Varenna e Monte di Varenna/Secoli XIX e XX/Anno 1848
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1848
Movimento nel Distretto di Bellano - Lettera del Commissario.
Italia libera - W Pio IX - Morte all’oca bicipite.
Bellano 5 aprile 1848.
«Interesso la tua amicizia a voler procurare che il giornale Il 22 marzo mi sia trasmesso in giornata. Sono già alcuni giorni che non mi provvengono, nè avvisi, nè proclami, nè leggi, mancanza che alla lunga ci obbligherà a costituirci (non ridere) in uno stato indipendente, in una repubblica di Bellano, con nostre leggi separate, sotto il protettorato di Pio IX.
Se per avventura non ti fossero noti i fasti di questi paesi, accennati nel Corriere Mercantile ora politico di Genova del 26 e 27 passato marzo, ed obliati dal diluvio dei nostri giornali, ti dirò che il giorno 19, appena qui giunta la notizia della sollevazione di Milano e Como, abbiamo spiegato una bandiera tricolore al porto lacuale così lunga che riportò il vanto sulle più prolisse bandiere che svolazzino in Lombardia; ci siamo incoccardati, abbiamo costituito un Comitato di salute pubblica, di cui il rispettabile sottoscritto venne eletto presidente; abbiamo attivata la guardia nazionale pel mantenimento dell’interna quiete.
«Tutto ciò nel giorno 19. Primo mio pensiero fu poi di giovarmi della natura topografica di questi luoghi, e delle gallerie che intersecano la strada militare, per disporre la cosa in modo che se i Gniba intendessero tornare alle loro tane per questa buffonescamente detta strada militare, vi trovassero morte e sepolcro ad un punto solo; venne accolta l’idea, ed in un lampo si diede mano all’opera adesso compiuta, per cui t’assicuro che, venendo da Lecco, si possa schiacciare dieci mila uomini prima che giungano a Bellano, e venendo dalla Valtellina ho le mie Termopili ad un punto detto la Caravina dove, senza nostra grave offesa, possiamo schiacciare ben ventimila uomini. Ho creduto sin da principio, e tuttavia credo che un tale spediente abbia meglio giovato alla causa comune che non col mandare questi uomini al piano, dove sarebbero stati sconfitti in campo aperto contro truppe regolari. Non si è però mancato di mandare a Milano una cinquantina di questi montanari, i quali adesso sono a Rezzato oltre Brescia di fronte al nemico; abbiamo avuto dall’arsenale di Lugano alquanti fucili di linea, e di mia mano ne ho armati i detti volontari, fornendoli di munizioni e confortandoli a portarsi da valorosi; parole non infruttuose, perchè oggi mi scrive un mio scrittore d’ufficio, che è fra quelli, con sensi così alti e fieri che mai non avrei sospettato in lui.
Abbiamo anche avute le nostre cerimonie, cioè marce militari per ravvicinare i corpi delle diverse comuni, ed accrescere il loro coraggio coll’idea dell’unione, la benedizione delle bandiere a Bellano, a Colico, a Perledo essendosi volonterosi prestati i Prevosti ec. ec. Tu forse riderai nel sentirmi così bellicoso, e non crederai che tanto siasi fatto qui, ma il represso amor di patria, e l’odio contro gli oppressori, fanno miracoli dovunque, e molto più fra gente svegliata d’ingegno e coraggiosa come questa. Dal 19 al 25 non ho fatto che lavorare di giorno e pensare di notte, e credetti di venire preso da una infiammazione di cervello, tanto mi bolliva.
La Commisaria in un batter d’occhio cambiò aspetto: un cassettone ove teneva le urgentissime e riservatissime d’ufficio, diede luogo alla polvere da mina, da cannone e da fucile, al piombo, alla mitraglia ed alle cartucce, non più alunni a scarabocchiare, ma gendarmi travestiti da cuoco e militari congedati a far cartucce, a fondere palle. Abbasso l’aborrito stemma di casa d’Austria e surrogato da brillante bandiera nazionale, cambiata la Commisaria in Comitato; due cannoni e sentinelle sulla porta.
La civica, cominciata prima a difesa interna, si organizzò in tutte le Comuni anche per respingere le orde nemiche; e senza quelli che sono partiti per Milano e Como, contiamo adesso 800 uomini armati di fucile, divisi per compagnie, e che si vanno addestrando al maneggio delle armi. Abbiamo 18 cannoncini di montagna coi rispettivi artiglieri, che si vanno esercitando sotto la condotta di un bravo ingegnere, il signor Pietro Giglio; e su tutte le alture, ove vennero ammucchiati sassi, sono assegnati i posti a quelli che non hanno fucili, organizzati in corpi di lapidatori che non attendono altro che i Santi Stefani, croati e tedeschi per esercitare le loro funzioni, e per schiacciare cogli scogli volanti gli scogli fuggenti di Radetzky, contro i quali, per buona sorte, non s’infransero i nostri Meneghini.
Mi assecondarono mirabilmente in queste pratiche disposizioni di guerra (ch’io trattai collo stesso diritto che permise a certi barbassori di scrivere di guerra senza aver mai sentito l’odore della polvere) oltre il detto ingegnere, l’altro ingegnere signor Emilio Buzzoni di Bellano; nei comuni il dottor Giuseppe Medici, ed i fratelli Felolo di Colico, il dottor Giacomo Venini di Varenna (quest’ultimo oltre al lavorare giorno e notte si espose con qualche migliaio di lire del proprio).
Tutta la popolazione indistintamente si alzò come un uomo solo al grido di guerra, e tutto è pronto. Ma, oltre agli anzidetti, si prestarono straordinariamente in Bellano i signori avvocati Marco Casanova e Giuseppe Lamperti, la ditta Gavazzi e per essa il suo agente Giuseppe Ronchetti, che unitamente a Bartolomeo Adamoli acquistarono il piombo ed armi della Svizzera, ed altrove, ed il sacerdote don Abramo Valsecchi; a Vendrogno il deputato Antonio Paretti, primo a portar coccarda da Como ove ritornò a battersi, e che tutti questi giorni fu in servizio della patria, scortando a Brescia la polvere comprata in Svizzera; in Esino quel curato don Giacomo Manzoni, a Corenno l’ingegnere Antonio Dell’Era, a Dorio Antonio Bettesa, a Dervio don Giacomo Schenardi, ma non finirei più se volessi accennare i meriti di tutti».
Pubblicato nel N. 22 del giornale «Il 22 Marzo», 16 aprile 1848.
Uno dei più bei nomi di Varenna in quel fortunoso periodo del 1848-49 è senza dubbio quello di Giacomo Venini. Nel museo civico di Como si conserva una lettera autografa di Giuseppe Venini, in data 13 dicembre 1847 diretta al cugino Giacomo nella quale accenna ai grandi avvenimenti che si preparavano.
Difatti egli scrive:
«Questo carnevale avremo alla Scala la Norma. Si trattava in Polizia di togliervi alcuni passi fra gli altri il coro Sgombra farem la Gallia ma il Crivelli si distolse da quest’idea dicendo che se non si fosse cantato sul palco si sarebbe cantato in platea e che di ciò si faceva egli stesso garante. Molte altre barzellette di questo genere si sentono tutti i giorni ma io non saprei ora ricordarmele. Spero in questo carnevale di vederne delle belle, e mi piacerebbe assai che tu pure fossi a Milano come credo che tu vorrai fare».
Nel N. 27 del giornale «Il 22 Marzo» del 22 Aprile 1848 si legge:
«Nel paese di Varenna situato lungo le sponde del Lario non devesi passare sotto silenzio il nome benemerito del cittadino Giacomo Venini. Non appena giuntavi la notizia della solevazione avvenuta in Milano, ogni cura pose nel disarmamento delle guardie di finanza ivi stazionate, non che nella organizzazione della guardia civica. Risvegliato nell’animo dei terrieri il vero amor nazionale, raccolse sotto la bandiera tricolore circa 44 uomini a difesa della patria fornendoli di vitto non che di denari. Non badando a fatiche, a disagi, a sacrifici, consumando ben anco le intiere notti attendendo la notizie patrie che venivano con ogni sollecitudine comunicate per opera sua a comitati di pubblica sicurezza di Menaggio, di Porlezza, Bellagio ecc. Infine lo zelo spiegatovi in tale emergente renderà caro quel nome alla Patria. Sia lode di amore al vero patriota Venini».
Nel mese di giugno del 1848 viene costituita la Legione Tridentina e nel «Ruolo di rivista indicante la presenza al corpo di ciascun individuo del 7 al 27 giugno 1848» vediamo che il numero 1 di ruolo è tenuto da Giuseppe Venini di Varenna ma domiciliato a Tione che in unione a Marchetti Dott. Giacomo e a Danieli Dott. Giovanni è indicato come istitutore della Legione.
Questo Venini già proprietario della vetreria di Varenna si era trasferito in Tione nel Trentino dove aveva impiantato un’altra vetreria. Non appena scoppiati in Lombardia i moti egli si pone alla testa del movimento di redenzione nel Trentino e pone subito sè stesso, i suoi operai ed i suoi averi a disposizione della Patria.
Fra i volontari di Varenna dobbiamo annoverare Vincenzo Marcionni che partecipò alle campagne del 1848 con le truppe del generale Garibaldi.
Dopo i rovesci dell’esercito piemontese, il comitato di pubblica difesa di Milano in data 1° agosto 1848 aveva decretato:
«È proclamata la leva in massa di tutte Guardie Nazionali mobilizzabili, cioè di tutti gli uomini atti a marciare dagli anni 18 ai 40.
La marcia comincierà non più tardi delle ore 24 dopo la pubblicazione del presente decreto nel comune, e sarà inaugurata dal suono a stormo delle campane, annunciatore ad un tempo di festa per un popolo ridestato al sano entusiasmo della guerra nazionale e di sterminio per il barbaro nemico.
Le destinazioni delle guardie nazionali mobilizzate sono regolate come segue: gli abitanti del distretto di Bellano, Introbbio, Canzo, Bellagio, Luino e Maccagno si porteranno a Lecco».
L’ordine della leva in massa giungeva a Varenna e a Perledo il mattino del 2.
Nella giornata del 2, il battaglione del distretto di Bellano si metteva in marcia, al comando del maggiore Bartolomeo Adamoli con bandiera in testa. A Varenna vi erano concentrati gli uomini di Esino, di Perledo e di Varenna.
Il prevosto di Perledo dopo aver tenuto una funzione in Chiesa agli uomini armati, ed aver loro fatto un discorso caldo di patriottismo, postosi alla loro testa li accompagnò fino a Varenna.
Altro magnifico esempio di sacerdote patriota, fu Don Enrico Ruspini, curato di Varenna, egli scese col Santissimo sul piazzale della Chiesa ed impartì la benedizione alle truppe partenti1.
La marcia da Varenna a Lecco benchè accompagnata da un acquazzone, venne eseguita in ordine. A Lecco le truppe pernottarono parte nell’oratorio di Pescarenico, e parte in un palazzo privato lungo la strada da Lecco a Pescarenico. Il mattino successivo venne compiuta l’adunata sul piazzale del teatro, ma stettero tre o quatto ore fuori in attesa di ordini.
Finalmente il battaglione si rimise in marcia, seguito da un carro contenente il pane e della polvere da sparo. A Olginate la colonna sostò per la confezione del rancio, venne anche fatta la paga (tre svanziche a testa per due giorni). Dopo proseguì sino nei pressi di Calco, dove incominciarono ad incontrare dei militari che provenivano da Milano e da Monza e che recavano brutte notizie.
Alla riva di Calco appresero che Milano era capitolata — la triste notizia produsse un effetto pernicioso sulla compagine del battaglione — si ruppero le righe, ed ognuno per la via più breve ritornò al proprio paese.
A Lecco durante la notte il comitato di pubblica sicurezza si era imbarcato con un battello alla volta di Menaggio per salvarsi in Isvizzera.
Questo racconto ci è stato fatto del già nominato Domenico Arrigoni che fece parte del battaglione.
Altro racconto che abbiamo raccolto dalla bocca d’un superstite, il commendatore Mario Manfroni, uomo coltissimo, già capo gabinetto del ministro Genala. Si tratta della fuga dal Trentino del Dott. Francesco Manfroni di Monfort di Rovereto, padre del Mario, uno dei capi del Governo provvisorio del trentino insorto. Avuta notizia dei primi rovesci egli fuggì con la propria carrozza conducendo seco la moglie e quattro teneri figliuoli. Fece tappa a Vestone, Ponte San Pietro e Lecco e giunse a Fiume Latte a domandare ospitalità alla famiglia Venini, essendo egli stato a Tione medico del Giuseppe Venini proprietario della vetreria.
Il Monfroni allora decenne, racconta di aver visto passare da Fiume Latte il battaglione della leva in massa, nel quale erano uomini armati nel modo il più disparato, pochi possedevano il fucile, la maggior parte avevano badili e gravine.
Il dott. Francesco Manfroni avvenuta la sollevazione del Trentino si era recato a Valeggio per domandare al re Carlo Alberto truppe per l’occupazione della sua patria, ma ne ebbe un rifiuto, ed egli amareggiato si ascrisse al partito mazziniano. A questo proposito conviene qui accennare che Carlo Alberto non intendeva estendere il movimento al Trentino, allora appartenente alla Confederazione Germanica, per non crearsi nuovi nemici.
Dopo essere rimasti a Fiume Latte otto giorni ospiti della famiglia Venini, i Manfroni, notte tempo s’inbarcarono per Menaggio e quindi ripararono in Svizzera dove il dott. Francesco trovò una condotta medica a Giornico di Val Leventina. E rimase colà sino all’amnistia.
Con la colonna seconda dei volontari comaschi che operò nel Tirolo eranvi di Varenna Giuseppe Venini, caldo patriota del quale si è già detto che da più anni era stabilito a Tione, dove possedeva una fabbrica di vetrerie, e Pietro Carganico. Questa colonna, che prese anche il nome di Colonna Arcioni, una volta giunta nel Tirolo si uni alla colonna Longhena ed insieme proseguirono per Stenico e per le Sante.
L’ingegnere Venini venne nominato organizzatore capo della Legione Tridentina. Di lui così scrive il colonnello Bonorandi: «a mezzogiorno eravamo a Balino ed invece di trovarvi i corpi che al nostro arrivo dovevano inoltrarsi abbiamo notizie del valoroso e degno di ricordarsi da tutta Italia, il cittadino Venini milanese stanziato a Tione»2.
Nella colonna dei volontari comaschi vi era Pietro Carganico di Varenna, che venne a trovarsi con la compagnia d’avanguardia della colonna che mosse all’attacco degli Austriaci3.
Nei registri del battaglione comasco costituitosi nel 1848 troviamo altri due Venini di Varenna: il caporale Venini Mardocheo, ed il soldato Venini Giorgio. Nello stesso battaglione troviamo ancora i seguenti di Varenna: Carganico Giov. Battista e Pensa Domenico.
Questo battaglione si formò in Como ai primi di luglio; era comandato dal maggiore Cesare Bagolini e prese parte con la divisione Visconti nelle operazioni di guerra con l’esercito piemontese.
Avvenuto il disastro delle truppe piemontesi e lombarde, gli abitanti di Varenna s’illusero di poter ancora arrestare o ritardare il ritorno degli Austriaci, e si dettero a costrurre alcune opere di fortificazione. Gli uomini di Gitana formarono un parapetto al disopra della galleria di Morcate, e vi ammucchiarono sassi e macigni per rotolarli sulla strada in caso di passaggio del nemico. Una barricata venne eretta fuori di Varenna sulla strada di Fiume Latte.
Ma furono tutti sforzi vani: dopo pochi giorni gli Austriaci sbarcarono a Varenna, e una delle loro prime visite fu per il curato il Rev. Ruspini che sapevano di sentimenti liberali, e gl’incussero tale spavento da impazzire poco dopo.
Il 4 agosto transitava da Varenna la guardia nazionale di Colico diretta a Lecco.
In un elenco di spese sostenute dal Comitato di Pubblica Sicurezza di Bellano troviamo le seguenti:
A Vitali Giov. Antonio di Bellano per vino somministrato alla guardia civica di Varenna L. 10,00.
A Ronchetti Baldassare per mezza brenta di vino somministrata alla Guardia Civica di Perledo L. 5:2:6.
Per polvere da sparo somministrata al comune di Perledo L. 77:5:6.
Alla compagnia di Esino per giornate consunte per la sorveglianza delle gallerie (minatori con polvere) L. 51:8.
Nell’elenco dei componenti il battaglione volontari Studenti organizzato in Milano nel 1848 troviamo i seguenti due di Varenna: Pietro Fumeo e Lelio Mornico.
Fra quelli che ebbero noie al ritorno degli Austriaci vi furono i fratelli Lelio e Carlo Mornico, i quali ardenti di amor patrio tenevano nella loro casa riunioni di liberali. Ma uno dei congiurati, l’amministratore della casa, li tradì, ed un giorno approdò a Varenna un vapore con dei soldati austriaci che provenivano da Bellagio. I Mornico appena scorti i soldati, intuirono il pericolo, e senz’altro pensarono a porsi in salvo: uno dei fratelli, Lelio s’inerpicò sui monti, e riuscì a fuggire; ma l’altro Carlo, essendosi indugiato alquanto per nascondere i documenti dentro la peschiera, si trovò nella casa, quando questa era già circondata. Ma ebbe una felice ispirazione, poichè vi erano dei muratori che lavoravano nella villa, egli rapidamente si buttò sulle spalle una giacca di uno di essi ed in testa un loro cappello, e con la pipa in bocca uscì della villa, passando davanti ai militari che la circondavano. E così potè porsi anche lui in salvo4.
I Mornico avvenuta l’amnistia ritornarono a Varenna, ma Carlo che era il notaio, non potè più esercitare la sua professione sino al 1860, perchè continuamente sospettato.
Molti altri fuggirono da Varenna al ritorno degli Austriaci. In una nota della Delegaz. provinciale di Como pubblicata il 26 gennaio 1849, e nella quale si intimava agli assenti senza autorizzazione di far ritorno immediato in patria, troviamo i seguenti nomi di Varenna: Brenta Gerolamo, Nasazzi Carlo, Campioni Carlo, Greppi Luigi, Balbiani Luigi, Balbiani Giuseppe.
Nel 1848 Varenna ospitò il Cav. Dott. Luigi Bellati pretore di Morbegno il quale venne condannato al confine perchè denunciato come sospetto di liberalismo. Vi rimase in punizione fino al 1859 e poi vi prese liberamente domicilio.
Fu per molti anni sindaco di Varenna amato e stimato. Sposò Antonia Venini e fu padre dei due tenenti generali Giuseppe ed Emilio Bellati.
Dalla Gazzetta di Venezia del 5 dicembre 1848 ricaviamo la seguente notizia: Lelio Mornico
«Raccontasi d’un fabbro-ferraio di Varenna al quale venne fatta una perquisizione e trovandosi tra i suoi ferri vecchi una baionetta rosa dalla ruggine, fu preso a fucilate».
Per quante ricerche si siano fatte, non ci è stato possibile appurare la veridicità di questa notizia.
Col ritorno degli Austriaci non si spense nei paesi del lago di Como la fiamma dell’amor di libertà.
Nella valle d’Intelvi il pensiero divenne azione per opera di un valoroso, Andrea Brenta, nativo di Varenna. Nacque costui nell’anno 1811 da umile famiglia di barcaroli, della sua vita giovanile sappiamo poco o nulla: abbiamo soltanto rilevato dai registri della pretura di Bellano che nell’anno 1829 un certo Giuseppe Lavelli di Varenna venne imputato di percosse, insulti e ingiurie a danno di Andrea Brenta, figlio di Giacomo.
Nel 1833 egli si era trasferito ad Argegno con la famiglia per esercitare la professione di oste e fornaio. Nel 1848 alle prime notizie dell’insurrezione di Milano Andrea Brenta corse a Como dove subito si d stinse nelle fazioni per scacciare gli Austriaci dalla città. Seguì quindi, secondo il Venosta5 le armi piemontesi al di là del Mincio, ove rese buoni servizi al commissario di guerra Ferranti, ed espose coraggiosamente la vita per salvare alcuni magazzeni di vettovaglie nella ritirata di Somma Campagna. Dopo i rovesci delle nostre armi lo troviamo con l’esercito piemontese ad Alessandria, si unì quindi a Garibaldi e quando le truppe garibaldine si sciolsero egli emigrò nel Canton Ticino.
Fu allora che prese contatto con Mazzini e ne subì l’ascendente - Inscrittosi nel comitato insurrezionale di quando in quando egli audacemente varcava il confine e si spingeva fino Como per divulgare i proclami del Comitato.
Nella seconda metà del mese di ottobre A. Brenta forse spinto dal Mazzini, con alcuni compagni si aggirava per la valle d’Intelvi allo scopo di sollevarne gli abitanti. Gli Austriaci venuti a conoscenza della cosa, mandarono da Como ad Argegno, in battello, un reparto di truppe che giunse il mattino del 26 ottobre nella valle. Il Brenta mosse incontro agli Austriaci e appostò i suoi uomini parte al di là della chiesa di San Pietro di Dizzasco e parte a Sant’Anna sulla strada che conduce a Schignano.
Col Brenta trovavasi l’avv. Giuseppe Piazzoli che si era posto a capo degli insorti della valle. Quando gli Austriaci furono a portata di tiro, incominciò lo scambio di fucilate; il combattimento fu breve, perchè gli Austriaci credendo che i loro avversari fossero in numero considerevole, e spaventati dalle grida dei valligiani che si approssimavano dai monti circostanti, si ritirarono precipitosamente, e s’imbarcarono nuovamente sullo stesso vapore col quale erano venuti.
Nei giorni seguenti venne da Lugano molta gente guidata da Apice, Arcioni, Federici, Parravicini, Fossati e si avviarono tutti verso il Bisbino e sui monti di Schignano.
Nella Gazzetta di Venezia del 15 novembre 1848 si legge la seguente notizia:
«Nelle prime tre notti d’insurrezione si videro fuochi sul Bisbino, sul San Bernardo (pendici del Bisbino) sui monti di Tremezzina, di Lecco, di Varenna e di Chiavenna».
Abbiamo una lettera di A. Maraini da Lugano diretta ad Enrico Guicciardi a Novara in data del 23 febbraio 1849 nella quale gli dà consigli sulla guerra ed offerta d’armi e da cui si vede che il Guicciardi era allora in corrispondenza col Brenta fuggitivo in Svizzera. Riportiamo questa lettera molto interessante per le notizie che dà sulla situazione del lago:
«Ho ricevuto la sua diretta al Brenta che era già partito per costì e m’accingo a rispondere perchè mi avvedo che il Brenta ha fatto forse troppo facili le cose . . . . . . . . . . . . . . . . .
I vapori, austriaci, s’intende, sono stabiliti come segue: uno a Colico e l’altro a Lecco esclusivamente in servizio militare sempre occupati da un distaccamento di 40 uomini; il Veloce poi fa il viaggio del lago da Como a Colico come si faceva nei tempi andati solamente che ha sempre a bordo un distaccamento di 35 soldati, e nessuno può entrare o sortire senza essere visitato.
Tutti e tre i piroscafi non hanno cannoni a riserva dei piccoli pezzi per gli spari d’uso. A Como vi ha costantemente una guarnigione di 3000 uomini circa quasi tutti Croati, a Lecco 800, a Varenna 100, a Colico 200, a Bellano 200.
In Valtellina vi sono 10 compagnie. L’altra sponda del lago cioè quella di Domaso Menaggio è sempre sguarnita di truppe di linea e non vi compaiono che gendarmi e guardie di finanza a piccoli distaccamenti.
Una discesa sul lago di Como sarà un bel colpo strategico, ma non bisogna tentarla se prima non è attaccata la linea del Po e del Ticino. La popolazione non è disposta a muoversi se non quando vedrà un colpo sicuro e deciso essendosi già abbastanza compromessa...»6.
Il Mazzini nella lettera da Lugano ad Antonio Binda a Torino in data 8 novembre 1848, con l’animo amareggiato dà notizie del fallimento del moto insurrezionale a causa della precipitata e fallita azione in Val d’Intelvi. (Che Mazzini dice incominciata 4 giorni prima del fissato)7.
Gli Austriaci costituito un considerevole corpo di truppe rinnovarono questa volta, con più fortuna, il tentativo di domare la rivolta.
Guidati da alcuni traditori, per nascosti sentieri, essi poterono sorprendere le scarse forze che difendevano il Bisbino, e quindi di là passare in Valle Intelvi, dove si dettero a saccheggiare quelle povere abitazioni. L’osteria del Brenta venne incendiata, così venne tolto alla sua famiglia ogni mezzo di guadagno.
Dalle poche carte relative ai moti di Valle Intelvi, che si conservano nel museo civico di Como rileviamo che Giovanni Venini di Varenna il 27 ottobre elargì alla cassa del Comitato della Valle Intelvi N. 2 pezzi da 20 franchi, 8 quarti di Genova e 40 svanziche, in tutto L. 244.
Il Brenta cercava rifugio in Svizzera, ma il governo federale cedendo alle ingiunzioni di Radetzky gli intimava di abbandonare il territorio della confederazione. Dopo una sequela di dolori, di miserie e di stenti d’ogni maniera, il Brenta saputo che il Piemonte preparava una nuova guerra contro l’Austria, scese dalle montagne dove s’era tenuto celato e si recava a Torino. Là ricevette istruzioni da quel Comitato dell’emigrazione italiana e ripartì per i suoi paesi a suscitarvi l’insurrezione.
Giunse a Como e fu fra i capi della rivolta. Il 29 marzo 1849 mentre nella città si respirava aria di libertà capitò nella piazza di Como un commissario austriaco.
Il Brenta sopraggiunge lo arresta, e gli fa scrivere questo biglietto al Colonnello comandante le truppe di Varese: * Non venga a Como la città essere tutta in arme, il popolo deliberato a battersi, o vincere o morire»8.
Rioccupata Como dagli austriaci ritornò nella sua valle dove radunato un pugno di giovani, una trentina circa e fra questi qualcuno della compagnia Dolzini che si era sciolta in quei giorni, con questi pochi si apparecchiava ad una animosa difesa, quando nelle feste di Pasqua del 1849, sull’albeggiare, i traditori introdussero un nuvolo di croati e di sgherri nell’abituro in cui si teneva celato, i quali lo arrestarono con due suoi fidi. Furono questi Giovanni Battista Vittori di Saltrio e Andrea Andreetti di San Fedele.
Sottoposti ad un consiglio di guerra furono i tre compagni condannati alla fucilazione. Altri quattro dei suoi erano prima del Brenta caduti nelle mani degli austriaci, dei quali due erano stati fucilati, due graziati.
Ecco la notificazione delle condanne:
- ↑ A proposito di preti patriottici ci piace ricordare qui anche l’arciprete di Mandello del quale così parla IL N. 11 del giornale «Il 22 marzo»: La sollevazione sul lago di Como e Lecco ebbe principio a Mandello, ove sventolò, primo fra tutti i paesi, il vessillo tricolore e ciò per opera e coi consigli di quel benemerito arciprete Angelo Roncoroni».
- ↑ A. S. M. Governo Provvisorio. 168 a.
- ↑ Santo Monti. Pagine di storia comense contemporanea. Como. Ostinelli, 1917.
- ↑ Queste notizie vennero desunte da documenti dell’archivio Mornico.
- ↑ Venosta Felice. I martiri della rivoluzione lombarda. Milano, 1861.
- ↑ Lettera di A. Maraini ad Enrico Guicciardi nel giornale La Valtellina 20 giugno 1814.
- ↑ Epistolario di Mazzini Vol. 20 1923 a pag. 22 lettera V. MMDVII.
- ↑ Biblioteca Storica Italiana. Volume VI. - I moti insurrezionali di Lombardia nel 1849. Capolago Tip. Elvetica, 1851. Pag. 91.