imitare lo esempio di quella santissima donna che fu la contessa Teresa Confalonieri, la quale, sentendosi morire, onde la nuova della sua morte non levasse gli ultimi spiriti al marito Federigo, prigione nello Spielberg, scrisse lettere con la data di giorni, mesi ed anni avvenire, affinchè, dopo defunta, via via gliele consegnassero, ed egli, credendola viva, non disperasse. Pietoso inganno! Voi poi vivrete di certo, me lo porge il cuore, che non mi ha tradito mai; pure cento casi possono avvenire, i quali, o vi [p. 98 modifica] toglieranno la comodità di scrivere, o la occasione per farmi recapitare le lettere, e allora mi varrò di quelle che mi saranno trasmesse, secondochè vi ho accennato. Intanto fatevi animo, e state sicuro che la vostra figliuola sarà da me tenuta come persona caramente diletta.



Note

  1. Corpi erranti che entrando nella nostra atmosfera diventano luminosi. Humboldt afferma essere periodici; piovono dal cielo tra il 12 al 14 novembre e verso il 10 agosto. Olmested e Palmer, americani, in una notte sola, nello spazio di nove ore ne videro cadere 240,000. Questo fenomeno riceve dai vari popoli diversi nomi; i tedeschi lo chiamano smoccolatura di stelle, gli svedesi, caduta di stelle, gli inglesi scoppio di stelle, gli indiani dell’Oriente sconciamente piscio di stelle, gli italiani lacrime di San Lorenzo. Il mito lituano è amabile: quando un fanciullo nasce, Werpeia fila per lui il filo del destino: ogni filo termina con una stella; al punto di morte il filo si rompe e la stella casca.
  2. Upas pohon Albero che stilla presso i Malesi terribilissimo veleno; e non pertanto ne cavano altri più mortifero dalla Hana tietek; una tigre punta, trema, irrigidisce e in meno di un minuto muore.
  3. La legge Servilia.
  4. Plutarco, in Mario.
  5. V. Antologia del 1827, art. del Tommaseo.
  6. A certo francese, che si vantava artista drammatico, fu domandato quali parti facesse, al che rispose superbamente: je fais le flot, vale a dire l’arte di quelli che, mettendosi sotto la tela grigia, coll’alzare e abbassare del groppone danno immagine agli spettatori delle onde del mare in burrasca.
  7. Popolo certamente vario, instabile, leggero, mostruoso e vano, e in tutte le più pazze forme cangiabile a- pari delle nuvole, dai venti in (qua ed in là trabalzate. Salvini. Dis. 2, 130.
  8. Chi vuol veder quantunque può natura
    Nel fabbricare un uom di carta pesta,
    Che par mover le mani e i piedi a sêsta
    A guisa d’ingegnosa architettura.
    Tassoni, Son. su Filippo da Narni.

  9. Quanto fu la guerra bandita immortale per castronerie di tattica e di strategia, altrettanto fu memorabile lo scritto del Ricasoli per ispropositi di lingua e di senso comune: di vero, tre volte ci occorrono le frasi al seguito delle dimissioni date... in seguito della partenza... al seguito dell’ingiuste minacce; — più oltre: l’Austria temette... il Governo del Re credette... credette, che a ciò gli desse diritto: il più bello all’ult’ mo: «per queste aspirazioni nazionali troviamo soldati pronti a spargere sangue e fatiche in tutte le parti della Camera!» Quindi nulla manca a farlo detestabile: turpitudine di locuzioni stranieie, barbarie di dettato, errata assimilazione di sangue e di fatiche da spargersi in tutte le parti della Camera! Nè afiche un montanino di Garfagnana si attenterebbe menare tanta strage della lingua e del buon senso, Erat in fatis, che la monarchia in occasione tanto solenne si commettesse a due sciagurati come Ricasoli e La Marmora. Quali l’ingegno, le opere, la fama di costoro? — Si predicavano avversi al popolo, avversi ai volontari, e tanto bastò. Così in grazia del partito moderato e dei suoi uomini, noi abbiamo perduto tutto, fino la reputazione dello idioma, che sola ci rimaneva conservata in mezzo alla secolare molteplice tirannide. La Camera applaudiva: un giorno ella sarà giudicata severamente senza circostanze attenuanti, perchè gli applausi avvennero in giugno, mese di già copioso di proietti vegetali. Per questa guisa il governo d’Italia, se fu argomento di molti sospiri, infinito si attirò eziandio il riso della gente stupefatta.
  10. Proprio così fu detto, da un soldato ferito, nell’Ospedale di Brescia.
  11. Il generale Sirtori, con lettera dell’8 febbraio 1867, afferma essersi accorto subito della deviazione della avanguardia, ed averci provveduto immediatamenle: dichiara avere proceduto con ogni più squisita precauzione di guerra: esclude tutta sorpresa: fu lasciato solo; se lo avessero soccorso, anco verso le ore 4 pom., avrebbe vinto, egli dice; peccato che veruno ci creda.
  12. Guerra del 1866, p 139.
  13. Il Rustow afferma fossero 6000 i garibaldini al rompere della guerra; a mezzo luglio confessa che gli mandarono rinforzo, e allora egli ebbe 10 reggimenti di linea, 2 battaglioni di bersaglieri, ovvero 5 brigate, 1 squadrone di guide a cavallo; alcune batterie di artiglieria gli somministrò l’esercito regolare. In tutto 72,000. Altri dice che furono 40,000.
  14. Umiltà. I volontari del 1866, T. 1.
  15. Memorie dell’Anonimo; Umiltà loc. cit.
  16. Memorie dell’Anonimo e tutti gli Autori.
  17. Rustow. Cadolini, Memorie dello Anonimo, ecc.
  18. «Il prode esercito ha corrisposto degnamente alla fiducia del re .. esso sta cacciando davanti a sè il nostro secolare nemico, e sul suolo rigenerato della Venezia già si stringono le destre, il glorioso milite della libertà ed il liberato fratello.» Ordine del giorno del generale Garibaldi (21 giugno 1866).
  19. Palata, s’intende il tratto che il notatore scorre col movere le due braccia nell’acqua. La Crusca definisce la palata: «il tuffare di tutti i remi della nave a un tempo nell’acqua» ed è errore! anco nel moto delle barche, la palata è il tratto che la barca scorre in mare per lo impulso dei remi. Nel linguaggio pittorico del popolo si dice: in due palate lo sbrigo, come sarebbe: facilmente e presto.