Canto VI

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Canto V Canto VII
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ALLEGORIA

Sotto la figura del Giardino ci vien rappresentato il Piacere. Nelle cinque porte si sottointendono i cinque sentimenti del corpo. Nel cristallo e nel zaffiro della prima Porta si significa la materia dell’occhio, ch’è l’organo della vista. Nel cedro della seconda il senso dell’odorato. Nella favoletta del Pavone si dinota la maravigliosa labrica del fermamente. Ama la Colomba, perciò che, sí come in effetto questi due uccelli (secondo i Naturali) si amano insieme, cosí tutte le luci superiori sono mosse e regolate dal divino amore. È trasformato da Giove, perché dal sommo artefice Iddio ebbe quello (come ogni altro Cielo) la materia e la forma. Fingesi servo d’Apollo, e da lui gli sono adornate le penne della varietá di tanti occhi, per essere il Sole vivo fonte originale di tutta la luce, che poi si communica alle stelle. Ne’ diversi oggetti, passatempi e trattenimenti piacevoli si adombrano

le voluttá sensuali. [p. 320 modifica]

ARGOMENTO

Al Giardin del Piacer col Giovinetto
sen va la Dea de l’amorosa luce.

Per le porte de’ sensi indi il conduce
di gioia in gioia a l’ultimo diletto.

1.Armi il petto di gel chi vede Amore
saettar foco e ferir Palme a morte,
e de la rocca fragile del core
difenda pur le malguardate porte;
né del crudele e perfido Signore
v’introduca giá mai le fiere scorte,
ch’insidiose a chi non ben le serra
sotto vista di pace apportan guerra.

2.Chi da quest’empio e da la Carne infida
condur si lascia in fra perigli errante,
e qual cieco, che ’l can prenda per guida,
segue del senso le fallaci piante,
s’avien poi ch’egli caggia, o che l’uccida
chi per torto sentier lo scòrse avante,
non si lagni d’altrui che di se stesso,
che ’l fren d’ogni sua voglia in man gli ha messo.

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3.È ver, che da sé sola a ciò non basta
nostra natura inferma e ’ndebolita,
quand’anco il gran Dottor, l’anima casta,
de lo spirto di Dio tromba gradita,
per schermirsi da tal che ne contrasta
ebbe mestier di sovrumana aita;
né degli assalti suoi può fedel alma
senza grazia divina acquistar palma.

4.Ma vuoisi ancor con studio e con fatica
schivar quel dolce invito, ésca de’ sensi,
perché de la domestica nemica
sol con la fuga la vittoria ottiensi;
e chi fuggir non sa questa impudica
a rischio va di precipizii immensi,
dove caduta poi l’anima sciocca
d’una in altra follia sempre trabocca.

5.Questa è la Donna ch’importuna e tenta
Adam per far che gusti ésca interdetta,
la meretrice, che ’n prigion tormenta
Giuseppe il giusto, ed a peccar l’alletta.
Questa è colei che Sisara addormenta,
e per tradirlo sol seco il ricetta;
la disleal, che pria lusinga e prega
il malcauto Sansone, e poi lo lega.

6.Questa è la Bersabea, per cui s’inchina
il buon Re d’Israele ad opra indegna.
Questa è di Salomon la concubina,
che follemente idolatrar gl’insegna.
L’infame Circe, la proterva Alcina,
l’Armida, che sviar l’alme s’ingegna;
la Vener, che lontan da la ragione
al Giardin del Piacer conduce Adone.

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7.Infiora il lembo di quel gran Palagio
spazioso Giardin, mirabil Orto.
Miseria mai, né mai v’entrò Disagio,
v’han Delizie ed Amori ozio e diporto.
Colá senza temer fato malvagio
Venere bella il bel fanciullo ha scòrto,
cangiando il Ciel con quel felice loco
che sembra il Cielo, o cede al Ciel di poco.

8.— Non pensar tu, che senza alto disegno —
disse vólto Mercurio al bell’Adone —
fondata abbia Ciprigna entro il suo regno
questa sí vaga e florida magione;
ch’intelletto divin, celeste ingegno
nulla a caso giá mai forma o dispone.
Misterioso il suo edificio tutto
a sembianza de l’Uomo è qui costrutto.

9.Del corpo uman la nobile struttura
in se medesma ha simmetria cotanta,
ch’è regola infallibile e misura
di quanto il Ciel con l’ampio tetto ammanta.
Tal fra gli altri animali il fe’ Natura
che solo siede, e sol dritto si pianta;
e come l’alma eccede ogni altra forma,
cosí d’ogni altro corpo il corpo è norma.

10.Le meraviglie che comprende e serra
non son possenti ad agguagliar parole.
Né nave in onda, né palagio in terra,
né teatro, né tempio è sotto il Sole,
né v’ha machina in pace, ordigno in guerra,
che non tragga il model da questa mole.
Trovano in sí perfetta architettura
il compasso e lo squadro ogni figura.

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11.Miraeoi grande, in cui con piena intera
Giove de’ doni suoi versò l’eccesso;
de la divinitá sembianza vera,
imagin viva, e simulacro espresso.
Quasi in angusta mappa immensa sfera,
fu l’Universo epilogato in esso.
Tien sublime la fronte, alte le ciglia,
sol per mirar quel Ciel, che l’assomiglia.

12.È distinto in tre parti il maggior Mondo,
l’una è de’ sommi Dei, che ’n alto stassi.
De le sfere rotanti hanno il secondo
loco le belle e ben disposte classi.
Ritien l’ultimo sito e piú profondo
la region degli elementi bassi.
E quest’altro minor, c’ha spirti e sensi,
ben di proporzion seco conviensi.

13.Sostien la vece del sovran Motore
nel capo eccelso la virtú che ’ntende.
Stassi a guisa di Sol nel mezo il core,
10 qual per tutto il suo calor distende.
11 ventre ne la sede inferiore
qual corpo sublunar, varia vicende.
Cosí in governo, e nutrimento, e vita
questa casa animata è tripartita.

14.Son cinque corpi il Cielo e gli elementi,
e pur de’ sensi il numero è sí fatto.
L’orbe stellato di bei lumi ardenti
è de la vista un naturai ritratto.
Son poi tra lor conformi e rispondenti
l’udito a l’aere, ed a la terra il tatto.
Ne par che meno in simpatia risponda
l’odorato a la fiamma, il gusto a l’onda.

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IL GIARDINO DEL PIACERE

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15.Potea ben la divina Onnipotenza
con quell’istesso suo benigno zelo
con cui pose ne l’uom tanta eccellenza,
donargli ancora incorrottibil velo;
e di quel puro fior di quinta essenza,
onde non misto è fabricato il Cielo,
come simile al Ciel la forma veste,
di materia comporlo anco celeste.

16.Ma però ch’egli a specolare è nato,
e convien ch’ogni specie in lui riluca,
e ch’ai chiaro intelletto, ond’è dotato,
i fantasmi sensibili conduca,
non devea d’altra tempra esser formato
che de l’elementar, ben che caduca,
per far di quanto intende e quanto sente
prima il senso capace, e poi la mente.

17.Di tutto il bel lavor, che con tant’arte
orna de l’uomo il magistero immenso,
sono i nervi istromenti, onde comparte
lo spirto ai membri il movimento e ’l senso.
Altri molli, altri duri, in ogni parte
ciascuno è sempre al proprio ufficio intenso.
Né può senz’essi alcuno atto esseguire
la facoltá del moto o del sentire.

18.Or tratti avante, e ne vedrai gli effetti,
e dirai ch’a ragion Vener si mosse
a far che ’l loco sacro a’ suoi diletti
de l’essempio del tutto essempio fosse.
Qui tacette Cillenio, e con tai detti
da lo stupore il Giovane riscosse,
che de l’Orto gioioso era in quel punto
giá nel primo sogliare entrato e giunto.

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19.Ne l’Orto in cinque portici diviso
dan cinque porte al peregrin l’entrata,
e da un custode in su la soglia assiso
la porta d’ogni portico è guardata.
S’entra per ogni porta in Paradiso
lá dove un Giardinetto si dilata,
tal che di spazio egual tra sé vicini
contiene un sol Giardin cinque Giardini.

20.Cinque Giardin la dilettosa Reggia
ne le sue cinque torri inclusi abbraccia,
sí che da’ suoi balcon lunge vagheggia
differente un Giardin per ogni faccia.
Confine un muro ogni Giardino ombreggia,
che stende linea in fuor di mille braccia.
Questo in quadro si chiude, e in mezo lassa
porte, onde l’un Giardin ne l’altro passa.

21.Ciascun canton de’ quattro innanzi sporge
una torre angolare in su la punta,
e la quinta tra lor nel mezo sorge
sí ch’oltre il muro la cornice spunta;
e (come dissi) a dritto fil si scorge
torre da torre egualmente disgiunta;
e con giusta misura arte leggiadra,
i’ non so come, ogni Giardino inquadra.

22.De la porta del portico primiero,
ch’è di cristallo e di zaffir contesta,
vivace e nobil giovane è l’Usciero,
di diverso color sparso la vesta.
Un Avoltoio in pugno, ed un Cerviero
si tiene a piè da quella parte e questa:
un specchio ha innanzi, e ne lo scudo incisa
la generosa che nel Sol s’affisa.

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23.Ai duo felici amanti immantenente
fecesi incontro il Giardinier cortese,
e con sembiante affabile e ridente
Adon raccolse, e per la mano il prese.
— Ben venga — disse — il vivo Sole ardente,
ch’a la nostra Reina il core accese.
Dritto fia ben, che degli alberghi nostri
nulla si celi a lui, tutto si mostri.

24.— Dimmi — al Nunzio di Giove Adon converso
dimmi — disse — ti prego, o cara Scorta,
con ranimal di vaghe macchie asperso
che vuol dir questa guardia, e questa porta?
Quel famelico augel, quel vetro terso,
e quel vario vestir che cosa importa?
Suo stranio arnese e sua sembianza ignota
i’ saprei volentier ciò che dinota. —

25.Risponde l’altro: — Le piú degne e prime
parti di tutta la sensibil massa
l’occhio sí come Principe sublime
in gloria eccede, in nobiltá trapassa,
che posto de la rocca in su le cime
ogni membro vulgar sotto si lassa,
e dove il tutto regge e ’l tutto vede
tra la plebe de’ sensi altero siede.

26.Siede eminente, e d’ogni senso è duce,
e certo il gran Fattor tale il compose
ch’è tra quelli il miglior, sí per la luce,
ch’è tra le qualitá piú preziose,
sí per la tanta e tal, ch’ognor produce,
varietá di colorate cose,
sí per lo modo ancor spedito e presto
de l’operazlon ch’intende a questo.

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27.Perché senza intervallo o mutar loco
giunge in instante ogni lontano oggetto,
tal che negli atti suoi si scosta poco
da la perfezzion de l’intelletto;
onde se quel, vie piú che vento o foco
rapido e vago, occhio de l’alma è detto,
questo, ch’è di Natura opra sí bella,
intelletto del corpo anco s’appella.

28.Per l’occhio passa sol, per l’occhio scende
qualunque l’alma iinagine riceve,
e di quant’ella vede e quanto intende
quasi l’obligo tutto a l’occhio deve.
L’occhio, com’ape suol, che coglie e prende
i piú soavi fior leggiadra e lieve,
scegliendo il bel de la beltá che scorge,
a l’interno Censor l’arreca e porge.

29.Da le fonti del cerebro natie,
ond’hanno i nervi origine e radice,
un sol principio per diverse vie
di duo stretti sentier due linee elice.
Quindi del tutto esploratori e spie
traggono gli occhi ogni virtú motrice;
e quindi avien (come per prova è noto)
che move ambo in un punto un stesso moto.

30.Lubrico, e di materia umida e molle
questo membro divin formò Natura,
perché ciascuna impression che folle
possa in sé ritener sincera e pura.
Perché volubil sia, donar gli volle
orbicolare e sferica figura;
oltre che ’n forma tal può meglio assai
franger nel centro e rintuzzare i rai.

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31.Gli spirti unisce a la pupilla, e spira
da la gemina sfera il raggio vivo,
che ’n piramide aguzza, ovunque il gira,
si stende fuor del circolo visivo.
La specie intanto in sé di quel che mira
ritrae, come suol ombra o specchio o rivo.
Cosí ne l’occhio, mentre il guardo vago
esce da la potenzia, entra l’imago.

32.Oh quanto studio, oh quanta industria mise
qui l’eterno Maestro, oh quante accoglie
vene, arterie, membrane, e ’n quante guise
sottili aragne, e dilicate spoglie!
Per quanti obliqui muscoli divise
passano e quinci e quindi e fila e foglie!
Quante corde diverse, e quanti e quali
versano l’occhio ed angoli e canali!

33.Di tuniche e d’umori in vari modi
havvi contesto un lucido volume,
ed uva, e corno, e con piú reti e nodi
vetro insieme congiunge, acqua, ed albume;
che son tutti però servi e custodi
del cristallo, onde sol procede il lume.
Ciascun questo dilende, e questo aiuta,
organo principal de la veduta.

34.L’immortal providenza, acciò ch’esposto
sia meno ai danni de l’offese esterne,
gli ha dato in un ricovero riposto
sotto l’arco del ciglio ime caverne.
Per siepi e propugnacoli v’ha posto
palpebre infaticabili ed eterne,
sol perché ’l batter lor continuo e ratto
dagli umani accidenti il serbi intatto.

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35.Ed a guisa di Sole, acciò ch’aprisse,
emulo a l’altro, al picciol mondo il giorno,
qual corona di raggi, anco v’affisse
sottilissime sete intorno intorno.
Xel curvo globo l’Iride descrisse,
c’ha di smalti celesti un fregio adorno,
e temprati di limpidi zaffiri
vi dipinse nel mezo i sommi giri.

36.Questi de l’alma son balconi e porte,
indici fidi, oracoli veraci,
de la dubbia ragion secure scorte,
e de l’oscura mente accese faci.
Son lingue del pensier pronte ed accorte,
e del muto desir messi loquaci;
geroglifici e libri, ov’altri potè
de’ secreti del cor legger le note.

37.Vivi specchi sereni, onde traspare
quanto il cupo del petto in sé ristringe,
e dove in guise manifeste e chiare
ogni suo affetto l’anima dipinge.
I ridenti piacer, le doglie amare
vi scopre, or d’ira, or di pietá gli tinge;
e (ciò ch’è piú) visibilmente in essi
son del foco d’Amor gl’incendii espressi.

38.E perché ’l primo strai ch’aventi l’arco
di quell’alato Arcier dagli occhi viene,
per questo il primo grado, il primo varco
del Giardino d’Amor la Vista ottiene.
Quinci potrai, giá d’ogni dubbio scarco,
il mistero (cred’io) comprender bene
del ministro gentil che guarda il vallo,
degli augei, de la fera, e del cristallo. —

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39.Ciò detto, per incognito sentiero
lá dove altrui vestigio il suol non serba,
ma serba il prato entro ’l suol grembo intero
intatto il fiore, inviolata l’erba,
colá dentro lo scòrge, ov’al Verziero
fa corona il gran muro alta e superba,
e di pietre sí lucide la tesse,
che tutto il bel Giardin si specchia in esse.

40.Per lungo tratto a guisa di corona
da ciascun fianco il bel Giardin si spande,
dove in ogni stagion Flora e Pomona
guidano danze, e trecciano ghirlande.
11 muro principal che l’imprigiona
tetto ricopre a meraviglia grande,
sostenuto da un ordine leggiadro
d’alte colonne, e compartito in quadro.

41.Da quattro Galerie per quattro grate,
che cancelli han d’òr fin, s’esce negli orti,
dove prendono ognor schiere beate
di Ninfe e di Pastor vari diporti,
e passando in piaceri un’aurea etate
fanno giochi tra lor di tante sorti,
quante suol forse celebrarne a pena
ne le vigilie sue la bella Siena.

42.Forman parte di lor, sedendo sotto
gran tribuna di fronde, un cerchio lieto,
e l’un’a l’altro sussurrando un motto
dentro l’orecchie taciturno e cheto,
de’ suoi chiusi pensier non interrotto
scopre a chi piú gli piace ogni secreto.
Con questa invenzion chieste e concesse
si patteggian d’Amor varie promesse.

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43.Parte in gioco piú strano e piú diverso
dispensano del di l’ore serene.
Nel molle grembo il capo in giú converso
vaga Donzella d’un Garzon si tiene.
Ciascun altro la man, ch’egli a traverso
dopo ’I tergo rivolge, a batter viene;
né solleva ei giá mai la testa china,
se chi battuto l’ha non indovina.

44.Odesi di lontan scoppio di riso,
quando per legge di colui che regna,
di bella Xinfa perditrice il viso,
che ’n foco avampa, col carbon si segna.
Altri piú dolci, e con piú saggio aviso
trar dal trionfo suo spoglie s’ingegna,
che con un bacio in bocca o su la gota
vuol che ’l perduto pegno ella riscota.

43.Chi con le carte effigiate in mano
prova quanto Fortuna in terra possa.
Chi le corna agitate in picciol piano
fa ribalzar de le volubil ossa.
Chi con maglio leggier manda lontano
l’eburnea palla ad otturar la fossa.
Chi poi che dal cannel le sorti ha tratte,
su ’l tavolier le tavole ribatte.

46.Yan le Vergini belle a schiera sparte
scalze il piè, scinte il seno, e sciolte il crine.
Roza incoltura in lor, beltá senz’arte
fa de l’anime altrui maggior rapine.
Parte per l’erba va scherzando, e parte
tra le linfe argentate e cristalline.
Parte coglie viole ed amaranti
per farne dono ai fortunati amanti.

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47.Quella danza tra’ fior, questa incorona
di rose il crine al favorito amico.
Questi canta d’Amor, quegli ragiona
con la sua Donna in un boschetto aprico.
Alcun ve n’ha, che scritto in Hehcona
legge amoroso alcun Romanzo antico,
e i versi espone in guisa tal, che quasi
sotto gli essempi altrui narra i suoi casi

48.Altri nel Cavriuol rapido e snello
al veloce Levrier la lassa allenta.
Altri da’ geti sciolto e dal cappello
contro la Garza il Girifalco aventa.
Altri piú lieve e piú minuto augello
con piú sottile insidia ingannar tenta,
tendendo, acciò che preso e’ vi rimagna,
pania tenace, o dilicata aragna.

49.Xé vi manca però fra que’ diletti
chi nel margo palustre, ove si giace,
col cane assaglia, o con lo strai saetti
Anitra opima, o Foliga loquace;
né chi con nasse e vangaiuole alletti
la Trutta pigra e ’l Carp’ion fugace,
né chi tragga da Tacque a cento a cento
Orate d’oro, e Cefali d’argento.

50.Mentre sotto quel ciel, che Soli o piogge
non teme, arda quantunque, o geli Tanno,
tra tali e tante feste in tante fogge
le brigate piacevoli si stanno;
Adone e Citherea per l’ampie logge
lastricate di gemme, intorno vanno
mirando pur di que’ dipinti chiostri
l’artificio smarrito a’ giorni nostri.

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51.Da tutti quattro i lati in ogni parte
il muro a varie imagini è dipinto.
Ciò che favoleggiar l’antiche carte
degli amori celesti, in esso è finto.
Gl’innamorati Dei mirabil arte
v’ombreggiò sí, che ’l ver da l’ombra è vinto;
e ben che tutti mute abbian le lingue,
il silenzio e ’l parlar vi si distingue.

52.Non son giá corrottibili colori
che le belle figure han colorite.
Misture tali incognite a’ Pittori
da macina mortai non fur mai trite.
Son quinte essenze chimiche, e licori
di gemme a lento foco intenerite,
minerali stillati, le cui tempre
mai non perdon vivezza, e duran sempre.

53.Se sí perfetta grana, azur si fino
avesse alcuno artefice moderno,
ben v’ha tal, che poria col legno e ’l lino
far al secol migliore ingiuria e scherno.
Del secondo miracolo d’Arpino
quanto fora piú chiaro il nome eterno?
dico di lui, che con la man far suole
quel che l’altro facea con le parole.

54.Il Ligustico Apelle, il Paggi vanto
sommo e splendor de la cittá di Giano,
quanto di gloria accrescerebbe, oh quanto
a le fatiche de la nobil mano!
Il mio Castel, che del Conquisto santo
fregia le carte al gran Cantor Toscano,
lasceria forse de’ suoi studi illustri
vie piú salde memorie a mille lustri.

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55.E tu Michel, di Caravaggio onore,
per cui del ver piú bella è la menzogna,
mentre che Creator piú che Pittore
con l’angelica man gli fai vergogna:
e voi Spada e Valesio, il cui valore
fa de’ suoi figli insuperbir Bologna:
e voi, per cui Milan pareggia Urbino,
Morazzone, e Serrano, e Procaccino:

56.e tu, che col pennel vinci gl’intagli,
e i duo vicini sí famosi e noti
di Verona e Cador non pur agguagli,
Palma, ma lor di man la palma scuoti:
e tu Baglion, che con la luce abbagli
de Pombre tue, c’han sensi e spirti e moti,
con assai piú lodate opre e pitture
avreste ond’arricchir l’etá future.

57.E voi Bronzino e Pasignan, per cui
il prodigio tebano Arno rivede,
poi che gemino lume, e quasi dui
novi Soli d’onor v’ammira e crede:
Caraccio a Febo caro, e tu con lui
Reni, onde ’l maggior Reno a l’altro cede,
alcun non temeria che fusser poi
cancellati dagli anni i lavor suoi.

58.A contemplar la loggia e la parete
il Portier del Giardino Adone invita,
di mute poesie, d’istorie liete
imaginata tutta e colorita:
e del fanciul da l’arco e da la rete
i dolci effetti ad un ad un gli addita,
divisandogli a bocca or quelli, or questi
furtivi amori degli Eroi celesti.

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59.— Vedi Giove — dicea — lá ’ve s’aduna
schiera di Verginelle ir con l’armento.
Vedi che scherza, e la superba Luna
crolla del capo, e sfida a giostra il vento.
Tutto candido il pel, la fronte ha bruna,
dove in mezo biancheggia un Sol d’argento.
Giá muggir sembra, e sembra al suo muggito
muggir la valle intorno intorno, e ’l lito.

60.A la Ninfa gentil, che varie appresta
trecce di fiori a le sue trecce d’oro,
s’avicina pian piano, e de la vesta
umil le bacia il vago lembo il Toro.
Ella il vezzeggia, e ’ntesse a l’aspra testa
di catenate rose alto lavoro.
Ed egli inginocchion le terga abbassa,
e da la bella man palpar si lassa.

61.Sovra gli monta la Donzella ardita,
quei prende allor per entro Tacque il corso,
e sí sen porta lei, che sbigottita
volgesi a tergo, e ’nvan chiede soccorso.
Cogliesi tutta, e tutta in sé romita
l’una man stende al corno, e Taltra al dorso.
Su ’l mar piovono i fior nel grembo accolti,
scherzano i biondi crini a l’aura sciolti.

62.Solca la Giovinetta il salso regno
sparsa il volto di neve, il cor di gelo,
quasi stanco nocchiero in fragil legno:
il Tauro è nave, e gli fa vela il velo.
Van guizzando i Delfini, e lieto segno
fanno di festa al gran Rettor del Cielo.
Ridendo Amor superbamente il mira
quasi per scherno, e per le corna il tira.

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63.Le sconsolate e vedove compagne
in atto di pietá stanno in su ’l lido
additando la V’ergine che piagne,
credula (ahi troppo) al predatore infido.
Par che di lor per poggi e per campagne
<< Europa ove ne vai?» risoni il grido.
Par che l’arena intorno, e l’aura, e l’onda*
«Europa ove ne vai?» mesta risponda.

64.Eccol vestito di canute piume
a bella Donna intorno altrove il miri,
qual di Caistro o di Meandro al fiume,
rotar volando in spaziosi giri,
e gorgogliar sovra ’l mortai costume
canori pianti e musici sospiri,
temer del proprio folgore il baleno,
e comporre il suo nido entro il bel seno.

65.Ecco d’Anfitrion prender la forma
e la casta moglier schernir si vede.
Ecco Satiro poi pasce la torma
con corna in testa e con caprigno piede.
Ecco due volte in Aquila trasforma
la spoglia, inteso a due leggiadre prede.
Ecco converso in foco arde e sfavilla.
Ecco in grandine d’òr si strugge e stilla.

66.Vedi lo schernitor de l’aureo strale,
lo Dio che de la luce è tesoriero,
a cui de l’arti mediche non vale
né de l’erbe salubri aver l’impero,
sí che profonda al cor piaga mortale
non porti alfín da lo sprezzato Arciero.
Ecco gl’incende il cor d’ardente face
la bella di Peneo figlia fugace.

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67.Ed ecco, mentre l’amorosa traccia
segue anelante, e giungerla si sforza,
degli occhi amati e de l’amata faccia
repentino rigor la luce ammorza.
Fansi radici i piè, rami le braccia,
imprigiona i bei membri ispida scorza.
Gode egli almen le sue dorate e bionde
chiome fregiar de le giá chiome, or fronde.

68.Volgiti poscia al vecchiarei Saturno,
tutto vóto di sangue, e carco d’anni,
come invaghito d’un bel viso eburno
in forma di destrier la moglie inganni.
Mira quel dal cappello e dal coturno,
c’ha nel coturno e nel cappello i vanni.
Quegli è il Corrier di Giove, e ’n terra scende
ché de la Ninfa Maura Amor l’accende.

69.Pon’ mente lá, dove la Notte ha stese
l’ombre tacite intorno, e ’l mondo imbruna,
come per disfogar sue voglie accese,
le due disciolte trecce accolte in una,
si reca in braccio placida e cortese
al Vago suo l’innamorata Luna,
e fra’ poggi di Lathmo al suo Pastore
addormenta le luci, e sveglia il core.

70.Mira il selvaggio Dio non lunge molto,
ch’uscito fuor d’una spelonca vecchia,
di verdi salci e fresche canne avolto
le corna, i crini, e l’una e l’altra orecchia,
al del leva le luci, e nel bel volto
de la candida Dea s’affisa e specchia,
e par la preghi in sí pietosi modi,
che vi scorgi il pensier, la voce n’odi.

o 2

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71.L’argentata del Ciel luce sovrana
deposta alfin la lusingata Diva,
a le promesse de la bianca lana
dal suo chiaro balcon scender non schiva.
Vedila (or chi dirá che sia Diana?)
col rozo amante in solitaria riva,
e ’n vece di lassú guidar le stelle,
su 1 frondoso Liceo tonder l’agnelle.

72.Poi vedi Endimi’on da l’altro lato
quindi avampar d’un amoroso sdegno,
e col capo e col dito il Nume amato
di rampognar, di minacciar fa segno.
«Perfida» par le dica in vista irato
«perfida, or ché non celi il lume indegno?
Perfida, avara, e disleale amante,
piú volubil nel cor, che nel sembiante *>.

73.De la fiamma gentil che nel mar nacque
ecco poscia arde il mare, arde l’Inferno.
Arder quel Dio si vede in mezo l’acque
che de l’acque e del mar volge il governo.
Arde per la beltá che sí gli piacque
il Tiranno crudel de l’odio eterno.
Strugge ardore amoroso il cor severo
a quel Signor c’ha degli ardori impero.

74.Sí dice l’un, l’altro gli sguardi e l’orme
a le mura superbe intento gira,
e mentre queste ed altre illustri forme,
di cui son tutte effigiate, ammira,
sembra, né sa s’ei vegghia, o pur s’ei dorme,
statua animata, imagine che spira,
anzi piú tosto un’insensata e finta
tra figure spiranti ombra dipinta.

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75.Xon v’è dipinta di Ciprigna e Marte
l’istoria oscena troppo ed impudica,
perché ’l zoppo marito il fece ad arte,
di cui fur quelle volte opra e fatica;
e celar volse le vergogne in parte
del fiero amante e de la bella amica,
per non rinovellar l’onta de’ due,
e ne le gioie lor l’ingiurie sue.

76.Sotto quest’archi, in queste logge ombrose,
che vòlte han le facciate a la verdura,
onde il Giardin le chiome sue frondose
può vagheggiar ne le lucenti mura,
specolando l’imagini amorose
stassene Adon de l’immortal pittura,
mentre colui del Sagittario cieco
va passo passo ragionando seco.

77.Venere allor cosí gli dice: — O cara
delizia del mio cor, dolce diletto,
deh de’ begli occhi tuoi la luce chiara
tanto omai non occupi un finto oggetto,
che de’ suoi raggi usurpatrice avara
parte a me neghi del bramato aspetto.
Lascia ch’io possa almeno il foco ond’ardo
sorbir con gli occhi, e depredar col guardo.

78.Non dee la vista tua fermarsi in cose
che sien di te men peregrine e belle.
Vedi, che fai dolenti e tenebrose
a disagio per te languir le stelle.
Non tener piú le luci al Sole ascose,
le luci emule al Sol, del Sol gemelle.
Se pitture vuoi pur, vero, e non finto
mira te stesso in questo sen dipinto. —

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79.Qui tace, ed ecco per l’erbosa chiostra
da lor non lunge, emulator del prato,
la di se stesso ambiziosa mostra
l’occhiuto augel di piú color fregiato;
e del bel lembo, che s’indora e inostra
di fiori incorrottibili gemmato,
dilettoso spettacolo a chi ’l mira,
un piú vago Giardin dietro si tira.

80.Per ventura in quel punto a punto avenne
ch’a le leggiadre sue spoglie diverse
la bella coppia si rivolse, e tenne
per vaghezza le luci in lui converse.
Ond’egli allor de le sue ricche penne
il superbo gemmaio in giro aperse,
ed allargò, quasi corona altera,
de’ suoi tant’occhi la stellata sfera.

81.— Di quest’augel pomposo e vaneggiante —
disse Venere allor — parla ciascuno.
Dicon ch’ei fu Pastor, che ’n tal sembiante
cangiò la forma, e cosí crede alcuno.
Che la Giovenca de l’infido amante
a guardar con cent’occhi il pose Giuno;
e che quantunque a vigilar accorto,
lu da Mercurio addormentato, e morto.

82.Contan che gli occhi, onde sen giva altero,
ne le piume gli affisse ancor Giunone;
ed è voce vulgar, che ’l suo primiero
nome fuss’Argo, il qual fu poi Pavone.
Or de la cosa io vo’ narrarti il vero,
diverso assai da questa opinione.
Gli umani ingegni quando piú non sanno
favole tali ad inventar si dánno.

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83.Era questi un Garzon superbo e vano,
tutto d’ambiz’ion colmo la mente;
cameriero d’Apollo, e cortigiano,
che l’amò molto, e ’l favori sovente.
Amor, ch’anch’egli è pien d’orgoglio insano,
ferigli il cor con aureo strai pungente,
facendo da’ begli occhi uscir la piaga
d’una donzella mia vezzosa e vaga.

84.Colomba detta fu questa donzella,
la qual veder ancor potrai qui forse,
che fu pur in augel mutata anch’ella
ma per altra cagion questo l’occorse.
Pavon si nominò, Pavon s’appella
costui, ch’amando in folle audacia sorse.
Se ben altro di lui dice la Fama,
Pavon chiamossi, ed or Pavon si chiama.

85.Oltre che di bei drappi e vestimenti
si dilettava assai per sua natura,
per farsi grato a lei ne’ suoi tormenti
s’abbellia, s’arricchia con maggior cura.
Pompe, fogge, livree, fregi, ornamenti
variando ogni dí fuor di misura,
facea vedersi in sontuosa vesta
con gemme intorno, e con piumaggi in testa.

86.Con tuttociò da lei sempre negletto
senza speme languia tra pene e doglie,
perché discorde l’un da l’altro petto
di qualitá contraria avean le voglie.
Tutto era fasto e gloria il Giovinetto
ne’ pensieri, negli atti, e ne le spoglie.
L’altra costumi avea dolci ed umili,
mansueti, piacevoli, e gentili.

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87.La servía, la seguia fuor di speranza
con sospir caldi e con preghiere spesse;
e perché, come pien d’alta arroganza,
pensava di poter quanto volesse,
ragionandole un dí prese baldanza
di farle troppo prodighe promesse.
Tutto l’offri ciò che bramasse al mondo
dal sommo giro al baratro profondo.

88.«Poi che tanto» diss’ella «osi e presumi,
voglio accettar la tua cortese offerta,
e del foco ond’avampi e ti consumi
giovami di veder prova piú certa.
Recami alquanti de’ celesti lumi,
se vuoi pur eh’ad amarti io mi converta.
Se servigio vuoi far, che mi contenti,
de le stelle del Cielo aver convienti.

89.Grande impresa ha ben quel ch’io ti cheggio,
non difficile a te, s’ardir n’avrai,
poi che presso a colui tieni il tuo seggio
che le raccende con gli aurati rai.
Qualora scintillar lassú le veggio
di tanta luce io mi compiaccio assai;
e bramo alcuna in mano aver di loro
sol per saper, se son di foco, o d’oro».

90.O volesse fuggir con questa scusa
quell’assalto importun ch’egli le diede,
o forse, per non esserne delusa,
esperienza far de la sua fede,
o perché pur la femina è sempr’usa
ingorda a desiar ciò ch’ella vede,
ed indiscreta altrui prega e comanda,
e le cose impossibili dimanda:

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91.basta, ch’egli in virtú di tai parole
ogni suo sforzo a cotant’opra accinse.
Aspettò fin che ’l ciel (sí come suole)
di purpureo color l’Alba dipinse;
ed egli uscito in compagnia del Sole,
che la lampa minor sorgendo estinse,
a le luci notturne e mattutine
accostossi per far balte rapine.

92.«Sú mio cor» dicea seco «andianne audaci
l’oro a rubar del bel tesor celeste,
ch’un raggio sol di due terrene faci
vai piú che lo splendor di tutte queste.
Di stender non temiam le man rapaci
ne le gemme ch’ai Ciel fregian la veste,
pur che ’n cambio del furto abbiam poi quelle
de le stelle e del Sol piú chiare stelle».

93.Orbe del lume, e de la scorta prive
fuggian le stelle in varie schiere accolte,
e sí come talor per l’ombre estive
quando l’aria è serena, avien piú volte,
sbigottite, tremanti, e fuggitive
per fretta nel fuggir ne cadean molte.
Pavone allora il suo mantel distese,
ed un groppo nel lembo alfín ne prese.

94.Giove, che vide il forsennato e sciocco
Giovane depredar l’auree fiammelle,
sdegnossi forte, e da grand’ira tocco
gli trasformò repente abito e pelle.
L’orgoglioso cimier divenne un fiocco,
e ne la falda gli restár le stelle.
Febo, che pietá n’ebbe, e l’amò tanto,
per sempre poi gliele stampò nel manto.

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95.Del Ciel l’ambiziosa Iraperadrice
tosto che vide il non piú visto augello,
che ’l pregio quasi toglie a la Fenice,
il volubil suo carro ornò di quello.
Poi le penne gli svelse, e fu inventrice
d’un istromento insieme utile e bello,
ond’a le mense estive han le sue serve
cura d’intepidir l’aura che ferve.

96.Ed io, che soglio ognor qualunque imago
scacciar dagli orti miei difforme e trista,
d’averlo ammesso qui godo e m’appago,
ché grazia il loco e nobiltá n’acquista;
perché Natura in terra augel piú vago
non credo, ch’offerir possa a la vista,
né so cosa trovar fra quanti oggetti
invaghiscano altrui, che piú diletti.

97.Vedilo lá, ch’a’ piú bei fior fa scorno,
e ben d’altra pittura i chiostri onora,
con quanta maestá rotando intorno
di mirabil ghirlanda il palco infiora!
Perché crediam, che si si mostri adorno,
se non per allettar chi l’innamora?
e per aprire a la beltá, che mille
fiamme gli aventa al cor, cento pupille?

98.Or che far dee, dolcissimo ben mio,
gentil petto, alto core, e nobil voglia?
Qual da sí dolce universal desio
anima fia, che si ritragga, o scioglia?
Ma che mirar? ma che curar degg’io
del bel Pavon la ben dipinta spoglia,
s’aprono agli occhi miei le tue bellezze
altri fregi, altre pompe, altre ricchezze?

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99.Cosí ragiona, e seco il trae pian piano
dove a l’altr’uscio il Guardian l’aspetta,
che con bei fasci di fioretti in mano
e varie ampolle di profumi alletta:
Garzon verde vestito: e non lontano,
esplorator de la fiorita erbetta,
scaltro Seguso, e d’odorato acuto,
tutto dovunque va cerca col fiuto.

100.Inestinguibilmente a piè gli bolle
infuso un misto d’odorate cose.
Con sangue di Colombe, e con midolle
di Passere stemprò liquide rose,
e col puro Storace e l’Ambra molle
il Muschio dentro e l’Aloè vi pose.
V’ha di Cirene il Belgioin natio,
il Cito Egizzio, e ’l Mastice di Chio.

101.v ista costui da lunge avea la bella
coppia, ch’agli orti suoi Torme volgea,
onde súbito a sé Zefiro appella,
che ’n curva valle e florida sedea.
— O genitor de la stagion novella —
dice —, vago Forier di Citherea,
che con volo lascivo e lieve fiato,
passeggiando il mio cielo, infiori il prato:

102.non vedi tu la graziosa prole
del gran Motor, che su le stelle regna,
come col vivo suo terreno Sole
le nostre case d’onorar si degna?
Sú sú, studio a raccorla usar si vole,
tu tanta Dea d’accarezzar t’ingegna.
Con la virtú che da’ tuoi semi avranno,
figli la Terra, e pargoleggi Tanno.

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103.Quanto essalan di grato Hibla e Pancaia,
quanto l’Hidaspe di lontan ne spira,
quanto 11’accoglie giunto a la vecchiaia
l’Arabo augel ne l’odorata pira,
tutto qui spargi, acciò che degno appaia
di lei ciò ch’ella sente, e ciò che mira.
Fa’ ch’animate di fiorita messe
godan del tuo favor le selci istesse.

104.lutto per questi piani e questi poggi
prodigo il tuo tesor diffondi e sciogli,
e qual rupe piú sterile fa’ ch’oggi
a’ tuoi fecondi spiriti germogli;
nude, non ch’ella volentier v’alloggi,
ma d’ordirvi ghirlande anco s’invogli:
e i nostri fior da que’ celesti diti
possano meritar d’esser carpiti. —

103.Scote a quel dir le piume a piú colori
tutto di fresco nèttare stillante
de la vezzosa e leggiadretta Clori,
sorto dal seggio suo, l’alato amante:
Clori Ninfa de’ prati e Dea de’ fiori,
de’ lidi Canopei grata abitante.
Spargendo fior da la purpurea stola
sempre il segue costei, dovunque ei vola.

106.La gonna che la copre è tutta ordita
d’un drappo che si cangia ad ora ad ora.
De l’augel di Ciprigna il collo imita
quando ai raggi del Sol si trascolora.
Di simil manto comparir vestita
suole agli occhi d’April la bella Flora,
fai fra Tumide nubi il curvo velo
spande a le prime piogge Iride in cielo.

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107.Volano a prova, e con (lisciolti lembi
scorron del ciel le spaziose strade.
Nubi accoglie quel ciel, gravide i grembi
di fini unguenti e d’ottime rugiade,
onde l’umor soave in puri nembi
da que’ placidi soffi espresso cade.
Cade su l’erba, e fiocca in larga vena
d’aromatici odor pioggia serena.

108.Ciò fatto, ei precursore, ella seguace
l’ali battendo rugiadose e molli,
fan maritate con Iunior ferace
le glebe partorir novi rampolli.
S’allarga l’aria in un seren vivace,
e fioreggiano intorno i campi e i colli.
Vedresti, ovunque vanno, in mille guise
Primavera spiegar le sue divise.

109.Tornano al copular di due stagioni
i secchi dumi con stupor vermigli.
Sbucciano fuor de’ gravidi bottoni
de le madri spinose i lieti figli.
Ricca la terra di celesti doni
par ch’a l’ottavo Ciel si rassomigli.
Par che per vincer l’Arte abbia Natura
applicato ogni studio a la pittura.

110.Qual di splendor sanguigno e qual d’oscuro
tingonsi i fiori in quelle piagge e ’n queste,
qual di fin oro, e qual di latte puro,
qual di dolce ferrugine si veste.
Adone intanto nel secondo muro
con l’altro di beltá Mostro celeste
per angusto sportel passa introdotto,
ch’è di cedro odorato ed incorrotto.

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111.Mercurio incominciò: — Tra quante abbraccia
maggior delizie il cerchio de la Luna
cosa non ha, di cui piú si compiaccia
Venere, o ’l figlio suo, che di quest’una.
Né trov’io che piú vaglia, o che piú faccia
lusingamento, o tenerezza alcuna,
che la soavitá de’ molli odori,
molto possenti ad allettar gli amori.

112.Ostie crudeli e sacrifici infausti,
miseri ’l’ori ed innocenti Agnelle
offre la gente al Ciel, tanto ch’essausti
restan gli armenti ognor di questi e quelle;
e sol per far salir d’empi olocausti
un fumo abominevole a le stelle,
aggiunto il foco a le svenate strozze,
arde agli eterni Dei vittime sozze.

113.E crede stolta ancor, che questi suoi
di sangue vii contaminati altari
aborriti lassú non sien da noi,
che siam pur sí pietosi, anzi sien cari;
com’uopo abbian di pecore e di buoi
cittadini del Ciel beati e chiari,
o le dolcezze lor sempre immortali
deggian cangiar con immondizie tali.

114.Doni i piú preziosi, i piú graditi,
che possan farsi a quegli eccelsi Numi,
di naturai simplicitá conditi
son frutti e fiori, aroma ti e profumi.
Ma sovra quanti mai piú reveriti
rotano i raggi in ciel celesti lumi,
Adon, la bella Dea, con cui tu vai,
di queste offerte si diletta assai.

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115.E per questa cagion qui, dove torna
ella per uso ad albergar talora,
di tutto il bel, che l’Universo adorna,
scelse quanto diletta, e quanto odora.
Or s’è ver, ch’a colei che qui soggiorna,
ed a tutti gli Dei che ’l mondo adora,
soglion tanto piacer gli odori sparsi,
quanto denno dagli uomini pregiarsi?

116.Ben tirato un profíl nel mczo a punto
scolpí del volto uman la man divina,
che quindi con le ciglia ambe è congiunto,
e col labro sovran quinci confina.
E perché di guardarlo abbia l’assunto,
d’osso concavo e curvo armò la spina,
che qual base il sostenta, e tutto il resto
di molli cartilagini è contesto.

117.E perché, se vien pur sinistro caso
una a turar de le finestre sue,
l’altra aperta rimanga, ed abbia il naso
onde i fiati essalar, ne formò due.
E posta in mezo a l’un e l’altro vaso
terminatrice una colonna fue
tenera, ma non fral, sí che per questa
le sue piogge stillar possa la testa.

118.Ma ben che, oltre il decoro, e l’ornamento,
ed oltre ancor ch’ai respirare è buono,
vaglia a purgar del capo ogni escremento,
pur l’odorato è principal suo dono.
E consiste nel moto il sentimento
di due mammelle, che da’ lati sono,
e movon certi muscoli a l’entrata
de’ quali un si ristringe, un si dilata.

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119.Quindi s’apre la porta e lo spiraglio
del senso interno a l’ultime radici,
lá dove a guisa di forato vaglio
una parte sovrasta a le narici.
L’altra è spugnosa, e con sottile intaglio
è destinata a necessari uffici,
che qual pomice o fongo avendo i fóri,
rompe l’aere alterato entro 1 suoi pori.

120.È la spugna del cranio umida, e tale
che d’ogni arida cosa assorbe i fiati,
traendo a sé la qualitá reale
degli oggetti soavi ed odorati.
Passa il caldo vapore, e in alto sale
ai ventricoli suoi per duo meati,
che non si serran mai, tal che con esso
l’aere insieme e lo spirto han sempre ingresso.

121.Ma tra risi e piacer fra por non deggio
di severa dottrina alti sermoni,
però ch’a la tua Dea su i fianchi io veggio
di pungente desio fervidi sproni;
e del mio dir questo fiorito seggio
soggiungerá la prova a le ragioni.
Senti auretta che spira. — In cotal guisa
l’arguto Dio col belLAdon divisa.

122.De’ fioriti viali in lunghi tratti
mirando van le prospettive ombrose,
ne’ cui margini a fil tirati e fatti
miniere di rubini apron le rose.
Stan disposti ne’ quadri i fiori intatti
con leggiadre pitture ed ingegnose,
e di forme diverse e color vari
con mille odori abbagliano le nari.

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123.Trecce di canne, e reti, e gelosie
a le ben larghe alèe tesson le coste,
e dagli erbai dividono le vie
compassate a misura, e ben composte,
le cui fabriche egregie e maestrie
la Dea del loco addita al suo bell’oste,
movendo seco per quel suolo i passi,
fatto a musaico di lucenti sassi.

124.Amor con meraviglie inusitate
semplice qui conserva il suo diletto,
perché pon ne le piante innamorate
ogni perfezzi’on senza difetto;
e con foglie piú spesse e piú odorate,
quando la rosa espone il bel concetto,
o candida, o purpurea, o damaschina,
nascer fa solo il fior senza la spina.

125.Ciò c’han di molle i morbidi Sabei,
gl’indi fecondi o gli Arabi felici,
ciò che produr ne sanno i colli Hiblei,
le piagge Hebalie, o l’Attiche pendici,
quanto mai ne nutriste orti Panchei,
prati d’Himetto, e voi campi Corici,
con stella favorevole e benigna
tutto in quegli orti accumulò Ciprigna.

126.Vi suda il Gatto Ethiope, e ben discosto
lascia di sua virtú traccia per l’aura,
né vi manca per tutto odor composto
di pasta ispana, o di mistura inaura.
Casia, Amaraco, Amomo, Aneto e Costo,
e Nardo e Timo ogni egro cor restaura.
Abrotano, Serpillo ed Helicriso,
e Citiso, e Sisimbro, e Fiordaliso.

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127.Havvi il Báccare rosso, in piaggia aprica
nato a spedir le membra in lieve assalto.
Havvi la Spina Arabica e la Spica
che piú groppi di verghe estolle in alto.
D’Ethiopia il Balan qui si nutrica,
colá di Siria il virtuoso Asfalto.
Spunta mordace il Cinnamomo altrove,
e la Pontica Noce a piè gli piove.

128.Tra i piú degni germogli il Panaceo
le sue foglie salubri implica e mesce;
e ’l Terebinto col Dittamo Ideo,
da cui medico umor distilla ed esce;
e col Libico Giunco il Nabatheo,
e d’india il biondo Calamo vi cresce.
Chi può la serie annoverar di tante,
ignote al nostro ciel, barbare piante?

129.Fumante il sacro Incenso erutta quivi
d’alito peregrin grati vapori.
Scioglie il Balsamo pigro in dolci rivi
i preziosi e nobili sudori.
Stilla in tenere gomme, e ’n pianti vivi
i suoi viscosí e non caduchi umori
Mirra, del belFAdon la madre istessa:
e ’l bel pianto raddoppia, or ch’ei s’appressa.

130.Non potè far che del materno stelo
non compiangesse il figlio il caso acerbo.
— Siati sempre — gli disse — amico il Cielo,
tronco che ’n mezo al cor piantato io serbo.
Le tue chiome non sfrondi orrido gelo,
le tue braccia non spezzi Austro superbo;
e quando ogni altra pianta i fregi perde,
in te verdeggi il fior, fiorisca il verde. —

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131.Sí parla, ed ella la cangiata spoglia
dal sommo crine a la radice estrema
per la memoria de l’antica doglia
tutta crollando allor, palpita e trema.
Com’abbracciar co’ verdi rami il voglia,
se stessa inchina, e par languisca e gema,
e sparsi de’ suoi flebili licori
fa lagrimar gl’innamorati fiori.

132.Ne’ fior ne’ fiori istessi Amor ha loco,
amano il bel Ligustro e l’Amaranto,
e Narciso e Giacinto, Aiace e Croco,
e con la bella Clizia il vago Acanto.
Arde la Rosa di vermiglio foco,
l’odor sospiro, e la rugiada è pianto.
Ride la Calta, e pallida ed essangue
tinta d’amor la V íoletta langue.

133.Ancor non eri, o bell’Adone, estinto,
ancor non eri in novo fior cangiato.
Chi diria che di sangue (oimè) dipinto
dèi di te stesso in breve ornare il prato?
Presago giá, ben che confuso e vinto,
d’un tanto onor, che gli destina il fato,
ciascun compagno tuo t’onora e cede,
t’ingemman tutti il pavimento al piede.

134.Havvi il vago Tulippo, in cui par voglia
quasi in gara con l’Arte entrar Natura.
Qual d’un bel riccio d’or tesse la foglia,
ch’ai broccati di Persia il pregio fura,
qual tinto d’una porpora germoglia
che degli ostri d’Arabia il vanto oscura.
Trapunto ad ago, o pur con spola intesto,
drappo non è, che si pareggi a questo.

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135.Ma piú d’ogni altro ambizioso il Giglio,
qual Re sublime, in maestá sorgea,
e con scorno del bianco e del vermiglio
in alto il gambo insuperbito ergea.
Dolce gli arrise, indi di Mirra al figlio
segnollo a dito, e ’l salutò la Dea.
— Salve — gli disse — o sacra, o regia, o degna
del maggior Gallo, e fortunata insegna.

136.Ti vedrá con stupor l’etá novella
chiara quanto temuta e gloriosa.
Ma quante volte di dorata e bella
diverrai poi purpurea e sanguinosa?
Non sol negli orti miei convien ch’anch’ella
ti ceda omai la mia superba Rosa,
ma fregiato di stelle anco il tuo stelo
merita ben che si traspianti in Cielo. —

137.Non so se v’era ancor la Granadiglia,
ch’a noi poscia mandò l’Indica piaggia,
di Natura portento e meraviglia,
e ceda ogni altra pur stirpe selvaggia.
Al no piú tosto il mio pensier s’appiglia,
né deve altro stimarne anima saggia,
ché star non può, né dee puro e sincero
tra l’ombre il Sol, con le menzogne il vero.

138.Disse alcun, ch’a narrar le glorie e l’opre
del sempiterno lor sommo Fattore
le stelle, onde la Notte il manto copre,
son caratteri d’oro e di splendore.
Or miraeoi maggior la terra scopre,
quasi bei fogli apre le foglie un Fiore,
Fiore, anzi libro, ove Gesú trafitto
con strane note il suo martirio ha scritto.

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139.Benedicati il Cielo e chi lo scrisse,
o sacro Fior, che tanta gloria godi;
e i fiori, in cui de’ Regi i nomi disse
leggersi antica Musa, or piú non lodi.
Chi vide mai, che ’n prato alcun fiorisse
Primavera di spine, e lance, e chiodi?
e che tra mostri al Redentor rubelli
pullulasser co’ fiori i suoi flagelli?

140.In India no, ma ne’ giardin celesti
portasti i primi semi a’ tuoi natali
tu, che del tuo gran Re tragici e mesti
spieghi in picciol teatro i funerali.
Xe l’orto di Giudea (credo) nascesti
da que’ vermigli e tepidi canali,
che gli Olivi irrigaro, ov’egli essangue
angosciose sudò stille di sangue.

141.Ahi qual pennello in te dolce e pietoso
trattò la man del gran Pittore eterno?
e con qual minio vivo e sanguinoso
ogni suo strazio espresse, ed ogni scherno?
di quai fregi mirabili pomposo
al Sol piú caldo, al piú gelato verno
dentro le tue misteriose foglie
spieghi l’altrui salute, e le sue doglie?

142.Qualor bagnato da’ notturni geli
con muta lingua, e taciturna voce,
anzi con liete lagrime riveli
de’ tuoi fieri trofei l’istoria atroce,
e rappresenti ambizioso ai Cieli
l’aspra memoria de l’orribil Croce,
per gran pietate il tuo funesto riso
dá materia di pianto al Paradiso.

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143.Vivi, e cresci felice. Ove tu stai
Sirio non latri, ed Aquilon non strida,
né di profano Agricoltor giá mai
vii piè ti calchi, o falce empia t’incida.
Ma con chiar’onde e con sereni rai
ti nutrisca la terra, il ciel t’arrida.
Favonio ognor con la compagna Clori
de la bell’ombra tua gli odori adori.

144.Te sol l’Aurora in Oriente ammiri,
tue pompe invidii, e tua beltá vagheggi.
In te si specchi, a te s’inchini e giri
stupido il Sol da’ suoi stellanti seggi.
Ma né questi né quella al vanto aspiri
che di luce o color teco gareggi,
ché sol la vista tua può donar loro,
qual non ebber giá mai, porpora ed oro.

143.Lagrimette e sospir calde e vivaci
d’aure in vece ti sieno, e di rugiade.
Angeli sien del Ciel l’Api predaci
che rapiscali I unior che da te cade;
e mille in te stampando ardenti baci
di devota dolcezza, e di pietade,
dal fiel che ti dipinge amaro e grave
traggano a’ nostri affanni il mèl soave.

146.Tutto al venir d’Adon par che ridenti
rivesta il bel Giardin novi colori.
Umili in atto intorno e reverenti
piegan la cima i rami, èrgonla i fiori.
Vezzose l’aure, e lusinghieri i venti
gli applaudon con sussurri adulatori.
Tuttutti a salutarlo ivi son pronti
gli augei cantando, e mormorando i fonti.

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147.Con l’inteme del cor viscere aperte
ogni germe villan fatto civile,
gli fa devoto affettuose offerte
di quanto ha di pregiato e di gentile.
Dovunque il volto gira o il piè converte
presto si trova a corteggiarlo Aprile.
Aranci, e cedri, e mirti, e gelsomini
spiran nobili odori e peregrini.

148.Qui di nobil Pavon superba imago
il crespo bosso in ampio testo ordiva,
che nel giro del lembo altero e vago
ordin di fiori in vece d’occhi apriva.
Quivi il lentisco di terribil Drago
l’effigie ritraea verace e viva,
e l’aura sibilando intorno al mirto
formava il fischio, e gl’infondea Io spirto.

149.Colá l’edra ramosa intesta ad arte
capace tazza al naturai fíngea,
dove il licor de le rugiade sparte
ufficio ancor di nèttare facea.
Con verdi vele altrove e verdi sarte
fabricava il limon nave o galea,
su la cui poppa i vaghi augei cantanti
l’essercizio adempían de’ naviganti.

150.La Gioia lieta e la Delizia ricca,
l’accarezza colei, costei l’accoglie.
La Diligenza i fior dal prato spicca,
l’Industria i piú leggiadri in grembo toglie;
e la Fragranzia i semplici lambicca,
e la Soavitá sparge le foglie;
l’Idolatria tien l’incensiero in mano,
la Superbia n’essala un fumo vano.

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131.La Morbidezza languida e lasciva,
la Politezza dilicata e monda,
la Nobiltá, che d’ogni lezzo è schiva,
la Vanitá, che d’ogni odore abonda,
la Gentilezza affabile e festiva,
la Venustá piacevole e gioconda,
e con l’Ambizion gonfia di vento
il Lusso molle, e 1 Barbaro Ornamento:

132.venner questi Fantasmi, ed a man piene
su ’l bel viso d’Adon spruzzando stille
d’odorifere linfe, entro le vene
gl’infuser sottilissime faville.
Poi con tenaci e tenere catene,
ch’ordite avean di mille fiori e mille,
trasser legati il Giovane e la Diva
lá dove a l’Ozio in grembo Amor dormiva.

153.O fusse degli odor l’alta dolcezza
la quale il trasse a quel beato loco,
o pur che vinto alfin da la stanchezza
schermo cercasse da l’estivo foco,
quivi colui che l’Universo sprezza
e de l’altrui languir si prende gioco,
con un fastel di fior sotto la fronte
crasi addormentato a piè d’un fonte.

134.La pesante faretra e l’arco grave
sostiene un mirto, e ne fa scherzo al vento.
L’ali non move giá, ché ferme l’have
un sonno dolce, a lusingarlo intento.
Ma ’l sonno lieve, e ’I venticel soave
fan con moto talor lascivo e lento
vaneggiar, tremolar, qual onda in fiume,
le belle chiome, e le purpuree piume.

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155.Quando la madre il cattivai ritrova,
ch’ai sonno i lumi inchina, e i vanni piega,
tosto pian pian pria che si svegli o mova,
per l’ali il prende, e con la benda il lega.
Amor si desta, e di campar fa prova,
e si scusa, e lusinga, e piagne e prega.
Non l’ascolta Ciprigna, e se ben scherza,
simulando rigor, stringe la sferza.

156.— Tu piagni — gli dicea — tu crudo e rio,
che di lagrime sol ti pasci e godi?
e pur dianzi dormivi, e pur (cred’io)
sognavo ancor dormendo insidie e frodi!
Tu, che turbi i riposi al dormir mio,
e m’inganni e schernisci in tanti modi,
tu, che ’l sonno interrompi ai mesti amanti,
dormivo forse al mormorar de’ pianti? —

157.Cosi dice, e ’l minaccia, e da’ bei rai
folgora di dispetto un lampo vivo.
Ma ’l suo vezzoso Adon, che non sa mai
il bel volto veder se non giolivo,
corre a placarla, e — Serenate omai
quel sembiante — le dice — irato e schivo.
Vorrò veder, s’ad impetrar son buono
dal vostro sdegno il suo perdono in dono. —

158.Come, veduto il pasto, in un momento
mordace can la rabbia acquetar suole,
o come innanzi al piú sereno vento
si dileguan le nubi, e riede il Sole;
cosí de l’ira ogni furore ha spento
Venere a le dolcissime parole.
— Piace — risponde — a me, poi ch’a te piace,
per maggior guerra mia, dargli la pace.

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159.Arbitro è il cenno tuo del mio consiglio,
quanto puoi ne l’amor, puoi ne lo sdegno.
E che curar degg’io di cieco figlio?
Tu se’ il mio caro e prezioso pegno.
Porta Amor l’arco in man, tu nel bel ciglio;
tende Amor il lacciuol, tu se’ il ritegno;
Amor ha il foco, e tu dái l’ésca; Amore
111’uscí del seno, e tu mi stai nel core.

160.Ma sappi, anima mia, che quale il vedi,
quel ch’or ti fa pietá, povero infante,
volge il mondo sossovra, e sotto i piedi
ha con tutti i Celesti il gran Tonante.
Ben te n’accorgerai, se tu gli credi,
ma non gli creda alcun accorto amante!
Scelerato, fellon. Furia, non Dio,
sí partorito mai non l’avess’io.

161.È cieco sí, non perché giá gli strali
se ferir vuol non veggia ove rivolga,
ch’ascoso il cor nel petto de’ mortali
trovar ben sa, senza che ’l vel si sciolga.
Cieco ei s’infinge sol negli altrui mali,
né gli cal ch’altri pianga, o che si dolga;
e cieco è sol, però ch’accieca altrui
per dar la morte a chi si fida in lui.

162.Fiero accidente e rapido volere,
desio che ’nchina a partorir nel bello.
Scende al cor per la vista, e vuol godere:
cerca il diletto, e sol s’acqueta in quello.
Ma poi che lusingato ha col piacere,
ai piú fidi e devoti è piú rubello.
Gli altri affetti de l’alma, a pena entrato
scaccia, e s’usurpa quel che non gli è dato.

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163.Sotto la sua vittoriosa insegna
piangon mill’alme afflitte i propri torti.
Mansueto e feroce, ama e disdegna,
prega e comanda, or pene, or dá conforti.
Leggi rompe, armi vince, e mentre regna,
piega i saggi egualmente, e sforza i forti.
Risse e paci compone, ordisce inganni,
sa far lieti i dolori, utili i danni.

164.Tenero come ortica, e come cera
è duro, umil fanciullo, e fier Gigante.
11 disprezzo lo placa, e la preghiera
piú terribile il rende, e piú arrogante.
Qual Protheo, ha qualitá varia e leggiera,
in tante forme si trasforma e tante.
Ha l’entrata ne’ cor pronta e spedita,
faticosa e difficile l’uscita.

165.Ha faci, e reti, e lacci, ed arco, e dardi:
quant’ha, tutto è veleno, e tutto è foco.
Mostra viso benigno e dolci sguardi,
or salta, or vola, e non ha stabil loco.
Forma falsi sospir, detti bugiardi,
spesso s’adira e volge in pianto il gioco.
Quel che giova non cura, o quel che lice,
né teme genitor, né genitrice.

166.La spada a Marte e la saetta a Giove
toglie di mano, e sí l’aventa e vibra!
Repentino e furtivo assalti move,
né con scarse misure i colpi libra.
Fa piaghe inevitabili, e lá dove
passa, attosca gli spirti in ogni fibra.
v a per tutto, e per tutto or cala, or poggia,
ma sol ne’ cori, e non altrove alloggia.

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IL GIARDINO DEL PIACERE

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167.Ciò che del mentitor l’arte richiede,
ciò ch’ai furti de l’alme oprar bisogna,
da lo Dio de l’astuzie e de le prede
ne lo studio imparò de la menzogna.
Non conoscer giustizia, e romper fede,
schernir pietate, e non stimar vergogna,
tutto apprese da lui; ué scaltro e destro
il discepoi fu poi men del maestro.

168.Consiglier disleal, guida fallace,
chiunque il segue di tradir si vanta.
Astuto Uccellator, Mago sagace,
1 sensi alletta, e gl’intelletti incanta.
Indiscreto furor, tarlo mordace,
rode la mente, e la ragion ne schianta.
Passion violenta, impeto cieco,
tosto si sazia, e ’l pentimento ha seco.

169.Ceda del mar Tirren la Fera infida
e del fiume d’Egitto il perfid’Angue,
che forma a danni altrui canto omicida,
e piange l’uom, poi che gli ha tratto il sangue.
Questi toglie la vita, e par che rida,
ferisce a morte, e per pietá ne langue.
In gioconda prigion di vita incerto
tiene altrui preso, e mostra l’uscio aperto.

170.Non ebbe il secol mai moderno o prisco
mostro di lui piú sozzo, o piú difforme:
ma perch’altri non fugga il laccio e ’l visco,
non si mostra giá mai ne le sue forme.
Medusa a l’occhio, al guardo è Basilisco,
nel morso a la Tarantola è conforme.
Ha rostro d’Avoltoio orrido e schifo,
man di Nibbio, unghia d’Orso, e piè di Grifo.

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171.Non giova a fargli schermo arte o consiglio,
poi che per vie non conosciute offende.
Pere, ma non fa piaga il crudo artiglio,
o se pur piaga fa, sangue non rende:
se rende sangue pur, non è vermiglio,
ma stillato per gli occhi in pianto scende:
e cosí lascia in disusata guisa,
senza il corpo toccar, l’anima uccisa.

172.Chi non vide giá mai Serpe tra rose,
mèle tra spine, o sotto mèl veleno;
chi vuol veder il ciel di nebbie ombrose
cinto quand’è piú chiaro e piú sereno;
venga a mirar costui, che tiene ascose
le grazie in bocca, e porta il ferro in seno.
Lupo vorace in abito d’agnello,
fera volante, e corridore augello.

173.Lince privo di lume, Argo bendato,
vecchio lattante e pargoletto antico,
ignorante erudito, ignudo armato,
mutolo parlator, ricco mendico.
Dilettevole error, dolor bramato,
ferita cruda di pietoso amico,
pace guerriera, e tempestosa calma:
la sente il core, e non l’intende l’alma.

174.Volontaria follia, piacevol male,
stanco riposo, utilitá nocente,
desperato sperar, morir vitale,
temerario timor, riso dolente,
un vetro duro, un adamante frale,
un’arsura gelata, un gelo ardente,
di discordie concordi Abisso eterno,
Paradiso infernal, celeste Inferno.

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175.Era a gran pena dal mio ventre al Sole
questo seme di vizii uscito fora,
né ’l fianco a sostener la grave mole
de la faretra avea ben fermo ancora,
quando del fiero ingegno, acerba prole,
maturò le perfidie innanzi l’ora;
e se ben l’ali ancor non gli eran nate,
con la malizia avantaggiò retate.

1 76. Iva a la scola, a quella scola, in cui
virtú s’impara, ed onestá s’insegna;
e piangea ne l’andar, come colui
che si fatte dottrine aborre e sdegna.

E coni’è stil de’ coetanei sui,
perché ’l digiuno a ristorar si vegna,
pien di poma portava un picciol cesto,
che di fronde di palma era contesto.

177.Perché non si smarrisse, o smarrit’anco
fusse ai tetti materni almen ridutto,
sospeso gli avev’io su ’l tergo manco
di breve in forma un titolo costrutto.
Eravi affiso un pergamene bianco,
di minio e d’òr delineato tutto,
e scritto v’era di mia propria mano:
“ Questi è di Vener figlio, e di Vulcano ”.

178.Poco tardò, che di trovar gli avenne
la Vigilanza, ch’attendea tra via.
Con l’Importunitá l’Audacia venne,
poi la Consuetudine seguia.
Costoro in guisa tal, ch’ebro divenne,
l’abbeverár del vin de la Follia.
Ebro il tennero a bada, in fin che tutti
del suo panier si divoraro i frutti.

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179.Or dov’altri donzelli in varie guise
de’ primieri elementi apprendean l’arte,
il malvagio scolar giunto s’assise
ne la piú degna ed onorata parte.
Quindi poi sorto, a recitar si mise
la lezzion su le vergate carte,
e quasi pur con indice o puntale,
la tabella scorrea con l’aureo strale.

180.Ma però che non ben del suo dettato
seppe le note espor, con scorni ed onte
ne fu battuto, ond’ei con l’arco aurato
al Senno precettor ruppe la fronte.
Cosí fuggissi, ed a l’albergo usato
non osando tornar, calò dal monte,
e con la turba insana e fanciullesca
venne in desio d’essercitar la pesca.

18 r. E mancandogli corda, agli aurei crini
svelle una ciocca, e lungo fil ne stende,
e questo immerso entro i zaffir marini
in vece d’asta, ad una freccia appende.
Gittan lo stame ancor gli altri Amorini,
perde il tempo ciascuno, e nulla prende.
Solo il mio figlio a strana preda inteso
tragge carco il lacciuol di ricco peso.

182.Guizzava a punto in quella istessa riva,
dove i dolci de’ cor Tiranni e Ladri
intendeano a pescar, Ninfa lasciva,
cui pari altra non ebbe occhi leggiadri.
Mentre perle costei cogliendo giva
dal cavo sen de le cerulee madri,
vide folgoreggiar per entro l’onda
del pargoletto Dio la treccia bionda

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183.A la luce de l’ór, ch’alletta e ’nganna,
s’accosta incauta, e vi s’involve e gira.
Tosto che sente Amor tremar la canna,
con l’aita degli altri a sé la tira.
Presa è la Ninfa, e di dolor s’affanna,
giunge a l’arena, e si dibatte e spira.
A pena a l’aura è fuor de Tacque uscita,
che ’n acquistando il Sol, perde la vita.

184.Tra questi indugi ecco la notte oscura,
ch’imbruna il cielo, e discolora il giorno.
Allor ramingo, e pien d’alta paura
vassi lagnando, e non sa far ritorno.
Ma pur, riconosciuto a la scrittura,
è ricondotto al mio divin soggiorno.
Io per punirlo allor la verga prendo,
ed ei si scusa, e supplica piangendo.

183.«Pietá» diceami «affrena Tira alquanto,
pietá (madre) mercé, perdono, aiuto,
ch’anco sta man, non senza affanno e pianto,
dal severo maestro io fui battuto!
È fors’egli miracolo cotanto,
che sia per poco un fanciullin perduto?
Anco in piú ferma etá (né meraviglia)
perde per sempre Cerere la figlia.

186.Se questa volta il rio flagel deponi,
vo’ che novo da me secreto impari.
Insegnerotti, pur che mi perdoni,
a pescar cori, i quai ti son si cari.
Sappi, che non si fan tai pescagioni
senza l’ésca de l’ór ne’ nostri mari.
Pon’ Toro in cima pur degli ami tuoi,
e se ne scampa alcun, battimi poi.

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187.Nel mar d’Amor ciascun amante pesca
per trarre un cor fugace al suo desio.
Ma però che de’ cori è cibo ed ésca
l’ór, che del vulgo giá s’è fatto Dio,
chi vuol che ’l suo lavor ben gli riesca,
usi quest’arte, che ti scopro or io.
Qualor uom ch’ama a bella preda intende,
se l’ésca non è d’òr, l’amo non prende».

188.Con queste ciance, del suo fallo stolto
campò la pena il lusinghier crudele.
Ma per altra follia non andò molto
ch’a me tornò con gemiti e querele.
Vassene in un querceto ombroso e folto
ne’ giardini di C-nido a coglier mèle,
e seco a depredar gli aurei fialoni
van gli alati fratelli in piú squadroni.

189.E perché ’l dolce de’ licor soavi
Orso o Mosca non è che cotant’ami,
cerca de’ faggi opachi i tronchi cavi,
spia de’ frassini annosi i verdi rami.
E nel pedal d’un’elce ecco duo favi
vede coverti di pungenti essami.
Vulgo d’Api ingegnere accolto in quella
sta sussurrando a fabricar la cella.

190.Chiama i compagni, e lor la cova addita
che la ruvida scorza in sé ricetta.
Corre dentro a ficcar la destra ardita,
ma la ritira poi con maggior fretta.
Folle chi cani attizza, o vespe irrita,
che non si sdegnan mai senza vendetta.
Pecchia d’acuta spina armata il morse,
ond’ei forte gridando a me ricorse.

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19 r. E de la guancia impallidito l’ostro,
di timor, di dolor palpita e langue.

«Madre madre» mi dice «un picciol mostro»
e mi scopre la man tinta di sangue
«un, che quasi non ha dente né rostro,
e sembra d’oro, e punge a guisa d’angue,
minuto animaletto, alata Serpe
hammi il dito trafitto in quella sterpe».

192.lo, che ’l conosco, e so di che fier’aghi
s’armi sovente, ancor che vada ignudo,
mentre che i lumi rugiadosi e vaghi
gli asciugo, e la ferita aspra gli chiudo,
«Che d’anima] sí picciolo t’impiaghi»
rispondo «il pungiglion rigido e crudo,
da pianger, figlio, o da stupir non hai.
E tu fanciullo ancor che piaghe fai?»

193.L’Occasion, ch’è nel fuggir sí presta,
vide un giorno per l’aria ir frettolosa.
Suora minor de la Fortuna è questa,
e tien le chiavi d’ogni ricca cosa.
L’ali ha su ’l tergo, e di vagar non resta
sempre andando e tornando, e mai non posa.
Lungo, diffuso e folto il crine ha, salvo
verso la coppa, ov’è schiomato e calvo.

104.Per poterla fermar, l’occhio e ’l pensiero
molto attento ed accorto aver conviene,
ch’animai non fu mai tanto leggiero,
e vuol gran senno a custodirla bene.
Frutto di suo sudor non gode intero
chi la prende talor né la ritiene.
Egli appostolla, e tante insidie tese,
che mentr’ella volava, alfin la prese.

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195.Ma poi ch’ai laccio suo la giunse e colse,
e la chioma fugace ebbe distretta,
di lentisco una gabbia intesser volse
per tenervela poi chiusa e soggetta.
Oh poco cauto! intanto ella si sciolse:
cosí perde piacer chi tempo aspetta.
Mentr’era intento a que’ pensieri sciocchi,
gli uscí di mano, e gli svaní dagli occhi.

196.Quante da indi in poi colpe diverse
da lui commesse, io qui trapasso e celo?
Taccio quando di neve il sen s’asperse,
e si stracciò di su la fronte il velo.
Lassa, allor per mio mal le luci aperse,
allor fu l’ardor suo misto di gelo!
L’iniqua Gelosia, che ’l tolse in braccio,
gli sbendò gli occhi, e l’attuffò nel ghiaccio.

197.Fuggí tremando assiderato e molle,
tutto stillante il sen pruine e brume,
al cieco albergo, ove lo Sdegno folle
tien di torbida fiamma acceso lume;
e però ch’appressar troppo si volle,
riscaldando le membra, arse le piume.
Quindi tacito e mesto a casa venne
con la fascia squarciata, e senza penne.

198.L’insolenza e l’ardir contar non voglio,
quando sotto le piante Onor si pose,
al cui saggio ammonir crebbe in orgoglio
con ingiurie villane ed oltraggiose.
E perché la Ragion, che ’n alto soglio
siede Reina a giudicar le cose,
citollo al tribunal del suo governo,
ricusando ubbidir, la prese a scherno.

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199.Anzi un regno per sé solo e diviso
a dispetto fondò de la Ragione.
Volse anch’egli il suo Inferno e ’l Paradiso
in disprezzo di Giove e di Plutone.
Ne l’un pose diletto, e gioia, e riso,
ma beate suol far poche persone.
1/altro tutto colmò di fiamme ardenti,
dove i dannati suoi stanno in tormenti.

200.De le piú chiare e piú famose lodi
del mio Folletto hai qualche parte intesa;
ma del gran fascio di cotante frodi
sappi, che quel ch’io narro, il men non pesa.
Di sue prodezze intempestive or odi
un’altra egregia e segnalata impresa.
La misera Speranza un giorno batte,
balia che lo nutrí del proprio latte.

201.Indi da me scacciato, e facciatinto
del color de la porpora e del foco,
c da la Rabbia e dal Furor sospinto,
che l’accompagnan sempre in ciascun loco,
prese a giocar con l’Interesse, e vinto
l’arco perdette e le quadrella in gioco.
Costui, ch’ogni valor spesso gli toglie,
viriselo, e trionfò de le sue spoglie.

202.Ma di nov’arco e di quadrella nove
poi ch’arciera Peltá l’ebbe fornito,
sen gío ventura a ricercare altrove
insopportabilmente insuperbito.
E mentre inteso a far l’usate prove
scorrea l’onda e l’arena, il monte e ’l lito,
tra 1 sepolcri di Menfi infausta sorte
guidollo a caso ad incontrar la Morte.

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203.Quel teschio scarno e nudo di capelli,
quella rete di coste e di giunture,
de le concave occhiaie i vóti anelli,
del naso monco le caverne oscure,
de le fauci sdentate i duo rastelli,
del ventre aperto Torride fessure,
de’ secchi stinchi le spolpate fusa
Amor mirar non seppe a bocca chiusa.

204.Non si seppe tener che non ridesse,
vólto a schernirla, il garruletto audace:
onde pugna crudel tra lor successe,
vibrando ella la falce, egli la face.
Ma si frapose, e quel furor ripresse
componendogli insieme amica Pace;
e quella notte in un medesmo tetto,
abitanti concordi, ebber ricetto.

203.Levati la diman, Tarmi scambiando,
l’un si prese de l’altro arco e quadrella,
ond’adivenne poi, che saettando
féro effetti contrari e questi, e quella.
L’uno uccidendo, e l’altra innamorando
ancor serban quest’uso ed egli, ed ella:
Morte induce ad amar l’alme canute,
Amor tragge a morir la gioventute.

206.Adon bella mia pena, e caro affanno,
luce degli occhi miei, fiamma del core,
guardati pur da questo rio Tiranno,
ch’alfin non se ne trae se non dolore.
Cosí parla Ciprigna, e ’ntanto vanno
fuor del boschetto e trovaro Amore.
Amor si va le lag tergendo,
e con occhio volpin ride piangendo.

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