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187.Nel mar d’Amor ciascun amante pesca
per trarre un cor fugace al suo desio.
Ma però che de’ cori è cibo ed ésca
l’ór, che del vulgo giá s’è fatto Dio,
chi vuol che ’l suo lavor ben gli riesca,
usi quest’arte, che ti scopro or io.
Qualor uom ch’ama a bella preda intende,
se l’ésca non è d’òr, l’amo non prende».

188.Con queste ciance, del suo fallo stolto
campò la pena il lusinghier crudele.
Ma per altra follia non andò molto
ch’a me tornò con gemiti e querele.
Vassene in un querceto ombroso e folto
ne’ giardini di C-nido a coglier mèle,
e seco a depredar gli aurei fialoni
van gli alati fratelli in piú squadroni.

189.E perché ’l dolce de’ licor soavi
Orso o Mosca non è che cotant’ami,
cerca de’ faggi opachi i tronchi cavi,
spia de’ frassini annosi i verdi rami.
E nel pedal d’un’elce ecco duo favi
vede coverti di pungenti essami.
Vulgo d’Api ingegnere accolto in quella
sta sussurrando a fabricar la cella.

190.Chiama i compagni, e lor la cova addita
che la ruvida scorza in sé ricetta.
Corre dentro a ficcar la destra ardita,
ma la ritira poi con maggior fretta.
Folle chi cani attizza, o vespe irrita,
che non si sdegnan mai senza vendetta.
Pecchia d’acuta spina armata il morse,
ond’ei forte gridando a me ricorse.