Vae Victis/Parte seconda/XIX

XIX

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Parte seconda - XVIII Parte terza

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XIX.


Le feste Natalizie passarono calme e solenni versando il loro balsamo di pace nei cuori feriti delle esiliate.

Ma un giorno ecco arrivare ai profughi belgi rifugiati all’estero l’ordine di ritornare in patria. Era un comando perentorio del Governatore tedesco di Bruxelles a tutti coloro che possedevano case o terreni nel Belgio. Queste proprietà verrebbero confiscate se i possidenti non si presentavano a reclamarle entro un brevissimo termine di tempo.

Luisa entrò nella camera di Chérie colla lettera in mano. Era atterrita e tremante. Chérie ascoltò in silenzio la lettura.

«Ma Chérie! capisci — capisci che ci ordinano di rientrare nel Belgio? Ti rendi conto di ciò che significa questo per noi?»

«Significa — tornare a casa nostra,» mor[p. 254 modifica]morò la fanciulla con gli occhi bassi e un’improvvisa vampata di colore sulle guancie smunte.

«A casa nostra! Ma tu ricordi che cosa era la casa nostra quando la lasciammo?» gridò Luisa cogli occhi fiammeggianti.

«No,» disse Chérie. «Non ricordo.»

«Casa nostra! Senza Claudio!... Senza Florian! e i nostri amici dispersi... straziati.... uccisi... Ah!» gridò Luisa, e le lacrime, così facili a scorrere nell’estrema debolezza fisica, le rigarono il volto smagrito. «Casa nostra! — con Mirella spettrale e silenziosa, e tu — e tu! —» le nere pupille appassionate sfiorarono per un istante la persona di Chérie e la vergogna e il dolore la soffocarono. «Basta, basta! non ne parliamo più. Non ne parliamo più.» E gettò sul fuoco la lettera.

Ma non così potè distruggere il ricordo di quel richiamo. La possibilità di ritornare in patria — possibilità che fino allora era sembrata così remota, così inverosimile — l’idea di ritornare al focolare che avevano creduto di non rivedere mai più, ora occupava la sua mente e quella di Chérie ad esclusione d’ogni altro pensiero.

Quel rude comando di rimpatrio echeggiava nei loro cuori giorno e notte destando lo struggimento e la nostalgia. [p. 255 modifica]

Luisa si trovava ogni notte a sognare quel ritorno: sempre ne scacciava il pensiero con ira e con paura, ma sempre quel pensiero tornava a martellarle il cervello, a stringerle il cuore.

Appena chiusi gli occhi — ecco, si figurava di partire da Maylands, di traversare la gelida e turbolenta Manica, di sbarcare a Ostenda, di passare per Louvain, Tirlemont, Liegi — e arrivare a Bomal!... Traversava correndo le vie del villaggio, giungeva al cancello di casa sua... entrava, saliva le scale, apriva l’uscio della camera di Claudio!... Con una scossa Luisa si destava alla realtà. E un istante dopo ricominciava il sogno.

A poco a poco la nostalgia come un enorme serpe le si attorcigliò al cuore, serrandoglielo, stritolandoglielo nelle sue spire, avvelenando del suo morso virulento ogni ora della sua giornata. La bramosia insostenibile di rivedere la sua patria, di riudire la sua favella la strinse, la straziò; e nulla potè più calmare quella sofferenza. Ripensando la sua patria sanguinante sotto il calcagno dell’invasore, più forte e più struggente si faceva in lei quella tortura che si chiama il male del paese.

Finalmente il senso dell’esilio le divenne intollerabile. Tutto ciò che era inglese la urtava, [p. 256 modifica]la feriva; odiava la vista della gente inglese, il suono delle voci inglesi, il modo di pensare inglese. Nelle tempestose acque della Manica che la separavano dalla sua patria dolorosa sentiva sommerso ed affogato il cuore.

Dieci giorni dopo aver detto a Chérie di non parlarne mai più, Luisa non pensava ad altro, non sognava altro che quel ritorno a casa — alla sua casa devastata, profanata. Ivi voleva rifugiarsi, ivi aspetterebbe Claudio, nella fede, nella speranza e nella preghiera. Si sentirebbe più vicina a lui quando il deserto grigio di quelle nordiche acque non li separasse più.

Là, nel giorno beato della liberazione e della redenzione del Belgio, egli la troverebbe, ferma, fedele, aspettante il suo ritorno. — Ah! certo, certo quel giorno non poteva ormai più essere lontano!

.... Ma ahimè, che direbbe Claudio trovando la sua bambina, muta, inconscia, vagante nell’ombra della vita come un piccolo spettro?... trovando sua sorella Chérie —

Luisa, al pensiero di Chérie si torceva le mani piangendo.

Una notte, torturata dall’insonnia, ella entrò nella camera della cognata. Aveva aperto adagio la porta per non svegliarla; ma Chérie non [p. 257 modifica]dormiva. Stava seduta accanto al fuoco cucendo e canticchiando piano.

Appena vide Luisa balzò in piedi arrossendo, e cercò di nascondere il lavoro che teneva in mano. Ma Luisa lo vide. Era una mantellina bianca da neonato che Chérie stava ricamando. Allora anche le guancie pallide di Luisa si fecero di fiamma.

«Chérie.» balbettò esitante, «ho pensato.... ho pensato... che cosa diresti se tornassimo davvero a casa?»

«Ma sì, Luisa. Torniamo pure,» acconsentì Chérie, colla blanda serenità di chi non ha altra missione che l’attesa.

«Allora partiremo. Partiremo presto,» disse Luisa febbrile. «Arrivate a Bomal, metteremo la casa in ordine; la faremo bella per quelli che torneranno...»

«Sì,» rispose quieta Chérie.

«Poichè torneranno! Torneranno, e ci troveranno là ad aspettarli. Se pure la tempesta è passata sopra di noi,» la voce le si ruppe in un singhiozzo, «tuttavia Mirella guarirà — lo so, lo sento. E tu, tu — oh, Chérie!» cadde a ginocchi accanto alla fanciulla tremante — «tu devi purificarti, redimerti.... sì! anche tu, anche tu devi distruggere questa fonte di vergo[p. 258 modifica]gna, d’odio e d’orrore... te ne prego, te ne supplico...»

Chérie volse a lei il volto grave, inesorabile, ispirato.

«Luisa, nessuna tua parola, nessuna tua preghiera può mutare l’animo mio. Ognuna di noi è arbitra dei proprî destini. Ciò che per te è vergogna, odio, orrore — per me è amore, meraviglia, estasi. Non so spiegarlo; io stessa non lo comprendo. Ma sento che prima di distruggere volontariamente questa vita che porto in me, mi strapperei il cuore — vivo e pulsante — dal petto.»

Luisa tacque, impallidendo.

Ma troppo il pensiero del ritorno in patria le stringeva il cuore.

«Chérie.... ma se torniamo a casa?... Pensa — pensa che cosa dirà la gente che ci ha conosciute?»

Chérie sospirò e non rispose.

«E quando Claudio ritornerà — pensa, Chérie! quando Claudio ritornerà!...»

Chérie abbassò il capo e non rispose.

Luisa le si fece più vicino. «E Florian? Hai tu scordato Florian? Florian che ti ama?... che vuol farti sua sposa?»

Gli occhi di Chérie si soffusero di lacrime, ma ancora tacque. [p. 259 modifica]

La voce di Luisa divenne quasi un grido. «Chérie, ma non ricordi che il padre di questa creatura è l’abbietto soldato ubbriaco che ti prese e ti legò?... Non pensi che tu — belga — sarai la madre di un figlio tedesco?»

.... Ma Chérie non ascoltava nulla, non pensava nulla, non ricordava nulla.

Non udiva che una voce — la voce del figlio non nato — che attendeva da lei il dono della vita.

E quella voce le diceva che nelle superne lande mattutine dove attendono le creature umane che vivranno, non vi sono nè belgi nè tedeschi, nè vinti nè vincitori. Non vi sono che gli innocenti fiori dell’avvenire — le bianche colombe del Signore, le candide agnella di Gesù...