Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia/Appendice al capitolo IV

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APPENDICE AL CAPITOLO IV




Intorno al significato di due luoghi della Storia dei Longobardi,
di Paolo Diacono.



Il primo di questi controversissimi luoghi è relativo all’interregno, durante il quale i Longobardi furono governati dai duchi delle diverse città conquistate, dopo la morte di Clefo, secondo re in Italia di quella nazione. His diebus, dice lo storico, multi nobilium romanorum ob cupiditatem interfecti sunt; reliqui vero per hostes divisi, ut tertiam partem suarum frugum Langobardis persolverent, tributarii efficiuntur 1.

L’altro si riferisce al momento in cui i duchi ristabilirono il poter regio nella persona d’Autari figlio di Clefo. Qui, dopo aver detto che in quell’occasione essi cedettero al novo re la metà delle loro sostanze, lo storico aggiunge: Populi tamen aggravati per Langobardos hospites partiuntur 2.

In mezzo alla diversità dell’opinioni sul significato speciale de’ due luoghi è una cosa ammessa concordemente, che ci sia tra di essi una stretta relazione: e ciò che lo fa credere è la somiglianza, che infatti è singolare, tra le due espressioni, per hostes divisi, e per Langobardos hospites partiuntur. E siccome la prima accenna indubitabilmente un atto costitutivo, una legge stabile, imposta dai conquistatori a una parte de’ conquistati, così si crede che la seconda deva significare o una modificazione, o una nova applicazione della legge medesima. L’aver poi l’autore usata questa volta la parola populi, ha fatto parere che qui si tratti d’un fatto più generale, e che in questa frase sia contenuta insieme e nascosta una notizia importante intorno alla condizione degl’Italiani sotto il dominio longobardico.

A noi è parso di vedere che quella somiglianza non sia altro che di parole, e meramente fortuita, e che in questo luogo lo storico abbia voluto riferire un fatto interamente novo, e di tutt’altro genere, senza relazione, nè analogia col primo: cioè, non una legge stabile, ma un provvedimento occasionale, e relativo, non alla popolazione italiana in generale, ma a una quantità accidentale e temporaria d’Italiani. Quindi l’interpretazione che arrischieremo di quella frase, non che dar lume alla vasta e interessante questione della condizione generale degl’Italiani sotto i Longobardi, non potrà, riguardo ad essa, avere altro effetto (se n’avrà alcuno), che di sottrarle un documento, e quello nel quale, più che in qualunque altro de’ pochi che ci rimangono, si crede di poter trovarne la chiave. Era nostro dovere d’avvertir di ciò a tempo il lettore.

Riguardo poi al primo luogo, non possiamo nemmeno chiamar nostra l’interpretazione che siamo per esporne, giacchè non è nova che in parte; e, differendo in un punto da tutto quelle che sono state preposte, s’accorda in altri con più d’una, e in uno essenzialissimo con quella che è stata così dottamente sostenuta dal signor Troya nel Discorso della [p. 166 modifica]condizione de’ Romani vinti da’ Longobardi, frammento d’un gran lavoro, ma frammento che è da sè un lavoro importante, e basterebbe ad onorare altamente i risorti studi storici italiani. Nondimeno, siccome l’intento di dimostrare la relazione supposta tra i due luoghi, ha fatto che l’esame di essi non sia mai stato scompagnato, così l’intento contrario ci obbliga in certa maniera a seguire la medesima strada. Del resto quel poco di novo che abbiamo a proporre su questo luogo, potrà forse servire a metter d’accordo varie asserzioni dello storico, le quali, nello stato presente della questione, possono parere inconciliabili. E s’intende che noi prenderemo a man salva dagli autori di quelle diverse interpretazioni gli argomenti che possono fare per noi.

I.

È cosa, non dirò qui ammessa generalmente, ma generalmente sottintesa, che le parole: reliqui vero per hostes (o per hospites 3) divisi, ut tertiam partem suarum frugurn Langobardis persolverent, tributarii efficiuntur, si riferiscano a un solo fatto, a un solo momento storico; e che le due espressioni, per hostes divisi, e tributarii efficiuntur non siano altro che due maniere di qualificarlo. Ed è sulla natura del fatto supposto unico, sul valore supposto uguale delle due espressioni, che c’è disparere, volendo alcuni che tanto l’una quanto l’altra non significhino nulla più che l’assoggettamento a un’imposizione; altri che importino anche un assoggettamento delle persone, uno stato di servitù. Noi crediamo, e questo è il punto in cui osiamo dissentire da tutti, che in quel luogo siano espressi due fatti di diversi tempi, e di diversissimo carattere; che nelle due espressioni si deva vedere, non un pleonasmo, ma un’antitesi; che l’autore parli in effetto e d’imposizione e di servitù, ma riferendosi a due diversi tempi, e con l’intento d’esprimere appunto la sostituzione dell’una all’altra; che in somma il senso di tutto il luogo sia questo: In quel tempo, cioè sotto l’atroce e sfrenata dominazione dei duchi, molti nobili romani furono messi a morte; il rimanente di quelli che da principio erano stati semplicemente assoggettati a pagare il terzo delle loro raccolte, e a questo fine divisi per hostes, furono ridotti alla condizione servile di tributarii.

E prima di tutto, ciò che ce lo fa credere è la differenza delle forme grammaticali adoprate qui dallo scrittore. Ut tertiam partem suarum frugum persolverent, e tributarii efficiuntur indicano apertamente due diversi tempi, e due diversi fatti: uno anteriore, del quale lo scrittore fa semplicemente menzione 4; l’altro, che riferisce espressamente, come avvenuto nel momento in cui si trova col racconto. E se qualche amanuense copiando, come facevano così spesso, delle glosse insieme col testo, ce l’avesso trasmesso così: reliqui vero antea per hostes divisi, ut tertiam partem suarum frugum Langobardis persolverent, tributarii efficiuntur, non credo che al critico più sottile sarebbe nato alcun sospetto d’interpolazione. Paolo, dottissimo in latinità per un uomo dell’ottavo [p. 167 modifica]secolo 5, scriveva, non con eleganza, di certo, ma in grammatica; e se avesse voluto parlare d’un fatto solo, non si vede perchè, avendo messo prima persolverent, non avrebbe messo poi per corrispondente effecti sunt. Per aver ragione di supporre una tale sconcordanza, bisognerebbe che o l’altre espressioni del testo, o la verosimiglianza storica obbligassero a credere che si tratta d’un solo e medesimo fatto. Ma, se non c’inganniamo, quelle s’adattano benissimo all’interpretazione contraria; questa la vuole espressamente.

E in quanto alle prime, abbiamo detto solamente che s’adattano, perchè siamo ben lontani dal pretendere che tra le locuzioni hospites e tributarii ci fosse, nel latino del medio evo, un’opposizione diretta e costante; e l’argomento del resto non richiede tanto. Basta che in qualche caso, e caso a proposito, la prima servisse a significare una condizione esente da servitù, e l’altra una condizione servile; dimanierachè non deva parer punto strano che lo storico longobardico le abbia adoprate a distinguere appunto le due condizioni.

Nell’accennato Discorso della condizione dei Romani vinti da’ Longobardi, l’illustre signor Troya, supponendo con gli altri, che lo storico parli d’un fatto solo, vuole che le due locuzioni importino ugualmente servitù. E allega o accenna esempi dell’una e dell’altra; ma quelli che riguardano la locuzione hospites 6 non ci pare che in questo caso abbiano forza di prove. Che tra i vari significati di questa locuzione e di vari suoi derivati, si trovi anche questo, non se ne può dubitare; ma qui si tratta del significato che potesse avere quando fosse adoprata a indicare una relazione tra il Romano e il Barbaro conquistatore. Ora, dell’Hospes usato in questo senso, noi non troviamo che un solo esempio: quello de’ Burgundi, nelle leggi de’ quali è chiamato con quel nome e il Barbaro a cui ora stata assegnata in proprietà una parte delle terre del Romano, e il Romano medesimo. Esempio che non solo non favorisce l’interpretazione proposta, ma la contradice apertamente; giacchè, come è noto, il Romano, sotto la dominazione de’ Burgundi aveva conservata la libertà intera, e il pieno possesso delle terre lasciategli. Che se il non aver noi trovato di più dipendesse dal non aver saputo cercar bene; e ci si potesse far vedere che quel vocabolo fu usato in un tal senso o dagli Eruli, o dagli Ostrogoti, o da’ Visigoti, o da altri di simili generazioni, potremmo ancora dire con l’onorevole Rezzonico, che «non inchiude per nulla il concetto dello spoglio della proprietà, e della libertà personale 7;» poichè ciò non avvenne in alcuno di quei casi.

Quest’argomento, è vero, si fonda sulla supposizione che o la vera lezione sia: per hospites, o che il per hostes sia, riguardo alla significazione, tutt’uno. Ma se anche si vuole che una tale supposizione non abbia un fondamento bastante in quella semplice analogia; e che la formola per hostes divisi possa avere avuto un significato diverso (più facile, del resto, da immaginarsi che da trovarsi), l’altre espressioni che [p. 168 modifica]l’accompagnano, escludono ogni idea di servitù. La frase: ut tertiam partem suarum frugum persolverent quanto è propria a significare un’imposizione pagata da un possidente, altrettanto sarebbe strana per indicare il fitto d’un lavoratore e tanto più d’un lavoratore servo. «I frutti adunque,» come osservò giustamente e acutamente il signor professore Capei, «erano suoi (del romano), nè suoi avrebbono potuto dirsi se anco i fondi frugiferi (che l’accessorio seguitò mai sempre il principale) non fossero rimasti in dominio di lui 8.» Infatti, in qual maniera quel suarum frugum sarebbe potuto convenire ai Romani diventati lavoratori servili? Come ad antichi padroni? No, di certo; giacchè, secondo un’altra ugualmente giusta e acuta osservazione, «i nobili romani non avrebbero avuto a pagare il terzo di loro entrate, ma solo il terzo di quella parte, di necessità piccolissima, delle ampie loro antiche possessioni, della quale fossero coloni 9.» Come a novi coloni? Neppure; poichè il colono non dava del suo al padrone; era anzi questo, che lasciava a lui una parte de’ frutti, perchè avesse da vivere.

Che poi la voce tributarii significasse, non già esclusivamente, ma in molti casi, una condizione servile, bastano per dimostrarlo gli esempi addotti dal Ducange, il quale definisce quella voce così: Coloni liberi (val a dire che non erano nell’ultimo grado di servitù incondizionata ), obnoxiae licet conditionis, ut qui ad tributa et serviles operas tenerentur. E rimettendoci a questi esempi, e gli altri addotti dal signor Troya, ne prenderemo tra questi uno solo, che fa più particolarmente al caso, poichè è ricavato dalle leggi longobardiche. «Rotari,» dice l’illustre storico «usò in significato servile questa voce di tributario, nel favellar della casa ove abitavano i servi 10.» Infatti quella legge prescrive che il creditore il quale voglia far pegnorare una casa tributaria, deva star mallevadore, per tanti giorni, del servo, della serva e del bestiame che ci si trovino: passato il qual tempo senza che il debitore abbia pagato, ogni morte o guasto o fuga, di servi o di bestie, che possa avvenire, sia a danno di questo 11. Qui pare evidente che l’aggiunto tributaria sia relativo alla qualità degli abitanti.

Con questo crediamo abbastanza dimostrato che, se le forme grammaticali richiedono che nel luogo in questione s’intendano accennati due fatti diversi, la forza de’ vocaboli lo permette per lo meno.

Ma più ancora ci pare che lo richieda la verosimiglianza intrinseca della cosa. Le circostanze espressamente riferite dallo storico sono di troppo diversa, anzi opposta natura, perchè si possa riguardarle come appartenenti a un solo e medesimo fatto. E o si voglia che questo fatto [p. 169 modifica]si riducesse a un semplice tributo reale, o si voglia che al tributo andasse unita la servitù delle persone, riesce ugualmente un fatto inesplicabile, contradittorio.

Nella prima ipotesi, quale disproporzione tra i due effetti che si vogliono contemporanei, e prodotti da una stessa cagione! Molti scannati per impossessarsi de’ loro beni, il resto assoggettati semplicemente a un’imposizione; e imposizione non punto esorbitante appetto ai due terzi delle terre portati via altrove da altri Barbari molto più miti: un macello e un catasto! Inverosimiglianza notata e fatta vivamente risaltare dal signor Troya. «A questo dunque solamente,» dice, «riuscite sarebbero le tante industrie sanguinose, la tanta strage, i tanti esiglj comandati da Clefo e da’ Duchi a sangue freddo e solo per cupidigia come scriveva il Diacono? E sto a vedere se il Muratori non creda, che le terre di quegli uccisi e di quegli esigliati o de’ fuggiti non fossero state concedute agli eredi legittimi di tutti costoro da’ Longobardi, mercè il Canone d’un terzo de’ frutti! O che ciascun Longobardo si dovesse rivolgere a’ tribunali ordinarj se al Romano, preteso debitore, non piacesse pagare quel Canone! o frodarlo nel peso e nella qualità! 12» Ironia che sta bene a tanta ragione.

Nell’altra ipotesi, non è forse meno improbabile, come è, credo, fuori d’ogni analogia, la disproporzione tra la quantità del tributo, e la condizione servile. Gli Eruli, gli Ostrogoti, i Visigoti e i Burgundi, lasciando al Romano intatta la libertà, s’erano appropriati, chi il terzo, chi i due terzi delle terre; e i Longobardi, riducendolo in servitù, gli avrebbero concesse le due parti de’ frutti, contentandosi d’una! l’avrebbero messo in miglior condizione del nostro mezzaiolo! Quella cupidigia bestiale che, per rendere il possesso più spedito, più sicuro, più intero, ammazzava, e dove serbava pure qualcosa d’umano, sostituiva alla morte la servitù, sarebbe poi diventata così discreta nell’esigerne il frutto!

Un’altra inverosimiglianza, non così grave, ma nemmeno senza peso, e comune alle due ipotesi, è che a que’ conquistatori sia venuto così tardi il pensiero d’imporre un tributo a modo loro. Non è certamente una cosa impossibile, ma non è la più probabile che si fossero tanto allontanati dalla consuetudine comune de’ Barbari di quell’epoca, e segnatamente di quelli che gli avevano preceduti in Italia: voglio dire la consuetudine d’assegnar direttamente a ogni uomo dell’esercito una parte del frutto della conquista; e che avessero mantenuta l’imposizione imperiale sulle terre, pagata allo Stato, non alle persone, e di più legata con una gerarchia romana. Quelle spedizioni e invasioni si facevano per il conto, non d’un governo, ma d’una nazione, cioè d’una massa d’eroi, il principale scopo de’ quali ora d’andare a viver d’entrata.

Ogni cosa invece viene, se non c’inganniamo, a trovarsi a suo luogo, quando s’ammetta, o piuttosto si riconosca la distinzione de’ due momenti storici, così chiaramente indicata, anzi espressa nel testo. Da principio, con la conquista barbarica un tributo barbarico; poi, con lo spoglio e con la strage di molti, lo spoglio e la servitù degli altri. Alcuni de’ vincitori, stando attaccati a una massima vecchia, che da un moderno fu espressa con quel leggiadro equivoco: il n’y a que les morts qui ne reviennent point, fanno man bassa sugli spogliati; altri, ne’ quali la cupidigia e la politica lasciano il posto a un resticciolo d’umanità, si [p. 170 modifica]contentano ridurli all’ultimo grado d’impotenza. In verità, non deve parer duro l’intender qui il tributarii in significato di servi, quando si pensa che il suo corrispondente è interfecti. È il caso d’applicare la nota etimologia: servi, qui servati sunt, quum eos occidere oporteret jure belli 13. Se non che qui era jure cupiditatis: il diritto col quale erano stati levati dal mondo gli altri.

Ma chi furono precisamente quelli a cui, per grazia, e in vece della morte, toccò la servitù?

Il rimanente, risponde Paolo, se hanno alcun peso le ragioni che abbiamo addotte del doverlo interpretar così, il rimanente di quelli ch’erano stati assoggettati all’imposizione del terzo: reliqui per hostes divisi. E con ciò sarebbe venuto a dire indirettamente, ma chiaramente, che non tutti affatto i possessori c’erano stati assoggettati. E anche qui, ci pare che l’interpretazione proposta si trovi d’accordo con le circostanze del tempo.

È noto che, all’arrivo de’ Longobardi, le terre in Italia erano la più parte, e da molto tempo, divise in latifondi, sia tenuti a mano dal padrone, e coltivati da servi, sia affittati in piccoli pezzi a de’ contadini liberi, che pagavano una porzione de’ frutti. «È un fatto troppo evidente,» aveva detto Plinio, cinque secoli prima, «che i latifondi hanno rovinata l’Italia, e oramai anche le province. La metà dell’Affrica (romana) era in mano di sei padroni, quando Nerone li fece morire; e Pompeo si mostrò grande anche nel non aver mai voluto comprare un podere confinante 14.» Ed era una cosa che, fatta, doveva mantenersi, giacchè non c’erano allora cagioni che aiutassero la formazione di mediocri o di piccoli capitali, i quali, tentando la prodigalità, spesso bisognosa, di que’ gran possessori, potessero produrre lo smembramento delle loro vaste tenute. I piccoli possessi poi, ch’erano pure rimasti, dovevano trovarsi per lo più ne’ luoghi montuosi, dove, per più d’una ragione, si trovano quasi sempre. Ora, i Longobardi, ne’ primi tempi dell’invasione, e con progetti di nove invasioni, non poterono certamente spargersi in tutte le parti del territorio, ma dovettero tenersi come accampati nelle città o nelle vicinanze di esse: e non era ancora il tempo che arrivassero con gli ordini dove non erano con la presenza. Da un’altra parte, l’imposizione sui pochissimi piccoli poderi, che pure si trovassero nella parte del paese effettivamente dominata e abitata da loro, avrebbe dato più impicci che frutto; e principalmente su quelli che fossero lavorati dai padroni medesimi: che doveva essere il più di que’ pochissimi casi. È quindi probabile che l’imposizione sia caduta solamente sulle vaste tenute, ch’erano quasi il tutto, e dove la riscossione era insieme facile e abbondante, e il padrone più sotto la zampa. E un argomento di semplice analogia, ma non da trascurarsi in tanta scarsità di documenti su questo punto, è il fatto de’ Burgundi, de’ quali un cronista del secolo VI, e del paese, dice che «divisero le terre co’ senatori della parte delle Gallie occupata da loro 15Senator ebbe nel medio evo diversi significati, e non di rado oscuri o dubbi per noi; è però fuor di dubbio che [p. 171 modifica]inchiude sempre la nozione d’uomo riguardevole, primario tra quelli del suo paese 16.

E non è più certo il significato preciso e speciale del nobilium usato da Paolo. Può riferirsi a nascita, o ad antiche dignità, o anche a sostanze. Ma, o direttamente, o per sottinteso, a questo si riferisce di sicuro. Que’ nobili erano ricchi, poichè furono scannati per cupidigia, ed erano per conseguenza di quelli che pagavano il terzo. Ed ecco la relazione di quel nobilium col reliqui che vien dopo; molti dei principali e più distinti possessori romani furono messi a morte; tutti gli altri che, come loro, e insieme con loro, erano stati tassati al terzo dell’entrata, furono fatti servi: e questi e quelli per impossessarsi de’ loro beni, come lo storico fa intendere, senza dirlo espressamente.

Se poi ogni Longobardo sia diventato padrone della porzione di fondo sulla quale gli fosse stato prima assegnato il terzo de’ frutti, o se sia stata fatta tra i Longobardi un’altra qualunque divisione, delle terre; toccandone in ogni caso una parte grossissima a ogni duca, e una grossa a ognuno degli altri Longobardi qualificati e distinti dalla moltitudine gregaria degli arimanni, è un punto sul quale non si potrebbe far altro che tirare a indovinare. In quanto al grado di servitù nel quale siano stati costituiti i possessori non ammazzati, la denominazione di tributarii può far congetturare che non fosse l’infimo. In mano di quali padroni siano caduti, se dei duchi soli, o anche d’altri Longobardi, non mi pare che si possa riuscire a saperlo più di quello che si sappia che fine per l’appunto abbiano fatta que’ tanti che furono condotti via schiavi da Agilulfo nella sua spedizione contro Roma 17; que’ molti più che Rotari ridusse in servitù, nella conquista della Liguria 18; quelli che Desiderio portò via, insieme col bestiame, da Blera, e (somiglianza notabile) dopo aver fatto strage de’ primati 19. Turbæ servientium immixti sunt 20. E non sono poche l’altre cose che dobbiamo disperar di conoscere intorno al modo speciale de’ due fatti non meno dolorosi, di cui trattiamo: fatti de’ quali l’essenza medesima è così succintamente, e per noi ambiguamente accennata in quell’unico tra i documenti venuti a noi, dove ne sia fatta espressa menzione.

Rimane ora da vedere se l’interpretazione proposta non sia contradetta da documenti relativi a tempi posteriori. E in quanto all’essere il tributo stato imposto [p. 172 modifica]fino dai primi momenti della conquista, non credo che si possa trovar nulla in contrario, sia nella storia de’ fatti accaduti dopo l’interregno, sia nelle leggi, sia in altri documenti qualunque. Dove si può credere che ci sia un tal pericolo, è in ciò che riguarda lo spoglio intero de’ beni e la riduzione in servitù de’ principali possidenti romani, nel tempo dell’interregno medesimo. E qui, come ognuno vede, la nostra questione non è, per dir così, che un brano di quella ben più vasta, intorno alla condizione degl’Italiani sotto il dominio longobardico. Tra gli scritti in cui questa questione è stata trattata, certamente notabile, e per dottrina e per ingegno, quello de’ signori di Vesme e Fossati, sulle Vicende della proprietà in Italia dalla caduta dell’Imperio romano fino allo stabilimento dei feudi; ed è anche, se non c’inganna la nostra ignoranza, quello dove sono raccolti più fatti per provare «esservi stati, anche ne’ primi tempi dopo la conquista, Romani nobili, Romani pienamente liberi e Romani possessori di beni stabili 21.» Il nostro assunto è molto più ristretto e, per compenso, molto meno difficile di quello che combattono i due valenti collaboratori. Che ci fossero Romani liberi e qualche Romano possessore 22, può star benissimo con la nostra interpretazione, secondo la quale, nell’interregno non sarebbe stata ridotta in servitù che una classe di persone: classe già pochissimo numerosa, e allora avanzo di due carnificine; e lo sproprio non sarebbe stato esteso a tutte quante le terre. De’ fatti allegati in quello scritto, i soli che importino alla piccola nostra questione sono quelli che riguardano i Romani nobili. Nell’esaminarli brevemente, noi ci prevarremo, come abbiam fatto altrove, di più d’un argomento del signor Troya.

Per prova che i nobili non fossero stati spogliati de’ loro beni, adducono i chiarissimi autori la lettera di san Gregorio al clero, all’ordine e alla plebe di Perugia, città stata in potere de’ Longobardi, ripresa poi, e posseduta allora dai Greci. «Se bene questa lettera, scritta in tempo che Perugia era dei Greci, non provi che sotto i Longobardi durasse nella città la distinzione tra l’ordine e la plebe, prova almeno che gli antichi nobili, ossia i decurioni, non vi erano stati al tutto distrutti, ammazzati o spogli dei loro beni 23.» Ma perchè i nobili di Perugia non ammazzati possedessero beni in quel tempo, non è punto necessario che n’avessero conservato il possesso sotto i Longobardi. Scacciati questi, i beni ch’erano stati presi da loro dovettero naturalmente esser restituiti agli antichi padroni o alle loro famiglie.

Adducono poi altre lettere dello stesso pontefice nelle quali è fatta menzione di nobili, sicuramente romani. «Nel tempo che Gregorio aveva la prefettura di Roma, durante il vescovado di Laurenzio in Milano, mandò questi al papa una dichiarazione risguardante i tre capitoli calcedonesi; in qua viri nobilissimi et legitimo numero subscripserant 24. Non v’ha dubio che i Longobardi a quel tempo fossero tuttavia ariani, onde gli uomini nobilissimi che sottoscrissero quella protesta non poterono essere che Italiani; e questo in una città dalla quale molti erano fuggiti al tempo dei Longobardi, ed erano tuttavia lontani (Greg. ep. III, 30) 25.» Ma, [p. 173 modifica]come osservò il signor Troya 26, que’ nobilissimi erano appunto i milanesi fuggiti e lontani, quelli di cui san Gregorio, nella lettera citata, dice che illic coacti barbara feritate consistunt: cioè in Genova, dove risiedette, in tutto il tempo del suo pontificato, Lorenzo II, vescovo di Milano, ma non vescovo in Milano 27.

Quest’osservazione vale ugualmente per l’altra lettera, nella quale Gregorio, raccomandando Fortunato prete a Costanzo successore immediato di Lorenzo, scrive: audio eum cum decessore vostro Laurentio ad mensam Ecelesiae per annos plurimos nuncusque comedisse, inter nobiles consedisse et subscripsisse 28.

«In un’altra lettera al popolo e al clero di Milano, durante la vacanza tra la morte di Costanzo e la elezione di Deodato raccomanda: Latrix præsentium Arethusa clarissima fæmina propter causam legati quod ei coniugique Laurentius.... episcopus reliquerat 29.» Ma non c’è ragione veruna per supporre che la donna chiarissima abitasse in paese soggetto ai Longobardi. La congettura più probabile è in vece, che appartenesse a una delle famiglie rifugiate a Genova; e il legato lasciatole dal vescovo, ch’era vissuto e morto in quella città, n’è un indizio di più. E nella nota al Capitolo antecedente, citata dianzi, abbiamo addotte le ragioni che inducono, o piuttosto obbligano a credere che a Genova fosse diretta anche la lettera.

L’ultimo fatto è ricavato dalla storia. «Paolo Diacono nomina Theodoten puellam ex nobilissimo Romanorum genere ortam presso Pavia 30.» Osserva però giustamente il signor Troya che lo storico parla dell’origine di Teodote, e non della sua condizione; e che l’esser nobilissima la prima non fa che la seconda non potesse esser servile. E cita molto a proposito un altro passo di Paolo medesimo, dove è detto che Grimoaldo ebbe tre figli da Itta, captiva puella, sed tamen nobili 31. E chi può dubitare che tra i Romani ridotti in servitù da Agilulfo e da Rotari, non ci fossero di molti nobili? Che poi Teodote fosse in effetto in una condizione servile, ci pare, più che indicato da varie circostanze del racconto che la riguarda. Ne trascriviamo qui la parte che fa al nostro proposito. At vero Gunibertus rex Hermelindam ex Saxonum‑Anglorum genere duxit uxorem. Quæ cum in balneo Theodotem puellam ex nobilissimo Romanorum genere ortam.... vidisset, ejus pulchritudinem suo viro Cuniberto regi laudavit. Qui ab uxore hoc libenter audire dissimulans, in magnum tamen puellæ exarsit amorem. Nec mora, venatum in silvam quam Urbem appellant 32 perrexit, secumque suam conjugem Hermelindam venire præcepit. Qui exinde noctu, egrediens, Ticinum rediit, et ad se Theodotem puellam venire faciens.... Certo, queste parole danno più l’idea d’un ordine fatto intimare a persona soggetta, e sotto la mano, che d’un ratto violento, o d’un’infame trattativa per levare una fanciulla libera dal seno d’una nobilissima famiglia. E di più, nè l’una, [p. 174 modifica]nè l’altra di queste supposizioni s’accorderebbe, con la ristrettezza del tempo; giacchè Cuniberto era partito di notte dalla casa di caccia, e senza dubbio per ritornarci la mattina, non avendo scelta quell’ora, se non per nascondere la sua partenza alla regina. L’esser poi Teodote stata veduta da questa nel bagno, non pare che si possa spiegare verosimilmente, se non col supporre che abitasse nel palazzo reale. Tutte queste circostanze rendono sommamente probabile che fosse una delle ancelle che ci dimoravano.

Fu poi messa in un monastero di Pavia, che prese il nome da lei, come segue a raccontare il Diacono 33; e queste sue avventure furono cagione che si parlasse della origine, a differenza di chi sa quant’altre nobilissime romane che vissero e morirono oscure in quel miscuglio di schiavi, insieme con chi sa quante altre discendenti di famiglie nobilissime delle diverse parti di mondo conquistate da’ Romani.

II.

Se dunque, all’epoca del ristabilimento del regno, lo stato di cose indicato dalla formola, per ostes divisi, non esisteva più, e non che esser opera dei duchi, era stato violentemente distrutto sotto la loro dominazione; le parole, populi tamen aggravati per Langobardos hospites partiuntur devono significar tutt’altro che un’operazione relativa a quello. Quest’argomento pregiudiziale però non può dispensarci dall’esaminare le più celebri e le più seguite tra l’interpretazioni che furono fatte con un tale intento.

Secondo il signor de Savigny, quelle parole non esprimerebbero altro che la continuazione, e come la conferma del fatto anteriore. «I Romani rimangono divisi tra i singoli Longobardi, come hospites di questi; e non si deve veder qui una novità, ma la permanenza dello stato di cose spiegato sopra, come lo dimostra la somiglianza dell’espressioni 34.» A una tale interpretazione però ci pare che resista invincibilmente la forza del partiuntur, che esprime nella maniera più risoluta un fatto novo. Di più, questo fatto è messo dallo storico in relazione con ciò che precede, e con ciò che segue; e perchè l’interpretazione riesca soddisfacente, è necessario che ci comparisca questa doppia relazione. Trascriviamo qui di seguito questa parte del testo, affinchè il lettore possa far comodamente un tal giudizio e su questa, e sull’altre interpretazioni. Hujus (Authari) in diebus, ob restaurationem regni, duces qui tunc erant, omnem substantiarum suarum medietatem regalibus usibus tribuunt, ut esse posset unde rex ipse, sive qui ei adhaererent, ejusque obsequiis per diversa officia dediti alerentur. Populi tamen aggravati (e questo tamen annunzia manifestamente qualcosa di straordinario e da non doversi aspettare dopo la cessione fatta dai duchi), per Langobardos hospites partiuntur. Erat sane hoc mirabile in regno Langobardorum (e qui il sane accenna altrettanto manifestamente, che le cose che si diranno sono consentanee al fatto riferito, e lo confermano): nulla erat violentia, nullae struebantur insidiae. Nemo aliquem angariabat, nemo spoliabat. Non erant furta, non latrocinia: unusquisque quo libebat securus sine timore [p. 175 modifica]pergebat. Ora, nell’interpretazione proposta, il tamen non avrebbe alcun senso, anzi n’avrebbe uno contradittorio. E riguardo alla seconda relazione, l’illustre scrittore dice bensì: «Ciò che lo storico racconta della giustizia e della tranquillità che regnavano nel paese non fa punto contradizione; giacchè l’aggravio imposto ai Romani non era un’oppressione arbitraria, una prepotenza particolare de’ Longobardi, ma l’applicazione d’una massima generale e uniforme, alla quale i Romani erano avvezzi fino dai tempi degli Eruli e de’ Goti.» Ma non basta che tra le due cose non ci sia contradizione: il contesto accenna evidentemente una correlazione positiva.

Più accreditata, anzi la più accreditata forse di tutte, e l’opinione che Paolo abbia voluto parlare d’una divisione delle terre tra gli antichi possessori e i Longobardi, in sostituzione del tributo annuo, e a imitazione di ciò ch’era stato fatto da altri Barbari, in Italia e altrove. Il qual significato alcuni credono che possa risultare dalla lezione comune di quel passo; ad altri pare di vederlo più apertamente espresso in una variante che Orazio Bianchi pubblicò nelle sue note al libro del Diacono, come presa da un codice della biblioteca ambrosiana. Riferiremo la prima di questo interpretazioni con le parole del dotto scrittore che l’ha più recentemente sostenuta, e più distintamente esposta. «Virgoleggiando quel passo nel seguente modo: populi tamen, aggravati per langobardos hospites, partiuntur, io lo spiego come il Gibbon e molti altri i quali eransi fatti a interpretarlo; cioè, i popoli per altro (i tributarj) aspreggiati con avanie più gravi (aggravati) dagli ospiti longobardi, partirono; che è quanto dire si videro costretti a partire o dividere le loro terre e pertinenze con quegli ospiti maladetti 35

Riserbandoci d’allegare tra un momento le ragioni che fanno ugualmente contro le due interpretazioni, ne opporremo a questa in particolare una già addotta da altri, cioè che, per ricavare un tal senso da tali parole, bisogna sottintenderci troppo. «Mancherebbe l’accusativo o la cosa partita, e sarebbe il passo intero vuoto di senso 36.» Che il Diacono ci avesse lasciato da indurre o da indovinare quanta fosse la parte ceduta; che avesse passata sotto silenzio la cessazione del tributo, potrebbero esser delle sue; ma che abbia tenuto nella penna l’oggetto essenziale della proposizione, e una relazione ugualmente essenziale, e con un nudo e scusso partiuntur intese di dire — divisero le terre co’ Longobardi, — non ci pare che il suo laconismo basti a renderlo verosimile.

A questo inconveniente s’è creduto che riparasse la variante pubblicata dal Bianchi: pro Langobardis hospicia, in vece di per langobardos hospites. Un illustre scrittore, dal quale non possiamo dissentire in un punto particolare, senza riconoscere quanta luce sia venuta da’ suoi diversi lavori alla storia italiana del medio evo, pensò che quella lezione potesse rendere il senso desiderato, venendo tradotta così: «i popoli aggravati divisero allora in favor de’ Longobardi i loro ospizi 37;» e con questo vocabolo credette che fossero particolarmente indicate l’abitazioni, rimanendo sottintese le terre. I signori di Vesme e Fossati, adottando la traduzione nel rimanente, opinarono che il vocabolo hospicia avesse forza di significare direttamente anche le terre sulle quali si pagava [p. 176 modifica]imposizione agli ospiti longobardi 38. Ma su questa interpretazione sarebbe superfluo ogni argomento, perchè una parte importante della variante su cui è fondata, cioè la lezione pro langobardis, non ha altra origine che una svista del commentatore, per altro diligente e oculato, che la mise fuori. Il codice ambrosiano ha: per langobardos hospicia parciuntur 39.

Si dirà forse che anche dalla variante rettificata così si possa rilevare il senso medesimo, attaccando, come fanno altri, il per langobardos a aggravati, e traducendo tutto il periodo in questa maniera: I popoli aggravati dai Longobardi dividono le terre?

A una tale interpretazione noi non opporremmo la novità del significato attribuito alla voce hospicia; giacchè l’analogia potrebbe bastare a renderlo verosimile, o anche certo, se lo volesse il contesto. Quanti vocaboli e del latino barbarico, e del vero latino, e d’altre lingue morte, la significazione de’ quali non è attestata che da un esempio, ma attestata con sicurezza, perchè in quell’unico esempio tutto concorre a determinarla! Ma qui è il contrario. Intesa così, la proposizione rimarrebbe ancora stranamente monca, non ci essendo espresso con chi divisero queste terre: cosa richiesta, non dirò dalla chiarezza, ma dalle leggi universali del linguaggio, e da volerci uno sforzo, una volontà deliberata d’esprimersi diversamente dall’uso comune, per lasciarla fuori.

In qualunque poi delle due maniere si voglia leggere quel passo, più d’una ragione, come abbiamo accennato, ci par che s’opponga all’interpretazione suddetta. Prima di tutto, sarebbe una cosa troppo singolare, che lo scrittore, volendo parlare d’un fatto che riguardava solamente i possessori delle terre, avesse adoprata una parola d’un senso così generale, come populi. E non sarebbe cosa meno strana che avesse addotto per motivo della divisione l’esser questi possessori aggravati dai Longobardi: come se ci fosse voluto altro che la volontà di questi; come se i possessori romani fossero stati in condizione di venire a patti; come se una tal cosa, o una cosa qualunque potesse esser avviata da [p. 177 modifica]loro. Qual mezzo avevano i possessori italiani di trattar tra di loro degl’interessi comuni? Chi era che potesse proporre, stipulare, che dico? supplicare, piangere in nome di tutti? E poichè ciò che ha dato principalmente occasione d’immaginare una divisione delle terre tra Romani e Longobardi, è una tal quale analogia con altri fatti di questo genere, e fatti certi, non sarà fuor di proposito l’osservare quanta e quanto essenziale differenza corra tra questi fatti certi e quell’immaginato. Parlando del come gli Eruli siano diventati possessori d’una parte delle terre romane, la storia dice semplicemente che questa fu ad essi concessa dal loro capo Odoacre 40; nelle leggi de’ Burgundi e in quelle de’ Visigoti, i due terzi delle terre si dicono assegnati ai Barbari dalla liberalità, dalla munificenza de’ re barbari 41; e i Longobardi sarebbero arrivati al possesso per mezzo d’un accomodamento, d’una trattativa! ci sarebbe voluto un invito degli antichi possessori! di que’ possessori che poco prima essi scannavano allegramente!

Due interpretazioni ha proposto il signor Troya: una della lezione più comune, l’altra d’una nova variante. E quella e questa, secondo l’illustre autore, verrebbero ugualmente a significare un aggravamento della condizione de’ tributarii: senonchè nella prima questo aggravamento sarebbe alquanto specificato; nella seconda sarebbe enunciato solamente in una forma generalissima.

«I popoli aggravati furono in nuova maniera divisi che non dianzi, e però crebbe il loro aggravio mercè un nuovo sorteggio di quelli che rimasero nell’altra metà delle sostanze non cedute da’ Duchi ad Autari 42:» tale è il significato che al signor Troya pare il più probabile, della lezione comune: populi tamen aggravati per langobardos hospites partiuntur. Ma anche qui osiamo dire che si fa violenza a quest’ultimo vocabolo, il quale, se il contesto lo richiedesse, potrebbe bensì voler dire che furono divisi, ma non già che lo furono una seconda volta, e in un’altra maniera. E di più, non si vede come potesse avvenire questo novo sorteggio. Che i tributarii fossero stati ridotti a una servitù più bassa e più gravosa, s’intenderebbe; ma come potevano esser divisi di novo, quando erano già diventati proprietà di tali e tali Longobardi?

L’altra, come s’è detto, e come è noto, è non solo un’interpretazione ma una lezione affatto nova. In cinque codici il signor Troya ha trovato patiuntur, in vece di partiuntur. E, senza però ammettere per sicura questa lezione, la spiega condizionatamente così: «I Duchi dettero la metà delle loro sostanze ad Autari; nondimeno (tamen) i popoli aggravati dagli Ospiti o stranieri Longobardi ne patirono: ciò vale che vollero i Duchi rifarsi, taglieggiando nuovamente i Romani, ed imponendo loro oggravio maggiore del tributo d’un terzo de’ frutti 43.» Troppe ragioni però ci pare che portino ad attribuire quel patiuntur a un errore d’un amanuense, o d’amanuensi. Prima di tutto, ci vorrebbe molto per ammettere che Paolo abbia potuto dare al verbo pati una significazione così inusitata: significazione che quel verbo ha bensì acquistata, trasformandosi, [p. 178 modifica]in qualche idioma neo‑latino; ma per l’aggiunta d’una particella. Patirono, assolutamente detto, riuscirebbe non meno strano di patiuntur. E quand’anche si volesse passar sopra questa difficoltà, rimarrebbe l’altra maggiore, che, letto e interpretato così, il passo presenterebbe un senso contradittorio. Se dopo aver riferita la cessione fatta dai duchi al novo re, lo storico avesse voluto aggiungere che quelli, per rifarsi, avevano accresciuto l’aggravio ai tributarii, in vece di nondimeno, avrebbe dovuto dire: per questa cagione. All’opposto, il nondimeno sarebbe andato a pennello nella frase seguente, in vece del davvero messoci da Paolo (erat sane hoc mirabile), giacchè qual cosa meno adattata della bontà e della giustizia a far parer naturale che a degli uomini senza colpa e senza difesa siano stati accresciuti i pesi e i patimenti?

Contro tutt’e due queste interpretazioni poi, sta anche l’argomento addotto dianzi, che la parola populi non può credersi applicata dall’autore a quelli ch’erano stati per hostes divisi, ut tertiam partem suarum frugum persolverent, cioè ai possessori di terre, i quali non costituivano nè un popolo naturale, nè un popolo politico.

Questa necessità di distinguer le cose dove sono così diverse le parole, è stata notata, credo per la prima volta, da Gino Capponi, nella prima delle sue Lettere sulla dominazione dei Longobardi in Italia 44, lettere ricche di varia dottrina, e di vedute filosofiche; dove è anche proposta una nova interpretazione, fondata in parte su questa distinzione medesima, in parte su un’analogia indiretta tra le voci, aggravati e tributarii. «Trovo nel Du Cange: gravaria, canoni o responsioni sulle terre; gravatores, esattori o pubblicani, o birri d’un conte o d’altro signore; gravitas, aggravio, carico, esazione, tributo: e quest’ultimo significato chiaro apparisce nel Teodosiano. Per me dunque gli aggravati altro non sono che i tributari; i quali rimasero divisi com’erano, ovvero soggiacquero ad un’altra partizione: partiuntur per langobardos hospites. I duchi cederono al re la metà delle sostanze acquistate con lo spoglio de’ nobili e de’ potenti ma ritennero per sè, o novamente divisero tra di loro i popoli tributari. Popolo e nobili erano tutt’altra cosa nell’intendere del Diacono; che poco sopra aveva detto le sostanze o possessioni dei duchi venire da’ nobili romani: per questo pose quel tamen, il quale distingue le due qualità di possessi.» Noi, dopo esserci approfittati di quest’osservazione contro gli altri interpreti, ce ne serviamo arditamente anche contro il venerato e caro Gino, che ce l’ha somministrata. Quelli che Paolo dice essere stati fatti tributarii, fossero o non fossero tutti nobili e potenti, erano però tutti possessori di terre: quindi il populi non può riferirsi a loro, nè a una parte qualunque di loro.

Dopo tanti tentativi (così crediamo di poterli chiamare, non essendo nessuna di queste interpretazioni riuscita a levar di mezzo l’altre) pare che si dovrebbe dar la cosa per disperata, se non ne rimanesse uno semplicissimo, e trascurato per una cagione che abbiamo accennata fin da principio. La supposizione a priori, che questo per Langobardos hospites partiuntur dovesse aver relazione col per hostes divisi, ha fatto che si sia cercato esclusivamente un significato che spiegasse una tal relazione, e non si sia pensato a guardare se qualchedun altro ne potesse resultare dal diverso valore di qualche vocabolo, e da una diversa efficacia di qualche forma grammaticale. E ci pare che ne resulti uno [p. 179 modifica]affatto consonante e con l’intento del passo intero, e con le circostanze del momento storico.

Le parole populi aggravati sono prese da tutti per un nominativo plurale: i popoli aggravati. E non ci sarebbe che dire se, intese così, concorressero a produrre un senso soddisfacente. Ma ciò non essendo, bisogna pur badare che potrebbero essere anche un genitivo singolare, e voler dire: del popolo aggravato. È vero che allora la frase rimane senza nominativo; ma lo ritroviamo subito nell’antecedente: Duces qui tunc erant, omnem substantiarum suarum medietatem regalibus usibus tribuunt.... populi tamen aggravati per Langobardos hospites partiuntur. L’accusativo lo troviamo in questo hospites, staccandolo dal per Langobardos. E abbiamo così un contesto grammaticalmente regolarissimo, e da potersi tradurre letteralmente così: I duchi cedono al re la metà delle loro sostanze; e nondimeno dividono tra i longobardi gli ospiti del popolo aggravato.

Ma, e il senso?

Se non c’inganniamo, n’esce uno affatto a proposito, quando si badi che nel medio evo la voce hospites, tra i vari suoi significati e, per dir così, sottosignificati, ebbe anche quello di: poveri erranti, senza ricovero. Eccone un esempio d’un capitolare di Carlomagno: Ut (Presbyteri) hospitales sint: quia multi qui sciunt hospitem supervenire ad Ecclesiam suam, fugiunt. Apostolus jubet, et cetera Scriptura divina, sectando sequi. Illi e contrario faciunt, et pauperibus subvenire metuunt 45. Ognuno vede che qui c’è qualcosa di più che nell’hospes della latinità gentilesca: è il forestiere raccomandato, non solamente all’amicizia particolare, ma alla carità universale; e nel forestiere è principalmente contemplata la qualità di povero. Questa sublime alterazione di senso era venuta dalla Volgata, come s’indovinerebbe, ma è anche indicato in altro capitolare di Carlo medesimo: Hospites, peregrini et pauperes, susceptiones regulares et canonicas per loca diversa habeant: quia ipse Dominus dicturus erit in remuneratione magni dici: Hospes eram, et suscepistis me 46. Fu poi questa voce adoprata per estensione a significare anche poveri in genere; e il Ducange ne cita un esempio caratteristico. In una costituzione, dell’anno 889, di Ricolfo vescovo di Soissons, nella quale è proposta la regola di vari concili sulla distribuzione dell’entrate ecclesiastiche, è detto: Quarta (pars) hospitibus, in vece di pauperibus, che è la parola usata da que’ concili. E di qui le voci, hospitium, hospitale, hospitalitas, e altre 47, appropriate a significare e quartieri e edifizi destinati ad albergare o pellegrini, o viandanti poveri, o poveri anche paesani, e finalmente ammalati.

Per veder poi quali potessero essere, al momento della restaurazione del regno, questi disgraziati raminghi, basta rammentarsi ciò che lo storico racconta dell’interregno. «Sotto il comando di questi duchi, i Longobardi invasero e soggiogarono la maggior parte dell’Italia non ancora conquistata, spogliando chiese, ammazzando sacerdoti, diroccando città, sterminando popolazioni intere 48». Certo, quest’ultime parole non sono da intendersi letteralmente: molti si sottrassero con la fuga alla strage; [p. 180 modifica]molti abbandonarono per disperazione i luoghi dove non avevano più nè ricovero, nè vitto, e non c’era chi gliene potesse dare; e le parti d’Italia meno maltrattate, e particolarmente quelle ch’erano state occupate da Alboino, dovevano formicolare di questi rimasugli d’un popolo oppresso, ridotto all’estremo della miseria, messo in fondo. Chè, interpretando così l’aggravati di Paolo, noi non abbiamo, è vero, alcun esempio diretto sul quale fondarci; ma un tal senso, come ha una probabilità bastante dall’analogia, così ne riceve una fortissima dal complesso del racconto. È evidente che lo storico vuol rappresentare la restaurazione del poter regio come un momento di riordinazione civile, e anche d’uno straordinario miglioramento morale. Ma, succinto, o piuttosto digiuno al suo solito, ne tocca due fatti soli. Que’ duchi, così avidi di possesso, cedono al re la metà delle grandiose sostanze acquistate col mezzo della strage e della rapina; e nondimeno provvedono a quel miserabile sciame di sbandati, distribuondoli tra i Longobardi, cioè assegnandoli ripartitamente e proporzionalmente ad essi, da mantenere e da ricoverare sulle terre e nelle case delle quali erano diventati possessori di fatto. La ragione del nondimeno comparisce qui chiarissima: i duchi medesimi, ch’erano, e prima, e sicuramente anche dopo la cessione, i principali tra i novi possessori, presero la loro parte di quegli ospiti: malgrado lo sproprio, s’addossarono un peso. E la relazione non ci pare meno chiara col passo che vien dopo: Erat sane hoc mirabile in regno Langobardorum, ecc.. Que’ due fatti, uno di liberalità, l’altro di commiserazione, se non di giustizia, fatti da parere strani subito dopo un’epoca di rapine e di sangue, l’autore li lega, e in certa maniera li conferma col fatto generale (quanto autentico non importa), d’un cambiamento maraviglioso avvenuto ne’ costumi e nelle disposizioni di tutta la nazione. «Non una violenza, non un’insidia, non un sopruso; nessuno oppresso, nessuno spogliato:» cioè nessuna delle cose che negli anni atroci dell’interregno erano state abituali. E nello stesso tempo, il ricovero dato a que’ raminghi aiuta a render ragione dell’esser diventato così quieto il paese, così sicure le strade (non erant furta, non latrocinia: unusquisque quo libebat securus sine timore pergebat); perchè in una tale moltitudine, insieme co’ pazienti e con gli avviliti, ci dovevano essere anche i disperati.

Finalmente, poichè s’è dovuto parlare del codice ambrosiano, osserveremo che questa interpretazione è la sola, delle proposte finora, che s’accomodi con la lezione genuina di esso. Non che noi crediamo che l’autorità di quel codice, solo contro tanti, basti per far credere che quella lezione sia la vera: ci pare anzi molto più probabile che la voce hospicia, la sola per cui essa differisce dalla lezione comune, ci sia entrata per errore d’un amanuense che o abbia letto male, o, come congettura il signor Professore Capei 49, abbia sostituita una glossa al testo. Citiamo questa variante in quanto ci pare che l’autore di essa, storpiando materialmente il testo, l’intese formalmente come noi. Hospitia, come s’è già osservato, significava anche quartieri o edifizi destinati ad alloggiare, di passaggio o stabilmente, viandanti o poveri. E quindi la frase: populi aggravati per Langobardos hospitia partiuntur, viene a dire, in una maniera meno naturale certamente, come deve accadere a chi altera l’espressione altrui, ma pure viene a dire la cosa medesima, [p. 181 modifica]cioè: ripartirono tra i Longobardi de’ ricoveri per il popolo aggravato 50

Abbiamo mantenuta la promessa fatta fin da principio, che la nostra interpretazione non manderebbe avanti neppure un passo la gran questione dello stato degl’Italiani sotto i Longobardi. Se però fossimo riusciti a levar di mezzo una pietra d’inciampo, e a prevenire altre ricerche, ci potrà esser perdonato d’avere spese tante parole intorno a un così minuto argomento. A ogni modo, questa questione così importante per la storia patria è stata trattata da scrittori delle diverse parti d’Italia, non so se con maggior discordia di pareri, o con maggior benevolenza degli animi, dimanierachè il discutere è stato quasi uno studiare insieme; e per questa parte almeno, abbiamo fiducia di non aver guastato.

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Note

  1. De gestis Langob. 11, 32.
  2. Ibid. III, 16.
  3. Variante adottata generalmente, per la supposizione molto probabile che hostes, quand’anche fosse la vera lezione, non sia qui altro che un sinonimo, o piuttosto un’altra forma di hospites.
  4. Chi volesse domandargli il perchè non l’abbia riferito a suo tempo, avrebbe troppe cose dello stesso genere da domandargli.
  5. È noto che quello che ci rimane dell’opera di Festo: De verborum significatione, è un compendio del nostro Diacono. Se poi abbia fatto una cosa utile alle lettere, conservando così almeno una parte di quell’opera importante per la filologia, e non senza importanza per la storia, col renderne più facile la trascrizione; o se, con questa facilità medesima, sia stato cagione di far trascurare e perdere l’opera intera, chi lo potrebbe indovinare?
  6. § XXVII.
  7. Nelle brevi, ma dotte e sagaci Osservazioni intorno al Discorso di Carlo Troya, ecc. Art. I, 6.
  8. Sulla dominazione de’ Longobardi in Italia, Discorso al Marchese, Gino Capponi; I, 11.
  9. Vicende della proprietà in Italia, dei signori di Vesme e Fossati; lib. III, cap. 7.
  10. Op. cit.§ XXVIII.
  11. Nulli liceat pro quolibet debito casam tributariam ordinatam loco pignoris tollere, nisi servum aut ancillam vaccas aut pecora, ita ipsum aut pignus (al: ita ut ipsam pignus), quod tulit per suam custodiam, salvum faciat usque ad praefinitum tempus, sicut subter adnexum est, idest intra eas personas quae intra centum milliaria habitant, intra dies XX. Et si intra dies istos XX debitor pignus suum, justitiam faciens, et debitum reddens, non liberaverit, et post transactos dies XX, contigerit ex ipso pignore mancipium, aut quodlibet peculium mori, aut homicidium, aut damnum fieri, aut alibi transmigrare, tunc debitor in suum damnum reputet, qui sua pignora liberare neglexerit. Roth. I. 257. — Peculium, nel latino del medio evo, e segnatamente in quello delle leggi longobardiche, significava anche bestiame. Non è così chiaro il senso dell’ordinatam aggiunto a casam. Forse fornita d’attrezzi e d’abitatori, in ordine, come si disse poi?
  12. Appendice al Discorso sulla condizione de’ Romani vinti da’ Longobardi; cap.II, § 1.
  13. Donat. ad Terent. Adelph. Il, 1, 28.
  14. Verumque confitentibus latifundia perdidere Italiam, jam vero et provincias. Sex domini semissem Africam possidebant, quum interfecit eos Nero princeps: non fraudando magnitudine hoc quoque sua Cn. Pompeio, qui nunquam agrum mercatus est conterminum. Plin., Nat. Hist., XVIII, 7, 3.
  15. Eo anno (466) Burgundiones partem Galliae occupaverunt, terrasque cum Galliis (leg. Galliae o gallicis) Senatoribus diviserunt. Marii Adventicensis Chron.; Rer. Gallic. et Franc., T. II, pag. 13. Anche dal poco che, dicono le leggi di questi conquistatori par che si possa indurre che furono divisi solamente i poderi considerabili, e appartenenti a padroni non contadini. Ai Burgundi fu assegnato il terzo degli schiavi, i due terzi de’ campi (Leg. Burg. Tit. 51, 1. 1) e la metà delle corti e de’ pomari (Ibid. 1. 3). Curtis significava per lo più tutte le case e gli altri edifizi d’una fattoria. V. Ducange.
  16. V. Ducange, ad h. v. Lo stesso Mario, parlando, all’anno 538, della resa di Milano ai Goti e ai Burgundi loro ausiliari, dice: ibique Senatores et Sacerdotes cum reliquis populis etiam in sacrosancta loca interfecti sunt. Loc. cit.. pag. 16.
  17. Alios in captivitatem duci, alios detruncari, alios interfici videmus. S. Greg. in Ezech. Lib. II, Homil. VI, 22; ibid. Hom. X, 24.
  18. V. il passo di Fredegario, citato nell’appendice antecedente. Paolo, come osservò molto a proposito il signor Troya (§ LXXVII), non fa altro che accennar brevemente la conquista, senza dire una parola del come furono trattati i vinti. Igitur Rothari rex, Romanorum civitates ab urbe Tusciae Lunense universas quae in littore maris sitae sunt, usque ad Francorum fines cepit. IV, 47.
  19. Nam in civitatem Bleranam dirigens generalem exercitum partium Tusciae, dum ipsi Blerani in fiducia pacis ad recolligendas proprias segetes cum mulieribus et filiis atque famulis egrederentur, irruperunt super eos ipsi Langobardi, et cunctos primates, quanti utiliter in civitate erant, interfecerunt, et praedam multam tam de hominibus, quam de peculiis abstulerunt, ferro et igne cuncta in circuitu devastantes. Anast. Bibl.; Rer. It., T. III, pag. 182.
  20. Tacit., Agric. 40.
  21. Lib. II, Cap. 7.
  22. Un certo quale indizio che i possessori romani fossero pochi può esser questo, che nelle carte dell’epoca longobardica, che si trovano nelle collezioni del Muratori, del Lupi, del Fumagalli e del Brunetti, i nomi de’ venditori o donatori di fondi sono la massima parte germanici.
  23. Vicende della proprietà in Italia, ecc., pag. 319. Greg. Ep. 1, 60.
  24. Greg. Ep. IV, 2. Constantio Episc. Med.
  25. Vicende, ecc. pag. 350.
  26. Della condizione, ecc.§ LV.
  27. V. la nota al Cap. antecedente, pag. 193. (nota 96, ndr.)
  28. Greg. Epist. IV, 39. — Vicende, ecc. Ibid.
  29. Id. Lib. XI, Ep. 16. — Vicende, ecc. pag. 351.
  30. Paul. Diac. V, 37. — Vicende, ecc. pag. 351
  31. Paul Diac. IV, 47. - Della condizione, ecc.§ CVI. Anni 667‑668?
  32. Questa selva, che aveva preso il nome dal fiume Urbs (ora l’Orba), e l’ha poi dato al Bosco, borgo vicino ad Alessandria, era un luogo prediletto di caccia de’ re Longobardi. Paolo ne fa menzione più volte, e in un luogo la chiama vastissimam silvam (V, 39). E anche la probabilità del racconto in questione vuole che arrivasse vicino a Pavia.
  33. Quam tamen postea in monasterimm, quod de illius nomine intra Ticinum appellatum est, misit. Ibid. — Fu poi chiamato il monastero della Pusterla. V. la nota al luogo citato, Rer. It. Script. T. I, P. II, pag. 487.
  34. Storia del Diritto romano nel medio evo; Cap. V, 118.
  35. Discorso citato del Prof. Capei; I, 12.
  36. Vesme e Fossati; Op. cit. ibid.
  37. Balbo, Storia d’Italia, Lib. II, Cap. 8. Vedi anche: Appunti per la storia delle città italiane, Età quinta.
  38. Op. cit. ibid.
  39. Le parole in questione sono scritte così: p langobardı ̊s. L’abbreviazione della prima, e la correzione della seconda ci fecero parere più che sospetta la versione del Bianchi. Ma non potendo, da noi, andar più in là del sospetto, ci siamo rivolti a un uomo, come dotto in diverse materie, così espertissimo in questa, il signor Giuseppe Cossa, il quale si compiacque d’esaminare il codice, e ci favorì la nota seguente:
    «Per chiunque è alquanto pratico di paleografia, non v’ha ombra di dubbio che p è abbreviatura di per, non mai di pro, che n’aveva una di tutt’altra forma: ed è questo uno de’ fatti più costanti circa il modo di abbreviare. Il codice stesso in particolare lo conferma, giacchè da per tutto vi si osserva che la proposizione per è compendiosamente rappresentata con p, e non altrimenti. È questa una minuta cognizione sulla quale credo di poter emettere un giudizio positivo e assoluto.
    «Quanto alla voce langobardı ̊s, rammenterò che gli antichi solevano correggere gli errori di qualche lettera, non già cancellando questa, ma lasciandola intatta, e soprapponendovi la giusta; e per indicare che s’era voluto fare una correzione, si metteva sotto la lettera corretta un punto. In questa maniera nel codice stesso, alcune facce avanti, si trova mene corretto in mane.
    «Perciò io tengo per fermo che o l’amanuense, o il correttore dimenticò il punto sotto la i di langobardis, e solo corresse la parola col sovrapporci la o.
    «E concludendo, son persuaso che lo scrittore del codice o il correttore intese che si avesse a leggere per langobardos, e che nel passo accennato non v’ha incertezza, ma vera correzione. Nè, percorrendolo senza essere altrimenti prevenuto avrei esitato un momento.
    «Non sarò così ardito circa l’età del codice, perchè in questo particolare si possono pigliare granchi e anche balene a secco, siccome è pure accaduto a valentuomini. Ma, parlando con la debita riservatezza, lo attribuisco al X o XI secolo.»
  40. ... partem agrorum quos Odoacer factioni suae concesserat inter se Gothi diviserunt. Procop. Bell. Goth. Lib. I, cap. I.
  41. ... ut quicumque agrum cum mancipiis, seu parentum nostrorum, sive largitate nostra perceperat... — Lex Burgund. LIV, I.
    ... iis qui agris et mancipiis nostra munificentia potiuntur... Ibid.
    ... aut de terra Romani Gothus sibi aliquid audeat usurpare aut vendicare nisi quod de nostra forsitan ei fuerit largitate donatum. Leg. Wisigoth. Lib. X, tit. 8.
  42. Discorso, ecc.§ XLIV.
  43. Ibid.§ CCLXXXVII.
  44. Nell’Archivio Storico Italiano; Appendice N.° 7.
  45. Capitulare l’incerti anni, Cap. 8; Baluz. T. I, p. 531.
  46. Capitul. Aquisgran. Cap. 73; Baluz. T. I, pag. 238.
  47. V. il Ducange.
  48. Per hos Langobardorum duces, septimo anno ab adventu Albuuin et totius gentis, spoliatis ecclesiis, sacerdotibus interfectis, civitatibus subrutis, populisque, qui more segetum excreverant, extinctis, exceptis his regionibus quas Albuuin ceperat, Italia ex maxima parte capta et a Langobardis subjugata est. II, 32.
  49. Discorso citato,§ 16.
  50. Questa intenzione ci pare espressa ancora piú apertamente nella lezione del codice di Bamberga, pubblicata dal signor Bianchi‑Giovini (Rivista Europea, novembre e dicembre 1845), con un’interpretazione, ingegnosa nel sistema da lui adottato intorno alle relazioni tra gl’Italiani e i Longobardi. La lezione è questa: Cum autem populi graverentur, Langobardi, hospites advenientes inter se dividebant. Qui i divisi sono esplicitamente gli hospites; e che per questo vocabolo l’autore, qualunque sia, di questa lezione abbia inteso persone bisognose di ricovero, l’indica chiaramente l’aggiunto advenientes, fratello carnale d’un altro che fu usato nel medio evo, appunto per circoscrivere a un tal significato quel nome che n’aveva diversi. In due capitolari di Carlo il Calvo si legge: Ut missi nostri, per civitates et singula monasteria, hospitalitatem supervenientium hospitum, et receptionem pauperum, disponant et ordinent (Baluz. T. II, p. 53 e 203). La stessa formola si trova in una relazione delle consuetudini d’un monastero: Ommes hospites supervenientes cum lectione divina suscipiunt (Ibid. p. 1382). E la voce advenans, usata ellitticamente in forma di sostantivo, come si vede nella frase citata dal Ducange (ad h. v.): Tria receptacula peregrinorum et advenantium construxit, pare piuttosto una corruzione di adveniens, che un derivato di advena. L’associazione così naturale di adveniens, con hospes, si può sospettare che fosse già d’un uso molto antico, poichè si trova, e ripetutamente, in Vitruvio. Praeterea dextra ac sinistra domunculae constituuntur habentes proprias ianuas, triclinia et cubicula commoda, uti ospites advenientes non in peristylia, sed in ea hospitalia recipiantur. Nam cum fuerint Graeci delicatiores et fortuna opulentiores, hospitibus advenientibus instruebant triclinia, cubicula, ecc. (De Architect. Lib. VI, Cap. 7, ex recens. J. G. Schneider, vulgo 10).
    Non. dobbiamo però farci belli d’esserci incontrati con quell’autore nell’interpretazione del secondo passo, senza avvertire che il primo fu da lui inteso in una maniera diversa dalla nostra, e come dalla più parte degl’interpreti moderni. Reliqui, dice, qui remanserant, partiti sunt, per Langobardos, ut annualiter eis censum darent tertiam partem, de vectualio quot habebant. Ma non crediamo che quest’autorità basti per annientare gli argomenti adottati da noi contro una tale interpretazione. La congettura riferita nel giornale suddetto, che «gli esemplari stampati siano un lavoro posteriore di Paolo Diacono, che rifece, interpolò, amplificò abbellì i concetti del suo libro,» e che il codice di Bamberga contenga una sua prima dettatura, non ci pare che abbia quei caratteri d’evidenza che, in mancanza di prove positive, si richiederebbero per una cosa tanto straordinaria. «La prima idea,» giacchè abbiamo la fortuna di poter esprimere il nostro sentimento con parole altrui, e autorevoli «la prima idea la quale spontanea si presenta all’animo è: che il Codice di Bamberga contenga invece un raffazzonamento posteriore della Storia di Paolo.» (Capei, Nota aggiunta al Discorso citato). Infatti, anche al solo confronto de’ due capitoli citati per saggio, le differenze tra i due testi sono tali e di tal genere, da non lasciar credere così facilmente che questi possano venire da una stessa mano. Prima di tutto, in quanto alla dettatura, le differenze non sono meramente di stile, «negli esemplari a stampa, fiorito ornato ed ammanierato; nel codice di cui si parla, semplice e sommamente naturale.» Sono differenze di lingua: non è un uomo che usa in due diverse maniere il latino che sa; sono due, che hanno una molto diversa cognizione del latino. Non s’intende, per esempio, come mai l’uomo ch’era in caso di scrivere nella supposta seconda maniera (o lasciamo da una parte ch’era l’abbreviatore di Festo), come mai avrebbe potuto scrivere la prima volta: nullus alieni faciebat violentia, nulla fraus ibi erat, necne aliquem injuste angariabat. La semplicità del linguaggio consiste nell’adoprare i termini propri; la naturalezza viene dal secondare le proprio abitudini: qui in vece è ignoranza de’ termini e mancanza d’abitudine. E non si dica che Paolo, scrivendo in una lingua straniera, fors’anche morta (poichè chi può conoscere il momento della nascita e della morte delle lingue?) poteva, quando non ci mettesse studio, ricadere nell’abitudmi della lingua o delle lingue, Dio sa quali, che parlava. Mettendo pure il violentia in vece di violentiam a carico dell’amanuense, e lasciando da parte l’alieni, messo per alii o aliis, quel necne così fuori di concerto non è forma straniera, è strafalcione; non è d’un trascurato che dimentica, è d’un ignorante che va a tasto, e tira a indovinare. E alla disattenzione d’un rifacitore ignorante, piuttosto che a una strana leggerezza dell’autore, pare che sia da attribuirsi anche una differenza di tutt’altro genere, e che riguarda un fatto positivo. Quadraginta alii duces per quadraginta civitates constitutis, si legge nel codice di Bamberga, dove gli altri hanno: Sed et alii extra hos in suis urbibus triginta duces fuerunt. Pare, dico, difficile che Paolo avesse notizie così vacillanti intorno a un fatto della sua nazione, e fatto che, secondo tutte le probabilità, era durato, senza cambiamento, fino al suo tempo; e s’intende in vece facilmente che un uomo d’un altro paese, e d’un altro secolo, sbagliasse nel rilevare il numero, senza che nessuna cognizione anteriore lo facesse avvedere dell’importanza dello sbaglio. Finiremo con l’osservare una differenza d’un altro genere ancora. È noto che nella descrizione de’ guasti fatti da’ Longobardi in Italia, Paolo seguì, bene o male, Gregorio di Tours; anzi, nella lezione comune si trovano due frasi incidenti prese di pianta da questo scrittore: spoliatis ecclesiis, sacerdotibus interfecti. (Paul. Diac. II, 32; Gregor. Tur. Hist. Franc. IV, 41). Nel codice di Bamberga, a queste parole sono sostituite quest’altre: multae ecclesiae destructae sunt, et multi sacerdotes interfecti. Ora, non par naturale che uno cominci dal sostituire, per arrivar poi all’operazione così semplice di copiare. Aspettando la pubblicazione del codice intero, e il giudizio definitivo degli eruditi, noi crediamo che queste poche osservazioni rendano fin d’ora più probabile la congettura che esso contenga un’interpretazione, una specie di glossa perpetua, fatta da uno che sapeva poco il latino, a uso di quelli che lo sapevano meno di lui. Dall’esserci nel codice medesimo opere d’altri autori, le quali, «tranne poche varianti, corrispondono letteralmente colle edizioni stampate,» il dotto straniero, al quale se ne deve la notizia, argomenta che «le variazioni non si possano attribuire al copista.» E con ragione; ma, dopo ciò, rimane ancora da vedere se l’esemplare trascritto fedelmente da costui contenesse un primo lavoro di Paolo, o un rifacimento d’un altro.