Viaggio sentimentale di Yorick (Laterza, 1920)/LI. La tentazione
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Traduzione dall'inglese di Ugo Foscolo (1813)
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LI
LA TENTAZIONE
PARIGI
Smontando al mio albergo, mi vidi accolto dal portinaio, il quale mi riferí che una giovine con una scatola di merletti aveva poc’anzi chiesto di me. Né so bene s’ella se ne sia ita — dicevami il portinaio. Mi feci dare la chiave della mia stanza; e, mentr’io vi saliva, e mi mancavano forse dieci gradini, incontrai la fanciulla che tornava bel bello giú per le scale.
Ed era quella gentile fille-de-chambre ch’io aveva accompagnata lungo il quai de Conti: ed ora madame de R ***, inviandola per non so che alla marchandee de modes, ch’era prossima all’hôtel de Modène, le aveva detto che s’informasse s’io fossi partito già da Parigi, e se avessi lasciata una lettera a suo ricapito.
Trovandosi la gentile fille-de-chambre sí presso al mio uscio, risalí a ristarsi nella mia camera tanto ch’io scrivessi un polizzino.
Ed era una placida e bellissima sera degli ultimi giorni di maggio; e le tendine cremisi delle mie finestre (di color simile a quelle del mio letto) erano tutte chiuse; e il sole dall’occidente si rifrangeva attraverso quelle tendine sul volto della gentile fille-de-chambre con tinta sí ardente. Mi pareva ch’ella arrossisse; e quest’idea fe’ arrossire me pure; e quel trovarci lí soli ci ricolorí il volto d’un secondo rossore innanzi che il primo si fosse smarrito.
Avvi una tal qualità di rossore mezzo piacevole, mezzo colpevole; ma la colpa è piú del sangue che dell’intenzione: sgorga impetuoso dal cuore, e la virtú gli tiene dietro, non già a richiamarlo; bensí congiurano da fratelli, affinché i nervi se ne risentano piú mollemente.
Ma né questa descrizione fa al caso, perch’io sul bel principio sentiva nel mio secreto un certo che, che non rispondeva in perfettissima consonanza alle lezioni da me date la sera innanzi alla giovine. E spesi cinque minuti a cercare un polizzino bianco, ed io sapeva di non averne; pigliai la penna, la lasciai: le mie dita tremavano, e mi fu addosso il demonio.
So bene, quant’altri, che quest’avversario, ove tu gli resista, se ne va via; ma io raffronto assai raramente, pel terrore che la battaglia (e poniamo ch’io vinca) non mi lasci qualche ferita; onde antepongo la salute al trionfo ed, in cambio di farlo fuggire, fuggo io le piú volte.
La gentile fille-de-chambre si fe’ piú dappresso allo scrittoio ov’io andava pescando quel polizzino: pigliò la penna ch’io aveva posata: mi si esibí di reggermi il calamaio; e sí docilmente, ch’io quasi accettava: ma non mi arrischiai. — Non so, mia cara — le dissi, — su cosa scrivere.
— Scriva — risposemi ingenuamente — su quello che può.
— Graziosa giovine! scriverò sul tuo labbro: — ma non lo dissi.
— S’io la bacio, son ito! — La pigliai dunque per mano, menandola verso l’uscio, e pregandola che non si dimenticasse della mia lezione di ieri.
— Me ne ricordo, me ne ricordo — rispose: e con tanta vivezza, che si volse a un tratto verso di me, posando le sue mani sovra le mie, ed io le strinsi. E come no, in quello stato? Avrei ben voluto lasciarle andare; ma io le stringeva, e non senza rimorso; ma io tuttavia le stringeva. In due minuti io presentii tutta la battaglia che tornava a prorompermi addosso: le mie ginocchia tremavano, e un brivido andavami per la vita.
Dal luogo ov’io m’era fermato con lei a’ piedi del mio letticciuolo vi correvano appena due braccia: ed io teneva pur sempre le mani della fanciulla, non so dir come. Non l’ho pregata, non ve la trassi; m’era uscito di mente il letto: eppure ci trovammo seduti l’uno accanto all’altro sul letto.
— Appunto, diss’ella: —oggi ho fatto una borsellina al suo scudo; e gliela mostrerò. Si mise la mano nella tasca diritta ch’era dal mio lato, e andava frugando; poi nella tasca mancina. — L’avrò perduta! — Io non ho mai tollerata la mia impazienza con tanta tranquillità; e, quando Dio volle, la borsellina si trovò nella tasca diritta, e la trasse: era di taffettà verde, foderata di raso candido trapuntato, larga appena che vi capisse lo scudo: me la diede in mano: era una bella galanteria, e me la tenni per dieci minuti sovra la palma, il cui rovescio posava sovra il ginocchio della fanciulla; ed io guardava la borsellina, e talvolta chi mi stava da lato.
Uno o due punti s’erano scuciti nelle crespe del mio collarino: la gentile fille-de-chambre trasse, senza aprir bocca, il suo agoraio, infilò un ago, e li ricuciva. Vidi ch’io tornava ad avventurare la gloria della giornata; e di volta in volta che la fanciulla serpeggiava tacitamente con le sue dita intorno al mio collo, io mi sentiva sfrondar sul capo l’alloro di cui la mia fantasia m’aveva già coronato.
Un cinturino delle sue scarpe le s’era allentato, e la fibbia stava per perdersi. — Veda — disse la gentile fille-de-chambre, sollevando il suo piede. Né io poteva in coscienza scusarmi dal rassettarle per gratitudine quella fibbia, ed infilzarle quel cinturino, e sollevarle anche l’altro piede per accertarmi se le fibbie stavano pari; ma cosí all’improvviso, che la gentile fille-de-chambre uscí irremissibilmente d’equilibrio, e allora...