Utente:Mizardellorsa/7
Da Accademia nazionale di agricoltura, Problemi dell’agricoltura italiana. Scenari Possibili vol. VII, Agricoltura biologica. Bologna 2002
Una relazione inquieta
L’agricoltura moderna è creatura della scienza, o, più propriamente, di un articolato novero di scienze: se è vero, infatti, che il suo pilastro fondamentale, la metodologia delle rotazioni, viene fissato, durante una irripetibile stagione di esperienze empiriche, dagli agronomi inglesi del Settecento, senza il supporto di alcuna nozione di fisiologia vegetale e di chimica del suolo, è altrettanto vero che essa inizia il cammino verso i più straordinari successi produttivi quando, all’alba dell’Ottocento, Théodore de Saussure spiega il meccanismo della nutrizione vegetale, un complesso insieme di scambi chimici tra sostanze aeriformi e sostanze in soluzione acquosa, una scoperta che sarà integrata, nei decenni successivi, da quelle sulle esigenze chimiche delle specie agrarie, le conquiste che suggellano Justus Liebig, Henry Gilbert, John Lawes e George Ville, quindi dalla scoperta dell’attività dei microbi, il legato degli studi di Louis Pasteur, che traspone sul terreno della pedologia un emulo russo del biologo francese, Serghiei Nicolaevič Winogradsky. Contesto tecnologico costituente la traduzione applicativa di un compendio molteplice di discipline scientifiche, l’agronomia moderna attinge elementi capitali dalla genetica, dall’entomologia, dall’idraulica, dalla fisica, dall’economia.
Corpus di cognizioni polimorfo, quindi, tanto da poter essere considerato eclettico, l’insieme delle conoscenze in cui si sostanzia l’agronomia moderna dimostra la coerenza di edificio unitario a chi ne consideri la corrispondenza alla finalità essenziale, l’apprestamento degli strumenti per consentire alle società umane lo sfruttamento razionale delle risorse impiegate per produrre alimenti, bevande, fibre vegetali e, in alcune società, forza di traino. Sfruttare razionalmente le risorse naturali per produrre derrate agrarie è la finalità che accomuna l’opera degli agronomi operanti sui sei continenti, cui l’identità degli obiettivi operativi consente di verificare, ad ogni occasione di incontro, una comunanza capace di tradursi nel dialogo più fecondo nonostante le differenze di cultura e la diversità dei percorsi formativi seguiti nelle istituzioni scientifiche di paesi appartenenti a aree di civiltà diversa.
Verificata la coerenza, nella molteplicità dei volti che propone, del contesto scientifico che sostiene l’agricoltura moderna, chi osservi le espressioni dell’agricoltura “biologica”, una locuzione che in termini epistemologici propone la più arbitraria trasposizione lessicale, e voglia identificarne le relazioni con la scienza agronomica nata dalla scoperta di De Saussure e sviluppatasi fino all’applicazione delle ultime acquisizioni della genetica, non può non essere colto, ai primi sondaggi, dal disorientamento: le dottrine, o, per usare un termine più espressivo della realtà, le motivazioni che quanti pratichino forme di cultura “biologica” propongono a spiegazione del proprio operare sono molteplici e contraddittorie, tanto da rendere impossibile, realizzata la loro analisi, l’enucleazione di principi ispiratori che possano compararsi a quelli dell’agronomia “ortodossa”.
Approfondendo l’indagine al di là delle incongruenze tra i messaggi diversi del mondo “biologico” è possibile, peraltro, individuare una serie di istanze che ne accomuna le dottrine, definendo il contesto delle pulsioni che hanno sospinto scuole dalle ispirazioni inconciliabili ad esprimere verso l’agronomia classica atteggiamenti coincidenti. Il contesto policromo delle scuole “biologiche” ha modificato, peraltro, dalle origini, i propri atteggiamenti nei confronti della scienza secondo una successione di opzioni che ha indotte correnti diverse a toccare, nonostante le differenze di ispirazione, tappe analoghe, le tappe che consentono di scrivere una storia univoca delle relazioni tra l’agricoltura “biologica” e la scienza, una storia che è obbligato a ripercorrere lo storico delle conoscenze agrarie che si chieda se le dottrine dell’agricoltura “biologica” costituiscano l’avanguardia dell’agronomia di domani o rappresentino che una devianza del progresso scientifico destinata a decadere, nell’arco di alcuni anni, come tutte le mode dell’abbigliamento, dello spettacolo, dell’opinione.
Sulle orme della scienza
I primi impulsi alla creazione di un’agricoltura alternativa a quella fondata sulle conquiste naturalistiche e tecnologiche dell’Ottocento sono gli stimoli alimentati, nel terzo quarto del Novecento, dall’allarme lanciato da voci della scienza sui pericoli incombenti sugli equilibri naturali del Pianeta ove proseguisse lo sfruttamento indiscriminato delle risorse sospinto dall’economia moderna. Le società umane pretendono una crescita incessante delle attività economiche, ma sviluppo incessante significa impiego sempre più intenso di risorse fisiche limitate, significa, soprattutto, immissione nell’ambiente naturale di quantità crescenti di rifiuti, in specie i composti creati dalla chimica sintetizzando molecole prive di analogie in natura, che alterano i processi fisiologici degli organismi viventi, il cui metabolismo non può reagire alle nuove molecole, che i batteri, demandati, in natura, di ridurre i composti organici agli elementi primitivi, non sono, generalmente, in grado di degradare.
La prima tra le voci della scienza che denunciano i rischi di un impiego della chimica realizzato senza valutarne le conseguenze sugli equilibri naturali è quella della biologa americana Rachel Carson che nel 1962 pubblica un libro la cui tesi è enucleata in un titolo suggestivo, Silent spring, la primavera privata del canto degli uccelli, a conseguenza, secondo Carson, dell’impiego indiscriminato degli insetticidi di sintesi, primo tra tutti il d.d.t., negli anni Sessanta ampiamente diffuso per la straordinaria efficacia contro parassiti esiziali dell’uomo e delle colture, un’efficacia dovuta anche alla stabilità della molecola, che gli agenti naturali non sono in gradi di decomporre che molto lentamente, la ragione della sua facile traslocazione in paesi e in mari lontani migliaia di chilometri dai luoghi di irrorazione.
La seconda voce a proclamare i pericoli dello sviluppo economico fondato sulla manipolazione, da parte dell’uomo, delle materie prime con la loro trasformazione in composti inesistenti in natura è quella di Barry Commoner, ancora un biologo, che nel 1972 pubblica The closing circle, il testo in cui stigmatizza l’incessante ricerca, da parte dell’industria chimica, di sostanze con cui sostituire i composti di impiego tradizionale: i detergenti che eliminano il sapone, la plastica che elimina il legno, le fibre polimeriche che eliminano cotone e lino. Per Commoner la sostituzione non recherebbe alcun vantaggio al consumatore, che ricavava le medesime utilità dalle sostanze tradizionali, ma consentirebbe la moltiplicazione degli utili dei produttori, per il ricercatore americano la sola motivazione della sostituzione.
La pubblicazione dei volumi della Carson e di Commoner apre la stagione di una pubblicistica che in pochi anni occuperà scaffali interi nelle biblioteche scientifiche. Su quegli scaffali possiamo identificare la terza delle voci che ripropongono l’allarme sul pericolo di alterazione degli equilibri naturali, quello che un vocabolo di successo repentino definisce l’allarme “ecologico”, nel Club di Roma, un sodalizio di personalità della scienza, della politica, della cultura, che incarica il prestigioso Massachusetts Institute of Technology di due studi successivi, il primo, The limits of growth, pubblicato nel 1972, il secondo, Toward global equilibrium, pubblicato l’anno successivo. Oltre all’autorevolezza del sodalizio e all’originalità dei procedimenti impiegati dall’istituto americano, le procedure di calcolo fondate sulla dinamica dei sistemi rese possibili dall’impiego dei nuovi calcolatori, contribuisce alla risonanza del messaggio del Club di Roma l’eloquenza della metafora che l’estensore del rapporto, Dennis Meadows propone, nel primo dei due volumi, per illustrare la meccanica dei processi esponenziali, quali la crescita della popolazione o quella della produzione industriale
E’ la metafora della crescita di una pianta acquatica che si riproduca raddoppiando di entità ogni giorno, che si stabilisca in un lago dove si sviluppi, progressivamente, nel tempo. Supponendo che non venga assunta alcuna misura per arrestarne la proliferazione quanto tempo resterà per evitare la completa occlusione del lago, chiede lo studioso americano ai lettori, quando la pianta avrà occupato metà della sua superficie? I lettori che abbiano colto la dinamica del fenomeno saranno sorpresi di constatare che non mancherà che un giorno solo. Identificando nella proliferazione della pianta letale l’insieme dei processi che, innescati dall’uomo, stanno alterando gli equilibri del Pianeta, la metafora esprime con efficacia la previsione che quando quei processi avranno prodotto, incontrollati, le proprie alterazioni, superando la soglia delle possibilità del controllo, l’umanità potrebbe non disporre più del tempo per ristabilire una convivenza con le risorse naturali capace di perdurare nel tempo.
Si possono aggiungere all’elenco dei testi che dimostrano che i rapporti tra l’uomo e le risorse naturali hanno assunto i caratteri di uno sfruttamento tanto radicale da minacciare la persistenza delle stesse risorse per le generazioni future gli studi di David Pimentel sul bilancio energetico delle principali colture agrarie. Fondata sull’impiego del petrolio per azionare trattori di potenza sempre maggiore, e per la produzione, dopo la conversione in energia elettrica, dei fertilizzanti nitrici, la moderna tecnologia di coltivazione produce, su ogni unità di superficie, una quantità di calorie ingente, ma ampiamente inferiore a quella impiegata nelle pratiche colturali. Il bilancio capovolge i rapporti tra calorie impiegate e calorie prodotte dalle pratiche agrarie tradizionali, che impiegavano un’entità di energia, erogata dall’uomo e dagli animali, largamente inferiore all’energia alimentare che producevano.
Contro la scienza della tradizione, per una scienza nuova
L’allarme per l’eventualità di un’alterazione irreversibile delle risorse da cui dipende l’alimentazione delle società umane impone ai cultori di agronomia una revisione profonda delle modalità del proprio impegno. L’umanità è uscita dal secondo conflitto mondiale nell’angustia di gravi insufficienze delle produzioni agricole: registravano carenze di produzione i paesi d’Europa, di cui la guerra aveva disarticolato l’apparato produttivo, carenze altrettanto gravi affiggevano i paesi asiatici e africani, di cui il riassetto del quadro geopolitica seguito al conflitto assicurava l’indipendenza, al cui avvento coincideva un incontenibile aumento dei tassi di crescita demografica. All’incremento demografico non corrispondeva l’accrescimento della produttività di sistemi agricoli condizionati dagli antichi obiettivi coloniali, orientati, cioè, anziché al soddisfacimento dei bisogni locali, alla produzione di derrate destinate a soddisfare bisogni europei.
Di fronte alla penuria l’imperativo che ha guidato l’azione degli agronomi operanti a tutte le latitudini è stato l’accrescimento delle produzioni, e l’imperativo di aumentare le produzioni ha indotto a trascurare gli effetti negativi dell’impiego di fertilizzanti, antiparassitari e diserbanti di sintesi, effetti che, ancora poco noti, negli anni di introduzione dei nuovi strumenti chimici apparivano secondari rispetto agli straordinari risultati produttivi che il loro impiego rendeva possibili dovunque venissero introdotti. Alla constatazione dei danni provocati dall’impiego delle molecole antiparassitarie si unisce quella dei rischi delle nuove creature della meccanica, la cui potenza crescente impone dimensioni sempre maggiori degli appezzamenti, quindi l’eliminazione di siepi, fossi e capezzagne, con il rischio di favorire, sui campi ricavati nelle pendici, l’erosione del suolo da parte delle acque, nelle grandi pianure quella provocata dal vento.
Il nuovo imperativo di convertire i criteri di impiego dei mezzi chimici e meccanici produce un notevole disorientamento tra i cultori delle conoscenze agronomiche, i più lungimiranti tra i quali percepiscono, fino dalla metà degli anni Settanta, l’urgenza di riorientare le procedure agronomiche secondo le coordinate di una nuova filosofia produttiva, di avviare, cioè, una nuova rivoluzione agraria, la terza della storia moderna, una rivoluzione che conservi l’obiettivo di aumentare le produzioni, irrinunciabile di fronte ai tassi di incremento della popolazione mondiale, ma che a quell’obiettivo saldi il proposito di tutelare l’integrità delle risorse naturali, perseguendolo nel rispetto dell’imperativo di lasciare in eredità alle generazioni future risorse agrarie ancora vitali, capaci perciò di soddisfarne i bisogni.
E’ negli anni della difficile conversione dei cardini concettuali dell’agronomia che si verifica la divaricazione tra la scienza ortodossa e i movimenti che propugnano metodologie agricole fondate sul rifiuto radicale dei mezzi chimici, quindi della tradizione agronomica che li ha adottati. Mentre, cioè, una schiera crescente di cultori di agronomia e delle discipline complementari operanti nelle università e nei centri sperimentali percepisce l’esigenza di approfondire gli studi chimici, biologici, fisiologici, per verificare quali composti chimici possano risultare dannosi ai sistemi naturali, quali nuovi composti, dagli effetti meno nocivi, si possano introdurre, quali metodologie di impiego adottare per ridurre gli effetti negativi, nasce un movimento, che annovera la maggioranza dei proseliti tra giovani estranei all’ambiente agricolo e privi di conoscenze agronomiche, che pretende il bando incondizionato di tutti gli strumenti della chimica, la fondazione di una nuova agricoltura che conti sull’impiego esclusivo di mezzi naturali, quell’agricoltura che usando un anodino vocabolo del lessico scientifico con un palese intento polemico i fautori definiscono “biologica”.
Da propugnatori di un’agricoltura che rinunci ai mezzi della chimica e riduca le dimensioni dei mezzi meccanici, i fautori del nuovo credo agronomico diverranno, nello spazio di pochi anni, non meno intransigenti antagonisti dell’impiego delle sementi costituite dalla genetica, prima, più confusamente, di quelle ottenute mediante le metodologie tradizionali di incrocio e selezione, poi, più categoricamente, di quelle ottenute mediante i procedimenti della microbiologia molecolare, quindi con l’intervento diretto sul patrimonio genetico, un intervento in cui i cultori dell’agricoltura alternativa denunceranno il pericolo più grave per l’integrità fisica dell’umanità. Mentre, peraltro, le prove dei danni dell’impiego della chimica in agricoltura sono palesi, riconosciute dagli studiosi di qualunque ispirazione, e la scienza agronomica è impegnata a contenerne gli effetti nocivi, seppure nella consapevolezza che la società umana richiede una quantità di derrate alimentare che sarebbe impensabile produrre senza sussidi chimici, a provare i pericoli delle sementi selezionate dalla nuova genetica gli oppositori continueranno ad immaginare gli argomenti più fantasiosi, privi del supporto di qualunque prova sperimentale.
Dalla constatazione che i mezzi chimici e meccanici impiegati, con intensità crescente, dalla conclusione del secondo conflitto mondiale per accrescere le produzioni, determinano effetti dannosi sugli equilibri naturali, l’emergere, quindi, di due atteggiamenti contrapposti: da una parte il proposito di approfondire gli studi chimici e biologici affinché l’impiego agrario dei mezzi della chimica si realizzi senza produrre conseguenze nocive sull’ambiente, dall’altro la pretesa di proscrivere, con un bando categorico e incondizionato, l’impiego di qualunque molecola di sintesi in qualsiasi fase della produzione agricola. Mentre, peraltro, l’accoglimento degli imperativi di tutela delle risorse naturali non costituisce, per il contesto delle scienze agrarie, che l’adeguamento delle conoscenze tradizionali ad istanze nuove, quindi l’aggiornamento di una concezione della produzione agricola che dalle origini, nel Settecento, non ha cessato di rinnovare, di fronte a stimoli e scoperte nuove, il proprio ordito, il rigetto incondizionato della chimica impone a chi lo propugna l’onere di giustificare il rifiuto con argomenti di dignità scientifica, contrapponendo alla scienza agronomica ortodossa una dottrina alternativa. Per avanzare le proprie pretese come istanze scientifiche, e non come mere suggestioni d’opinione, il nuovo movimento è costretto a cimentarsi sul terreno teorico, un’esigenza che si impegna a soddisfare, nel corso degli anni Settanta, un novero numeroso di maestri, le cui ipotesi, in radicale dissonanza, rifrangono il movimento per un’agricoltura alternativa in una pluralità di scuole, che la passione dispiegata nel sostegno della propria dottrina, non di rado fondata su argomenti metascientifici, rende più proprio definire con il termine di sette.
Saggezza orientale e abbandono alle forze naturali
Presenta una singolare sineresi di rigetto della scienza sperimentale e di impiego dei canoni della più rigorosa sperimentazione agronomica, in una commistione singolare di scienza e di filosofia, la dottrina di Masanobu Fukuoka, il ricercatore giapponese che dopo avere operato in un laboratorio di fitopatologia a fianco di un maestro famoso decide, a seguito di un mancamento-illuminazione, di abbandonare la scienza per tornare a coltivare il podere del padre, sul quale definirà, in lunghi anni di ricerca, un sistema di coltura che riduce, fino quasi ad eliminarli, gli interventi agronomici, aratura, zappature, sarchiature, ed esclude completamente quelli chimici, il sistema che propone, nel 1975, in un volumetto destinato a suscitare interesse nei sei continenti, nella traduzione italiana La rivoluzione dello stelo di paglia.
I mancamenti-illuminazione hanno svolto un ruolo ingente nella storia spirituale e politica dell’umanità: fu a seguito di un oscuramento della presenza cosciente, e di un’escursione nel mondo soprasensibile, che Gauthama Siddartha concepì la dottrina di ascesi che avrebbe orientato la storia spirituale delle due nazioni più popolose del Globo, fu dopo un evento similare che Maometto concepì la religione la cui carica guerriera avrebbe modifica l’assetto geopolitico di due continenti, che René Descartes intuì i principi della filosofia che avrebbe segnato, con la nascita del pensiero moderno, il fato dell’Occidente.
Per prossimità geografica, nella storia delle estasi decisive per la storia umana quella di Fukuoka fu più vicina a quella di Budda che a quelle degli altri grandi del pensiero e della mistica. Riavutosi dall’obnubilamento, il ricercatore giapponese comprende di avere acquisito una verità capitale: l’uomo sarebbe incapace di comprendere la natura, la scienza sperimentale, una forma di conoscenza tipicamente occidentale, adottata dalla cultura asiatica nonostante l’incompatibilità con la propria tradizione filosofica, non offrirebbe quella chiave di comprensione del mondo naturale che pretenderebbe di assicurare, le pratiche tecnologiche derivate, per sfruttare le risorse naturali, dalla scienza occidentale, costituirebbero violazione imperdonabile dell’ordine del Cosmo. Tornato al podere paterno “ai piedi della montagna” si dedica alla ricerca di metodi di coltivazione in cui siano i vegetali e gli animali a produrre, con il grado minore di interferenze umane, le derrate necessarie ai bisogni alimentari.
Mosso da un’intuizione filosofica, ma dotato del bagaglio della più efficiente sperimentazione agronomica, Fukuoka congegna un insieme di pratiche di sorprendente efficacia e di evidente produttività, pratiche disegnate in modo precipuo per le specie coltivate e per le condizioni climatiche dell’ambiente giapponese, quindi di difficilissima estrapolazione in ambienti diversi, ove a realizzarne la traduzione non siano sperimentatori dotati delle stesse capacità tecniche del maestro, che, rigettando la scienza europea, ha conservato le capacità sperimentali acquisite in un’istituzione di sperimentazione agraria di inequivocabile matrice occidentale.
Rilevata l’originalità delle procedure agronomiche del saggio nipponico non si può non notare che le ragioni scientifiche che Fukuoka adduce a spiegarne l’efficacia, ragioni che enuncia in coerenza alle proprie intuizioni filosofiche, non sono in grado di sostenere il confronto con concetti di cui la storia dell’agricoltura ha fornito la dimostrazione inoppugnabile. Il maestro orientale proclama, infatti, la possibilità di realizzare il massimo di produttività con le interferenze più modeste con le forze della natura, e addita nella lavorazione del suolo, in specie nell’aratura, l’esempio degli interventi umani superflui, ove non dannosi, un’asserzione in contrasto con un postulato essenziale della storia dell’agricoltura e della stessa civiltà, la constatazione che l’introduzione dell’agricoltura, che comporta una manipolazione delle risorse drasticamente più radicale della raccolta dei frutti spontanei, fu realizzata dall’uomo, in età neolitica, al fine, pienamente conseguito, di ricavare dalla terra una quantità di alimenti maggiore di quella che essa offriva spontaneamente, e che la lavorazione del suolo, in Medio Oriente l’aratura, costituì la prima, e fondamentale, di tutte le pratiche agricole, lo strumento cardinale per ripristinare la fecondità dei campi esaurita dopo una serie di raccolti.
L’azienda agricola organismo biologico
Nel novero dei maestri impegnati a offrire le coordinate conoscitive per apprestare pratiche agronomiche che possano prescindere dagli strumenti della chimica deve essere incluso un agronomo italiano, Francesco Garofalo, un passato, anch’egli, di ricercatore nelle istituzioni della sperimentazione agraria, quindi il ripudio dell’agricoltura tradizionale e la conversione ad un’agronomia alternativa, la sperimentazione di nuovi metodi e un’appassionata opera di proselitismo, svolta pubblicando la rivista Suolo e salute e costituendo, con la medesima denominazione, il primo movimento italiano per un’agricoltura senza fertilizzanti e senza antiparassitari di sintesi.
La dottrina agronomica di Garofalo costituisce, sostanzialmente, la riproposizione delle idee che Alfonso Draghetti, direttore della Stazione agraria di Modena tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, ha raccolto in un volume che può essere considerato manifesto postumo della rivoluzione agraria moderna, La fisiologia dell’azienda agraria. Nata in Inghilterra, a metà del Seicento, all’affermarsi di una pratica che stabiliva legami indissolubili tra le coltivazioni e gli allevamenti attraverso le colture foraggere, demandate della duplice funzione di migliorare la fertilità dei campi grazie alle peculiari proprietà biologiche e attraverso la disponibilità di letame che assicuravano come sottoprodotto delle derrate zootecniche, la nuova agricoltura fondata su quell’integrazione consentiva un incremento dei rendimenti cerealicoli tale da moltiplicare la produzione di frumento e orzo nonostante i due cereali fossero seminati su superfici minori, assicurava, mediante l’abbondanza di foraggi durante l’intero arco dell’anno, la produzione di derrate animali che l’azienda poteva dirigere ai nuovi mercati urbani, in Inghilterra famelici di burro, di carne di agnello e di maiale.
Sospinta, in Inghilterra, dal contributo di decine di agronomi, ciascuno impegnato a confrontare i risultati di cento esperienze empiriche, l’agricoltura delle rotazioni trovava il proprio alfiere in Arthur Young, protagonista, nell’ultimo scorcio del Settecento, di un’irrefrenabile serie di viaggi tra le contee del Paese, nelle quali verificava la sostituzione delle nuove pratiche a quelle della tradizione. Animato dallo spirito empirico tipico della cultura britannica, Young era incapace di ricavare dalla miriade di esperienze registrate nelle proprie relazioni una teoria organica delle rotazioni, la meta che perseguiva il suo continuatore tedesco, Albrecht Thaer, che, animato dalla venerazione per il maestro britannico, ma in possesso delle attitudini peculiari della cultura germanica, sistematica e teorizzante, pubblicava, tra il 1809 e il 1812, i quattro libri delle Grundsätze der rationellen Landwirtschaft, il capolavoro teorico con cui la scienza agronomica identificava gli obiettivi della rivoluzione agraria moderna, ne enucleava i principi, ne analizzava le procedure.
Thaer formulava la propria dottrina prima che le conoscenze chimiche permettessero di misurare gli scambi di sostanze fertilizzanti tra la stalla e i campi, le asportazioni delle colture cerealicole, gli apporti di quelle foraggere: maturate, nella prima metà dell’Ottocento, quelle conoscenze, affrontavano l’esame quantitativo di quegli scambi i dioscuri della sperimentazione inglese negli anni del primato economico, manifatturiero e scientifico della Gran Bretagna, Henry Gilbert e John Lawes, i protagonisti dell’epopea sperimentale della Stazione di Rothamsted, sede del più famoso piano di indagini sulle rotazioni della storia dell’agronomia.
Dopo avere protratto per un cinquantennio, sui medesimi appezzamenti, le stesse colture in successione continua e, su altri appezzamenti, le medesime colture in rotazione, i due agronomi inglesi potevano definire con misure rigorose, in un volume pubblicato nel 1895, le quantità di ogni elemento chimico asportate da ciascuna coltura per ogni diverso livello di produzione, quelle degli elementi chimici restituiti al suolo mediante il letame, componendo, per ogni rotazione, la sommatoria algebrica degli apporti chimici effettuati mediante i fertilizzanti, dei contributi positivi dovuti alla fissazione di azoto da parte delle leguminose, delle asportazioni operate dalle colture, delle sottrazioni prodotte dalle piogge, dell’asportazione che consegue la vendita delle derrate. Nel volume che enucleava i risultati di cinquant’anni di ricerche, i dioscuri della sperimentazione britannica enucleavano il significato del proprio lavoro suggerendo di considerare l’azienda agricola autentico organismo vivente, che si alimenta delle risorse del terreno e degli apporti fertilizzanti, rinnovando la fertilità da cui ne dipende la vitalità nel processo circolare tra le colture foraggere, la stalla, la concimaia, le colture cerealicole.
E’ l’idea dell’azienda-organismo, che Alfonso Draghetti fa propria a metà del Novecento, quando si manifestano i primi segni delle trasformazioni economiche che ridurrà drasticamente, nelle campagne europee, la molteplicità e la complessità delle rotazioni a favore della più radicale semplificazione culturale, elidendo, con le rotazioni, quella complementarità tra colture e allevamenti che ha costituito il cardine della rivoluzione agraria. Sospinge la storica trasformazione il trionfo dell’economia industriale, che, elevando il costo della manodopera, e comprimendo il valore delle derrate agricole nei confronti di quelle industriali, impone la meccanizzazione di tutti i processi produttivi, rendendo economicamente impossibile il mantenimento di una piccola stalla in ogni azienda, costringendo le aziende che non si specializzino nell’allevamento, convertendosi in allevamenti industriali, a rinunciare al bestiame, quindi al letame.
Alfonso Draghetti è sperimentatore valente: ha verificato la consistenza della propria dottrina realizzando un piano sperimentale di ammirevole coerenza. Scelta un’azienda dal suolo depauperato dal protrarsi delle pratiche di rapina di un affittuario privo di scrupoli contrattuali e di accortezza agronomica, vi ha introdotto la migliore rotazione padana, ricavandone la dimostrazione che riducendo la superficie destinata ai cereali e dilatando quella destinata alla medica la nuova disponibilità di letame ripristina un livello di fertilità che consente di produrre una quantità maggiore di cereali su una superficie ampiamente inferiore, e permette di aggiungere al reddito dei cereali i nuovi ingenti ricavi della stalla. Da un piano sperimentale di ammirevole eloquenza la conferma della validità del teorema capitale della rivoluzione agraria moderna.
Sperimentatore accorto, il direttore della Stazione agronomica di Modena non è, tuttavia, maestro di storia delle teorie agronomiche, e la modestia delle cognizioni storiche gli consente di presumere l’originalità di una concezione le cui formulazioni hanno ricolmato, nel corso dell’Ottocento le biblioteche agronomiche. Convinto di proporre una dottrina originale, espone le proprie idee in forma immaginifica, nel volume il cui titolo suggerisce l’idea che l’azienda agricola sia essere vivente, analizzando i flussi di sostanze nutritive tra i campi, il fienile, il letamaio ed i prodotti immessi sul mercato come la circolazione del sangue e dei principi chimici tra l’apparato digestivo, il cuore e gli organi diversi del corpo. Ma descrivere l’azienda agricola come entità vivente equivale ad impiegare la metafora più suggestiva per gli spiriti inquieti alla ricerca di una pratica agraria che operi in perfetta sintonia con i processi naturali. Quale concezione agronomica potrebbe proporre, a chi vagheggia un’agricoltura “biologica”, credenziali più sicure di quella che propone di stabilire tra i campi, la stalla e i granai un processo che ricalcherebbe perfettamente il meccanismo di digestione-circolazione che si realizza in tutti i viventi?
Nella scelta di Francesco Garofalo di ricalcare Draghetti la scelta coerente di connettere la pratica agraria nuova alla più solida tradizione della rivoluzione agraria: una scelta di indiscutibile dignità scientifica. Primo, tuttavia, tra i teorici italiani dell’agricoltura alternativa Garofalo non vede le proprie idee diffondersi in relazione al dilatarsi delle istanze di una produzione alimentare liberata dai fantasmi della chimica: tra gli adepti del rinnovamento agronomico il numero più significativo è costituito, infatti, da neoagricoltori di matrice urbana, del tutto incapaci di cimentarsi nell’allevamento del bestiame, il cui governo richiede attitudini che è difficile acquisire in assenza della dimestichezza sviluppata durante l’adolescenza. I neofiti dell’agricoltura alternativa indirizzano le proprie energie, ed i mezzi economici di cui possano disporre, alla realizzazione di colture cerealicole, orticole e alla viticoltura. Incredulo e amareggiato, Garofalo vede la propria dottrina, di cui, dotato di buona cultura agronomica, misura le ascendenze scientifiche, respinta a favore di una pratica priva di ogni fondamento teorico,vede il sodalizio che ha fondato, il più antico dei cenacoli della nuova agricoltura, disertato a favore di una miriade di tribù diverse, che in chiassosa contrapposizione contendono le adesioni degli adepti del credo fondato sull’abiura della chimica, che si impegnano a beneficare, con una chiassosa azione politica, di copiosi sussidi pubblici.
Arrestare l’apocalisse agricola
Tra le scuole dell’agricoltura alternativa affermatesi in Europa titoli di particolare prestigio vanta quella fondata da Raoul Lemaire, un docente di discipline agronomiche che matura, all’alba degli anni Sessanta, il rifiuto delle tecniche dell’agricoltura moderna facendosi alfiere del ritorno alle pratiche della tradizione. Contribuisce a trasformare le intuizioni del maestro in metodologia agronomica organica il primo collaboratore di Lemaire, anch’egli docente di materie agrarie, Jean Boucher. Codifica in un libro di successo, all’alba degli anni Settanta, la dottrina dei dioscuri dell’agricoltura “biologica” francese il più brillante dei discepoli, Antoine Ayrault de Saint Hénis.
Il volume di Saint Hénis, Guide pratique de culture biologique, non è solo il manuale che illustra una nuova tecnica agronomica, è il manifesto per la creazione di un movimento che si opponga alla trasformazione dell’agricoltura francese nel sistema tecnologico e mercantile di cui alla fine degli anni Sessanta si intravede già chiaramente la fisionomia. Di quel manifesto sarebbe difficile comprendere il significato ignorando la solidità delle tradizioni del mondo rurale francese, da secoli fiero della propria cultura, una cultura non meno carica di valenze spirituali che di conoscenze tecniche, ignorando, insieme, l’orgoglio con cui quel mondo rurale è impegnato, dagli anni Sessanta, a rinnovare pratiche agronomiche e strutture commerciali, sospinto dall’ambizione di imporre l’agricoltura dell’Esagono come la più possente macchina produttiva del quadro europeo.
Ma la conversione che Nation ha intrapreso nel segno della grandeur agricole rivestirebbe, per Lemaire e Boucher, i caratteri dell’autentica catastrofe. Di fronte a un contesto rurale in cui valori e tradizioni della paysannerie sono rigettati con la trasformazione degli antichi fermiers in imprenditori che usano macchine poderose e calcolano il profitto di ogni coltura, i due docenti francesi, genuini spiriti tradizionalisti, sono assaliti dall’orrore: assistono con raccapriccio all’allargamento senza limiti delle aziende, all’abbandono della campagna da parte degli agricoltori che quell’allargamento non riescono ad operare, alla dilatazione degli appezzamenti, osservano con sgomento la sostituzione dell’antica molteplicità di produzioni aziendali con una sola, al massimo due colture, l’abbandono delle antiche sementi per le nuove varietà ibride, la selezione di bestiame sempre più produttivo, il trionfo della chimica, che riversa sui campi quantità crescenti di fertilizzanti e antiparassitari. I traguardi che i ministri dell’agricoltura, i tecnici e i responsabili sindacali menzionano come prove del successo di una strategia di progresso sono, per i due paladini del passato rurale, le prove della deluge che avanza inesorabile.
Alfiere appassionato del pensiero dei maestri, nel proprio volume Saint Hénis proclama, a dimostrazione dei danni del progresso, che le nuove procedure avrebbero diffuso nei campi piante tanto sensibili ai parassiti che le produzioni non risulterebbero superiori a quelle delle varietà tradizionali, sostiene che la maggiore produzione non assicurerebbe agli agricoltori alcun vantaggio economico, siccome le spese per macchine e fertilizzanti fagociterebbero ogni maggiore ricavo, denuncia l’infierire, tra gli animali allevati secondo i nuovi criteri, di malattie incontrollabili Sono tre asserzioni frutto, palesemente, di incubi millenaristici, in evidente contrasto con la realtà di un sistema agricolo che ha consentito ad un numero senza misura minore di agricoltori di assicurare ai cittadini francesi uno dei tenori alimentari più ricchi al mondo, dirigendo sui mercati internazionali un flusso di esportazioni, cereali, latticini, vini e frutta, che costituisce per il Paese fonte preziosa di valuta.
Seppure dichiari che il cardine del metodo dei maestri consiste essenzialmente nel ritorno alle pratiche della tradizione, l’apostolo della filosofia rurale di Lemaire e Boucher si impegna ad attribuire a quella filosofia un blasone scientifico dichiarando che i fondamenti della dottrina dei due agronomi risalirebbero al pensiero di Pasteur, il fondatore della microbiologia moderna, i cui scritti il tenore delle citazioni rivela che Saint Hénis non ha mai letto. Padre dei vaccini impiegati per combattere le più gravi malattie infettive degli animali, Pasteur deve essere ritenuto il fondatore dell’allevamento moderno basato sugli strumenti della veterinaria, la tecnologia che provoca l’orrore dei due agronomi francesi.
Alle idee di Pasteur, che cita senza avere mai letto (o compreso), Saint Hénis aggiunge, nell’ideale elenco dei precedenti della dottrina che codifica, la menzione della teoria dell’americano Louis Kervran, lo studioso che ha sostenuto la capacità degli organismi animali di operare la conversione della struttura molecolare degli elementi chimici, mutando il numero di protoni, neutroni ed elettroni di un atomo così da realizzare la trasformazione di un elemento in elemento diverso, un’autentica scissione atomica, un’ipotesi la cui dimostrazione sconvolgerebbe l’edificio della fisica moderna, che Saint Hénis dichiara inoppugnabilmente provata dallo studioso americano, e che assume tra le fondamenta teoriche della costruzione di Lemaire e Boucher.
Piuttosto che a Pasteur, che di fertilità del suolo e di rotazioni agrarie non ebbe mai ad occuparsi, sarebbe più pertinente identificare il predecessore di Lemaire e Boucher in Thaer, il precursore ideale di Draghetti e di ogni teoria agronomica che fissi il proprio caposaldo nelle rotazioni, che non si sa decidere se Saint Henis non citi perché ne ignori l’opera o perché un autore francese non riconoscerà mai i titoli di precursore delle proprie idee ad uno scienziato tedesco, preferendo la citazione impropria di un connazionale a quella pertinente di un autore straniero.
Sul piano agronomico Lemaire e Boucher ricalcano, dopo quindici decenni, le orme del grande tedesco propugnando la stessa integrazione perorata da Thaer della coltura dei cereali e dell’allevamento, le cui esigenze di foraggio propongono di soddisfare, come il predecessore, con la coltura di una molteplicità di specie foraggere, fonti di fertilità sulla duplice strada degli apporti diretti di azoto al suolo, da parte delle leguminose, e di quelli indiretti che si realizzano dopo la trasformazione, nella stalla, dei foraggi in letame. Alla ricca gamma delle colture foraggere che suggeriscono ricalcando il precursore che ignorano, i paladini francesi dell’agricoltura alternativa associano il suggerimento dell’impiego del litotannio, un’alga tradizionalmente impiegata come fertilizzante dai contadini bretoni, cui i due autori attribuiscono proprietà prodigiose sulla fertilità, sulla salute del bestiame, sulle qualità biologiche delle derrate prodotte per il consumo umano, di cui Lemaire avrebbe intrapreso il commercio in modo egualmente benefico per i propri conti bancari.
Un’annotazione finale, a commento del volume di Saint Hénis, non può non imporre la reiterazione, da parte dell’autore, dell’attribuzione, al primo dei due maestri, del titolo di disinteressato apostolo della verità in un mondo scientifico pervaso dall’errore, una reiterazione che ripropone una constatazione che la storia delle scienze ripresenta in più di uno dei propri capitoli: chi proclami il possesso esclusivo della verità, denunciando l’errore di chi professi ogni convincimento diverso, è, assai spesso, salvo il caso dei titani che hanno mutato, incompresi, il corso del pensiero umano, lo pseudoscienziato, se non l’imbonitore, che denigrando gli avversari cerca diffondere i propri sogni e le proprie chimere, offrendo, a chi voglia provarne il potere, sementi e preparati che ne incorporino le virtù taumaturgiche.
Processo alla chimica: i capi d’accusa
Se il rigetto della chimica che accomuna gli alfieri delle agricolture “alternative” non costituisce, generalmente, che espressione di un orrore incapace, per la mancanza di competenze scientifiche, di articolarsi in argomentazioni quantitative, propone l’eccezione più significativa il volume con cui offre il proprio contributo alla fondazione della nuova agricoltura Claude Aubert, un agronomo dalle significative esperienze applicative, critico di notevole acume di tutta la pubblicistica chimica nella sfera agraria, autore di un volume, L’agriculture biologique, cui la lucidità espositiva ha assicurato il successo testimoniato dalla pluralità delle edizioni.
A differenza dei proclami contro la chimica della maggioranza dei paladini di un’agricoltura nuova, comunemente meri saggi di retorica antiscientifica, il volume di Aubert propone contro la chimica un’autentica arringa, articolata in capi d’accusa consistenti ciascuno di una serie di argomentazioni fondate sui risultati di ricerche operate nei laboratori di un novero cospicuo di paesi. Nell’ordine, dopo un’introduzione sulla qualità biologica degli alimenti, il primo dei capitoli di quell’arringa raccoglie gli elementi di colpa a carico di antiparassitari, insetticidi e diserbanti, il secondo quelli a carico dei fertilizzanti, il terzo quelli a carico delle creature della nuova genetica vegetale, sementi di piante annuali e varietà di specie frutticole, e quelli a carico degli animali modificati dalle moderne metodologie di selezione.
Nel primo di quei capitoli l’agronomo francese illustra i risultati di una ricerca condotta, nel proprio paese, sulla presenza di residui degli insetticidi della famiglia dei clorurati organici, quindi il d.d.t. e le molecole similari, nel latte delle mucche e in quello delle donne, risultati senza dubbio inquietanti, siccome il latte umano sarebbe risultato contaminato da un tenore di d.d.t. quarantacinque volte maggiore di quello reperito nel latte vaccino, da percentuali maggiori a quelle degli animali, nonostante l’inferiorità dei valori assoluti, di tutte le altre molecole della famiglia.
L’esito dell’indagine, oggi privo di interesse per la proscrizione, da un terzo di secolo, dell’impiego, nelle campagne europee, dei clorurati organici, avrebbe imposto di individuare la ragione per la quale sarebbe risultata maggiore la quantità di insetticidi nel latte delle donne, che ingeriscono cibi trattati con insetticidi solo indirettamente, che in quello delle mucche, alimentate con prodotti vegetali trattati direttamente: anziché ricercare, però, una spiegazione, dal risultato Aubert desume l’impossibilità di qualsiasi spiegazione plausibile. L’opzione rivela un proposito sottile: postulare quell’impossibilità equivale, infatti, a proclamare l’incapacità della chimica di seguire le traslocazioni degli insetticidi nella successione delle trasformazioni biologiche, un’incapacità, che, fosse irrefragabilmente dimostrata, imporrebbe, per cogenza scientifica, il bando di ogni molecola antiparassitaria. Fondato su dati analitici ineccepibili, il sillogismo contro la chimica è acuto e suadente, un sofisma dall’indiscutibile potere persuasivo.
Ma l’argomento più acuto con cui Aubert motiva la propria arringa è il commento ai risultati dell’antica ricerca con cui due chimici dal nome russo avrebbero dimostrato, operando, tra il 1925 e il 1940, in un laboratorio svizzero, che le molecole organiche “artificiali”, nel caso studiato un antiparassitario a base di mercurio, dotate di poteri tossici in dosi quantificabili all’analisi, lo sarebbero egualmente a dosi omeopatiche, fino alla trentesima diluizione decimale, un’entità al di là di ogni possibilità di identificazione analitica. Gli antiparassitari manifesterebbero la propria tossicità, quindi, a qualsiasi dose fossero ingeriti. L’asserzione propone un argomento che imporrebbe il bando di qualunque molecola antiparassitaria: un esperimento condotto negli anni Trenta da due chimici di perizia pure provata non è sufficiente, peraltro, a smentire il caposaldo essenziale della tossicologia, che stabilisce che è sempre la dose a determinare la tossicità di una sostanza. Per ogni sostanza nociva la chimica stabilisce, cioè, la soglia al di sotto della quale anche il veleno più potente può essere tollerato dall’organismo. Aubert, che conosce bene il postulato, sostiene che esso varrebbe solo per le molecole naturali, non per quelle la cui struttura sia creazione dell’uomo.
Analizzata secondo la logica della scienza, l’asserzione si rivela il più brillante paradosso chimico. Come ogni paradosso, misurato nelle proprie conseguenze conduce a risultati assurdi: fosse fondato, l’umanità non sarebbe solo costretta, come postula Aubert, ad abbandonare l’impiego delle molecole antiparassitarie, dovrebbe rinunciare a tutti i prodotti della chimica, dalla benzina all’inchiostro tipografico, dai coloranti all’intera gamma dei medicinali, in assoluta maggioranza costituiti da molecole create in laboratorio. Non esiste, infatti, farmaco di cui, continuando ad accrescere la dose, non possa identificarsi la dose letale: ma se la sostanza tossica ad una dose elevata lo è altrettanto a dosi infinitesime, essendo probabilmente rare le molecole di sintesi per le quali non esista dose tossica, il consorzio umano non potrebbe trovare scampo che nel ritorno al regime di caccia e raccolta dell’età paleolitica.
Sono meno sottilmente seducenti le argomentazioni dell’agronomo francese contro le sementi selezionate e contro le creature della genetica animale. Contro le prime Aubert raccoglie una doviziosa messe di prove che dimostrano che le varietà vegetali frutto della selezione più recente producono quantità di sostanza secca percentualmente inferiori a quelle delle varietà tradizionali, e che presentano tenori minori di aminoacidi essenziali e di vitamine, un rilievo scontato, che perde ogni significato appena si rilevi che tenori percentuali di sostanza secca, di aminoacidi e di vitamine, inferiori a quelli delle piante tradizionali possono coniugarsi a rendimenti ettariali tanto maggiori che le quantità di sostanza secca, di aminoacidi e vitamine prodotte per unità di superficie risultino ampiamente maggiori. Lo straordinario balzo dei consumi alimentari della popolazione europea, un balzo tanto quantitativo quanto qualitativo, siccome consistente nell’uso di quantità superiori di cereali, carne, latticini e ortaggi, e corrispondente a un ingente incremento nell’ingestione di aminoacidi e di vitamine, non sarebbe stato possibile senza l’incremento prodigioso dei rendimenti ettariali, che in Europa ha compensato la crescita della popolazione e l’abbandono di superfici agrarie immense, destinate alla riforestazione o convertite in autostrade, aeroporti, aree industriali e residenziali.
Se l’appunto che Aubert dirige alle sementi ottenute con le nuove procedure di selezione, che l’autore francese rivolge soprattutto ai mais ibridi, di assicurare apporti insufficienti di elementi essenziali della dieta, prestava il fianco a obiezioni sensate alla data della redazione del testo francese, appare del tutto gratuito, se non addirittura banale, dopo tre decenni di progresso genetico, dopo che gli istituti che apprestano le sementi per i paesi dall’agricoltura più povera hanno dimostrato la possibilità di inserire nel genoma di specifici ceppi di mais, una pianta originariamente povera di aminoacidi essenziali e di microelementi metallici, gli enzimi che consentono l’accumulo, nella cariosside, degli aminoacidi e degli elementi metallici necessari a correggere la dieta della popolazione di regioni dove l’alimentazione presenti insufficienze letali dei medesimi elementi. Realizzando la soluzione di carenze che causano forme patologiche endemiche altrimenti irreparabili, a ragione dell’impossibilità della popolazione di acquistare alimenti diversi da quelli prodotti sulla propria terra, la genetica ha smentito categoricamente gli appunti di Aubert.
Ancora più semplicistici appaiono i rilievi dell’agronomo francese contro i prodotti della selezione animale, quelle linee di polli, suini e bovini nel cui organismo Aubert denuncia alterazioni biologiche tanto radicali da farne entità incapaci di sopravvivere senza il costante ricorso alla veterinaria, un’osservazione non priva di fondamento, siccome il perseguimento della produttività più intensa induce gli allevatori a evitare agli animali il più banale stato patologico, persino lo stato di sofferenza subclinico, ma che viene proposta da Aubert supponendo la sanità degli animali di un tempo e la salubrità dei loro prodotti. Una sanità, e una salubrità, che può proclamare solo chi ignori i dati più sicuri della storia dell’allevamento, una storia di epidemie, di malattie endemiche, di carni e latticini pullulanti di parassiti.
Tra pseudoscienza e stregoneria
Tra sette e tribù dei cultori di un’agricoltura alternativa a quella nata dalla scienza moderna una menzione particolare impone quella i cui adepti professano il credo predicato da Rudolf Steiner, il dotto tedesco che si proclamò fondatore di una filosofia nuova, che definì “antroposofia”, che la materia dell’innumerabile messe di opuscoli e saggi del vate impone di includere nell’antico, inesauribile fiume della letteratura occultistica, teosofica, magica e cabalistica, un genere che dall’inizio dell’arte della stampa ha ricolmato intere biblioteche, e le tasche di stampatori e librai.
Nel proprio lucido, arguto volume sui fondatori delle più stravaganti dottrine pseudoscientifiche degli ultimi cento anni Martin Gardner, matematico e storico della scienza, ha tracciato un profilo di straordinaria penetrazione dell’alfiere di una nuova dottrina scientifica, della logica delle sue elucubrazioni, della premura di circondarsi di una scuola che è insieme setta religiosa e azienda editoriale, impegnata a sfruttare la credulità di quanti siano sedotti da un’idea che annulli le nozioni accumulate dalla conoscenza umana dal tempo di Eraclito. Integra il profilo l’immancabile proclama del profeta della nuova dottrina di essere perseguitato dalla scienza accademica, che lo escluderebbe, per invidia, dai propri ranghi. L’esclusione pare accendere l’estro del genio incompreso, che si rimette al giudizio dei posteri, che non potranno che rigettare le conoscenze accumulate da Bacone a Boyle, da Pasteur ad Einstein, per professare la dottrina enunciata dal maestro ignorato dai contemporanei.
Del fondatore di una dottrina e della setta che la professi descritto da Gardner, Steiner è rappresentante emblematico: sorprende, quindi, che lo studioso americano non lo abbia incluso nel proprio elenco di geni scientifici incompresi. L’omissione appare tanto più singolare siccome Gardner sottolinea il ruolo storico, tra i padri della pseudoscienza, di Wolfgang Goethe, poeta sommo, autore di una teoria dei colori frutto di elucubrazioni prive del supporto di qualsiasi indagine sperimentale, come rileva il pullulare di teorie pseudoscientifiche che precedette e accompagnò, in Germania, il trionfo del Nazismo, i cui gerarchi, Adolf Hitler per primo, professavano dottrine antropologiche aberranti, le dottrine “scientifiche” che portarono alle camere a gas, che più di uno dei gregari componeva alla familiarità con pratiche occulte, numerosi ai più inverosimili regimi vegetariani, motivati da incredibili elucubrazioni biologiche. Fu in quel clima che Steiner enunciò la propria dottrina, che proclamò costituire il completamento dell’opera scientifica di Goethe, e fu nella temperie pseudoscientifica in cui prosperarono i germogli della futura vertigine nazista che il veggente germanico raccolse i propri seguaci e dettò quel prontuario per una nuova agricoltura, l’agricoltura “biodinamica”, che ne avrebbe fatto, dimenticate le opere sull’iniziazione spiritica e gli incontri con Satana, il maestro di una delle più colorite tra le dottrine agricole “alternative”.
Per chi conosca la storia della scienza occidentale, per chi abbia analizzato, soprattutto, le ipotesi fisiche e astronomiche con cui i maestri del sapere greco, latino e medievale immaginarono che i poteri degli astri determinassero tempi ed entità delle produzioni della terra, la dottrina agraria di Steiner costituisce il più variopinto caleidoscopio di elucubrazioni originali, frutto dell’immaginazione più feconda, e di concezioni remote, confusamente combinate e costrette al più disordinato sincretismo. Basti ricordare che l’astrologia agraria che i georgici greci avevano tratto dai testi astronomici persiani identificava il fattore chiave delle influenze astrali sulle funzioni biologiche nel movimento dei pianeti, che Virgilio attribuisce una funzione preminente alle costellazioni dello Zodiaco, che sulle fondamenta di un’ingegnosa interpretazione di Aristotele i dotti medievali attribuirono il ruolo essenziale alla luna, nella quale additarono la mediatrice degli influssi di tutte le stelle e di tutti i pianeti. Tra le dottrine astrologiche del passato Steiner non sceglie lucidamente, mescola confusamente. Proclama che la fertilità della terra sarebbe funzione delle influenze astrali che la permeano, e si premura di insegnare all’agricoltore come procedere perché i suoi campi assorbano la maggiore quantità di energia cosmica, convertendosi in autentici accumulatori di forze siderali.
L’influenza degli astri sui corpi terrestri si dirigerebbe con maggiore o minore intensità, secondo Steiner, sui minerali, sui vegetali, sugli animali, ordinati, secondo l’occultista tedesco, in una gerarchia continua, nella quale alcuni minerali sarebbero tanto vicini ai vegetali, e alcuni vegetali tanto prossimi agli animali, che tra un sasso e un uomo sussisterebbe una successione continua di esseri intermedi. Attraverso le più ardite elucubrazioni pseudofisiche e pseudobiologiche dalla propria idea della gerarchia del mondo naturale Steiner desume la possibilità di catturare gli influssi astrali in parti di organismi animali ripieni delle parti di speciali vegetali.
Una vescica di cervo ripiena di certi fiori sarebbe il più funzionale accumulatore di influssi cosmici, un’efficacia analoga presenterebbe un cranio di bovino ricolmo di certe cortecce. Interrati in autunno, gli accumulatori astrali di Steiner raccoglierebbero, durante l’inverno, il periodo di stasi della vita, benefici raggi cosmici, che l’agricoltore potrebbe distribuire nei suoi campi estraendo dal suolo, in primavera, i resti animali interrati e cospargendo sui campi il prezioso putridume, tanto meno costoso, in tempi di rincari quotidiani del greggio, del solfato di ammonio o del perfosfato di calcio.
Per soddisfare esigenze diverse delle piante l’agricoltore potrebbe raccogliere i raggi stellari in una tinozza d’acqua pura in cui dovrà versare, al lume delle stelle, sabbia, il più inerte dei minerali, anch’essa tanto meno costosa dell’urea e del nitrato di calcio, agitando con un ramaiolo acconcio. La mescolanza di acqua e polvere di stelle manifesterebbe sulle piante i poteri più straordinari. I procedimenti escogitati dal veggente germanico per accrescere, dirigendovi il flusso degli astri, la fecondità della terra, non si esauriscono nelle procedure menzionate: le pratiche menzionate impongono, peraltro, l’obbedienza all’invito degli antichi saggi: Sed de hoc satis, ne plus debito in re obscena laboremus.
Steiner non era agronomo, era un maestro di occultismo avventuratosi sul terreno agrario per soddisfare la curiosità di alcuni adepti impegnati in attività agricole. I postulati della sua dottrina sarebbero stati coordinati ad autentiche conoscenze agronomiche da un discepolo dalle competenze più pertinenti, Ehrenfried Pfeiffer, una vasta esperienza di conduzione di aziende agrarie su entrambe le sponde dell’Atlantico, che in un libro baciato da un successo scintillante e duraturo, La fecondità della terra, avrebbe integrato la dottrina del maestro componendovi due elementi ugualmente significativi, il primo di carattere etico e storico, il secondo di carattere più propriamente scientifico.
Il primo consiste nell’enfatica contrapposizione tra una visione del mondo rurale preindustriale permeata di armonia, saggezza ed equilibrio, e l’immagine delle campagne moderne agitate dal demone del profitto, la forza oscura che infrangerebbe ogni ordine morale, sociale, economico. Si dissolvono, nella visione neobucolica di Pfeiffer, gli spettri che i testi meglio documentati sulla storia delle campagne europee attestano avere imposto la propria signoria al mondo contadino, prepotenza dei feudatari ed esosità della fiscalità regia, epidemie dell’uomo e del bestiame, analfabetismo e soggezione all’usura, risplende, nella visione onirica, l’armonia di un mondo in possesso delle sicurezze fondamentali per un’esistenza dignitosa e gratificante, le sicurezze che avrebbe infranto l’irrompere, nell’idillio rurale, degli imperativi del profitto. Il primo dei quali, l’incentivo a produrre di più, avrebbe innescato quelli correlati: la necessità di acquistare più macchine, sementi e concimi, scatenando una rincorsa tra spese e ricavi che avrebbe sottratto al coltivatore ogni certezza antica, ogni sicurezza, ogni tranquillità.
Il secondo dei motivi ispiratori di Pfeiffer, quello più propriamente scientifico, è l’adesione alla moderna dottrina del suolo, la dottrina fondata da un grande scienziato russo, Vassily Vassilievič Dokutchaev, e sviluppata da una vasta schiera di discepoli russi, statunitensi, britannici. Chiave della dottrina di Dokutchaev, la concezione del suolo come essere vivente, costituendo ogni terreno la risultante di un processo vitale consistente delle interazioni tra la roccia madre, peculiare secondo la collocazione geografica, gli agenti del clima, specifici di ogni ambiente, i viventi vegetali, quelli animali.
Originato da una combinazione peculiare di fattori pedogenetici, ogni terreno presenterebbe, al momento della conversione, da parte dell’uomo, in suolo coltivato, caratteristiche chimiche e biologiche peculiari: quelle caratteristiche costituiscono i cardini della sua fertilità, che, trasformato il terreno vergine in arativo, l’uomo dovrebbe conservare quale condizione perché il suo sfruttamento possa protrarsi nel tempo. Alla costante rigenerazione della fertilità che si verifica, naturalmente, nei suoli vergini, l’agricoltore deve sostituire, quindi, un novero di operazioni capaci di conservare il capitale naturale di cui si è appropriato. L’agricoltura moderna, fondata sull’impiego dei fertilizzanti, costituirebbe la violazione più palese dell’imperativo alla conservazione della vitalità della terra, che le sue procedure destinerebbero alla sterilità.
Per provvedere alla rigenerazione sistematica della fertilità, proscritte le pratiche agrarie di adozione recente, Pfeiffer suggerisce una metodologia che corrisponde, fondamentalmente, ai canoni dell’agronomia classica, fondata sulla rotazione e sull’allevamento, la metodologia che ha conosciuto, abbiamo rilevato, il proprio codificatore in Albrecht Thaer, integrata dall’impiego dei preziosi preparati di Steiner, mesenteri animali e foglie di tarassaco, di cui Pfeiffer riconosce gli effetti prodigiosi nella conservazione del patrimonio di fertilità del suolo.
Rifondare la filosofia dell’Occidente
Nella storia dei tentativi di definire fondamenta scientifiche originali sulle quali costruire l’edificio di una nuova agricoltura fissa una data significativa la pubblicazione del volume che Miguel Altieri propone, nel 1987, negli Stati Uniti, con il titolo di Agroecology, che un editore padovano traduce, nel 1991, presentandolo, con le parole altisonanti del curatore, come “la bibbia e il manuale della nuova agricoltura”, due titoli che il testo vanterebbe siccome della nuova agricoltura proporrebbe, secondo il medesimo curatore, “i fondamenti scientifici e filosofici”.
Per assicurare il conseguimento di obiettivi tanto ambiziosi l’autore ha affidato i due capitoli iniziali ad una studiosa di letteratura agronomica, Susanna Hecht, e ad un cultore di studi epistemologici, Richard Norgaard, che negli stessi capitoli si producono in quello che, nella composita, e solitamente ripetitiva, letteratura sull’agricoltura “alternativa”, deve probabilmente considerarsi lo sforzo più impegnativo di fondare filosoficamente i cardini dottrinali delle procedure di cui Artieri auspica la sostituzione alle pratiche dell’agricoltura tradizionale dell’Occidente.
Enucleando l’essenza delle argomentazioni non del tutto lineari dei coadiutori di Altieri verifichiamo che esse propongono due caposaldi, uno infisso nel terreno della storia della scienza, uno in quello della storia dell’agronomia. Il primo consiste nell’asserzione che la scienza occidentale, la scienza di cui, ignorando Bacone e Galileo, Norgaard identifica il padre in Newton, avrebbe convertito l’universo, totalità di elementi in cui ogni entità fisica e chimica è correlata a tutte le altre, in macchina costituita da mille meccanismi indipendenti, ciascuno, da tutti gli altri. Il secondo consiste nell’identificazione della storia dell’agricoltura occidentale nella storia della monocultura, una peculiarità che porrebbe l’agricoltura occidentale in stridente contrasto con quella dei popoli primitivi, in primo luogo quelli viventi nelle aree tropicali, che avrebbero elaborato cento sistemi colturali diversi, associati dalla caratteristica comune di proporre contesti di piante di grande varietà, cento combinazioni, in paesi, climi e suoli diversi, di mille specie e varietà coltivate, accudite secondo procedimenti molteplici quanto molteplici risulterebbero le associazioni di clima, terreno e specie vegetali.
Impiegati congiuntamente, gli assiomi dell’analisi di Norgaard e Hecht spiegherebbero, innanzitutto, come l’agronomia occidentale, una disciplina figlia, anch’essa, della meccanica di Newton, avrebbe conseguito la capacità di realizzare, su un ettaro di terra, produzioni astronomiche di mais, grano o barbabietole, nell’assoluto disinteresse per tutte le conseguenze indirette di quella produzione. Quelle conseguenze, l’inquinamento delle falde, lo sterminio delle specie vegetali e degli insetti costituenti flora e fauna spontanea, sarebbero tanto gravi da indurre a prevedere l’impossibilità di protrarre oltre limiti temporali angusti uno sfruttamento tanto intensivo e innaturale delle risorse agrarie.
Essi spiegherebbero, in secondo luogo, il disprezzo dell’agronomia europea per i sistemi agricoli dei popoli primitivi, ancora in larga misura praticati nei paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, tutti frutto dell’intelligente interazione tra l’azione dell’uomo, le costanti climatiche, la natura dei suoli, le varietà coltivabili a disposizione, le specie spontanee, vegetali e animali, viventi in competizione a quelle coltivate. Se Newton ha fondato una visione inverosimile della realtà naturale, da quella visione l’agronomia europea avrebbe ricavato le coordinate di una scienza letale, che mostrerebbe la propria irrazionalità appena la si comparasse alle agricolture dei popoli “selvaggi”, ispirate a perfetta razionalità naturalistica.
La conseguenza capitale della duplice constatazione sarebbe la necessità di sostituire all’agronomia classica una nuova disciplina, l’agroecologia, una scienza impegnata a considerare tutte le interazioni dell’attività agricola, in ogni campo coltivato, con il clima, il suolo, i vegetali spontanei e gli animali che competono con l’uomo per appropriarsi del prodotto. La nuova disciplina dovrebbe considerare, ancora, i fattori culturali e sociali che condizionano l’opera del coltivatore, quindi il patrimonio delle conoscenze tradizionali, i rapporti di proprietà e di uso della terra, la disponibilità di capitali, un insieme di fattori che l’agronomia occidentale non avrebbe mai considerato.
Le ragioni filosofiche addotte a dimostrare la necessità di fondare la nuova auspicata scienza non possono non indurre a riflettere, ma la riflessione sui due testi non può che confermare la schematicità della visione epistemologica di Norgaard, la sostanziale ignoranza, da parte della Hecht, della storia dell’agronomia europea. Il primo, infatti, epistemologo dalle propensioni semplificatrici, pare immaginare che i padri della scienza occidentale ritenessero realmente il mondo la sommatoria di mille fenomeni indipendenti. Né Galileo né Bacone, né, aggiungiamo, Cartesio, erano tanto ingenui da pensare il mondo come una macchina sospinta da cento impulsi indipendenti: proposero di considerarlo tale per potere analizzare ogni fenomeno, isolandolo sperimentalmente, così da identificarne il meccanismo, intuendo che la comprensione delle leggi che regolano i fenomeni più semplici avrebbero permesso di mirare alla comprensione dei fenomeni più complessi, quelli che metodologicamente possono considerarsi la sommatoria di una molteplicità di fenomeni semplici, la cui legge consiste nel risultato aritmetico dell’operatività di una pluralità di leggi diverse.
E’ in questa astrazione metodologica la ragione della diversità della scienza occidentale da tutte le concezioni scientifiche elaborate da popoli differenti alle latitudini diverse del tempo e del planisfero. La scelta metodologica dell’astrazione ha certamente determinato una visione semplificata del mondo naturale, ma la semplificazione ha mostrato una straordinaria proficuità pratica, e solo chi non conosca che in superficie la storia della filosofia occidentale può, scambiando il mezzo con il fine, dichiarare che la visione dell’universo del pensiero occidentale sia schematica e meccanica.
Anche la dinamica dei sistemi, la metodologia che mira a descrivere l’interazione di serie di fenomeni di natura diversa, fisici, chimici, biologici, è creatura genuina della scienza occidentale. Può meravigliare che non sia stata escogitata da Newton, o da Leibniz, solo chi non percepisca che per renderne possibile il concepimento, se non la concreta applicazione, era necessaria una mole immensa di scoperte preliminari nelle sfere specifiche dello scibile scientifico, di cui sarebbe stato impossibile comporre i risultati prima che ciascuna avesse raggiunto, astraendo e isolando, il livello di conoscenze che la scienza ha raggiunto a metà del Ventesimo secolo.
Ma ricondotta la dinamica dei sistemi alla matrice della scienza occidentale, anche l’esigenza di escogitare una scienza nuova, l’agroecologia, che a differenziare, epistemologicamente, dall’agronomia classica, sarebbe il ricorso ai metodi della dinamica dei sistemi, con la considerazione di tutte le interrelazioni della coltivazione con l’ambiente naturale, i vegetali spontanei e gli animali parassiti, perde la propria cogenza. Conferma il rilievo la lettura di qualunque testo agronomico dell’Ottocento, composizione di cognizioni di chimica del terreno, di fisiologia vegetale, di climatologia, di meccanica e di economia. Il procedere delle conoscenze ha prodotto come risultato, che al manuale ottocentesco si sia sostituito il contesto di sei manuali diversi. Ma qualunque corso di laurea in scienze agrarie impone allo studente di studiare i sei volumi: licenziato da una facoltà decorosa nessun agronomo può ignorare le conoscenze per associare le quali all’agronomia il nuovo Galileo stabilisce la necessità di una scienza nuova.
Ma se il profilo della scienza occidentale di Norgaard è candidamente ingenuo, l’idea della storia dell’agronomia occidentale della Hecht non può che definirsi semplicistica. La storia dell’agronomia occidentale non è, infatti, la storia della monocultura, è la storia della rotazione, e dell’integrazione, attraverso la rotazione, delle colture e degli allevamenti. Può convertirla nella storia della monocultura solo chi ignori venti secoli di pensiero agronomico e, non conoscendo che gli scritti agronomici degli ultimi cinquant’anni, faccia di quegli scritti il pensiero agronomico dell’Occidente. Chi proclami che la storia dell’agronomia europea sarebbe la storia della monocultura, semplicemente ignora la storia dell’agronomia europea.
Può ascriversi, forse, ad attenuante della Hecth, la matrice statunitense: l’agricoltura degli Stati Uniti precedette di cento anni quella europea nell’opzione della monocultura, e in una facoltà agronomica americana ci si può professare storici dell’agricoltura credendo che l’agronomia sia nata con la monocultura. Così è stato dalla conquista del West. Ma il riconoscimento dell’attenuante richiede una speciale benevolenza: chi si propone come studioso di una disciplina, e argomenta delle differenze tra la concezione agraria dell’Occidente e quelle dei popoli primitivi, non dovrebbe limitare le proprie conoscenze dell’agronomia occidentale a quella del proprio paese negli ultimi cento anni. Si deve scrivere cento, non si può neppure scrivere centocinquanta, siccome la storia dell’agronomia americana dimostra che nel 1850, tributando un successo clamoroso alle traduzioni del capolavoro di Liebig, gli agronomi statunitensi si reputavano ancora partecipi della cultura agronomica europea: gli agricoltori dell’Unione stavano già dimostrando le propensioni per la monocultura, quelle propensioni che avrebbero dato corpo all’agricoltura occidentale della seconda metà del Novecento, ma gli studiosi di agricoltura non avevano ancora enucleato da quelle preferenze gli assiomi di un’agronomia diversa da quella europea.
Avesse letto i capolavori della disciplina di cui si proclama cultrice, le opere agronomiche del Cinquecento, del Seicento e del Settecento, inglesi, italiane, tedesche, Susanna Hecht non avrebbe sostenuto la necessità di creare una scienza nuova per comprendere nella considerazione dell’agronomia i fattori economici e sociali che l’agronomia occidentale avrebbe sempre trascurato. Tutti gli alfieri della disciplina, dal fondatore dell’agronomia occidentale, il latino Columella, di cui non si può pretendere la conoscenza da parte di una studiosa americana, ai successori, Agostino Gallo, Olivier de Serres, Arthur Young, Albrecht Thaer e Adrien de Gasparin, hanno dedicato alle considerazioni sociali ed economiche un’attenzione non inferiore a quella rivolta ai fenomeni biologici. Nei decenni più recenti, nel contesto complessivo degli studi agrari l’economia è stata separata dall’agronomia, senza dubbio per quell’esigenza di distinguere le sfere di indagine che è, abbiamo annotato, peculiarità precipua della scienza occidentale, ma che conoscenze diverse siano disposte in tomi differenti non consente di supporre che chi ha scritto il manuale di agronomia non abbia letto quello di economia agraria. Altieri reputa la lettura di sei libri impegno sovrumano? Vuole tutta la scienza compendiata in un volume unico? Legga gli agronomi dell’Ottocento: sarà incantato dalla loro poliedricità. Non proclami la necessità di fondare una nuova scienza perché non ha il tempo per leggere sei libri. E per i propri problemi epistemologici cerchi persona più competente del professor Norgaard: qualunque bibliotecario competente gli offrirà un aiuto più pertinente.
Seppure abbia affidato ai due collaboratori il compito di fissare i postulati essenziali, filosofici e storici, della scienza che intende fondare, l’alfiere dell’Agroecologia non manca, nei capitoli che stila personalmente, di aggiungere, agli argomenti che dimostrerebbero l’urgenza di edificare la nuova disciplina, ragioni ulteriori, ragioni più specificamente agronomiche. Addita la più significativa nella constatazione dell’insuccesso che sarebbe seguito al trapianto delle pratiche dell’agronomia occidentale nei continenti dalle tradizioni diverse. Dovunque fosse stata trapiantata, l’agronomia occidentale non avrebbe prodotto che indebitamento dei contadini e sottoalimentazione.
L’asserzione suscita un appunto, il rilievo dell’arbitrarietà di denunciare il fallimento dell’agronomia occidentale nei continenti estranei alla civiltà europea senza considerare che Asia, Africa e America meridionale non hanno adottato, nell’ultimo secolo, solo l’agronomia europea, ma l’intero contesto della scienza dell’Occidente, quindi la medicina europea, con il suo potere di ridurre drasticamente, con vaccini e antibiotici, la mortalità umana, in specie quella infantile, la fisica e l’elettronica, quindi le fondamenta teoriche per produrre automobili e televisori, e la chimica, quindi la tecnologia per produrre fertilizzanti e materie plastiche. E con la scienza europea le società asiatiche, africane, latinoamericane, hanno adottato ragioni e parametri di vita europei, primo tra gli altri il ripudio dell’agricoltura di autoconsumo, e l’impulso alla produzione di grandi quantità di derrate per alimentare i mercati delle città, dilatatesi senza misura proprio a ragione dell’adeguamento ai moduli economici occidentali.
Che la diffusione del modello della civiltà occidentale, forse la più radicale rivoluzione della storia, sia stata bene o male è arduo stabilire: mutando i criteri, etici, politici, economici, secondo cui si tenti un giudizio, esso può mutare radicalmente. Una risposta categorica può formulare solo chi abbia il dono di convincimenti filosofici esenti da ogni dilemma. Non conosce dilemmi Altieri, che professando il più accorato rimpianto per le società dell’autoconsumo, pronuncia l’arringa più cruda contro l’agronomia occidentale, l’agronomia che consente a tre agricoltori di alimentare novantasette abitanti delle città. L’idillio, che vagheggia, della famiglia indiana che vive, con il bufalo, dei prodotti di un fazzoletto di risaia, è seducente, ma quale agroecologo dovrebbe considerare, secondo i canoni della nuova scienza, gli elementi economici, giuridici, sociali dell’attività agricola, e considerandoli dovrebbe riconoscere che la famiglia dell’idillio viveva nella cieca soggezione ai notabili locali, nella schiavitù all’usura, alla mortalità infantile a due cifre, alle epidemie ricorrenti di tifo, vaiolo, colera. Si può ritenere che la soggezione al marajà e al vaiolo fosse ripagata dall’assenza della schiavitù all’automobile e alla televisione, ma accetterebbe di vivere, il professor Altieri, senza automobile e senza televisione?
La prova capitale del fallimento dell’agronomia occidentale sui continenti cui sarebbe stata tradizionalmente estranea sarebbe, secondo Altieri, l’insuccesso della Rivoluzione Verde, la diffusione delle sementi selezionate dall’americano Norman Borlaug in Messico, a metà degli anni Sessanta, in Asia, soprattutto in India e in Cina, in Africa e in America meridionale. A dimostrare quell’insuccesso Altieri cita un profluvio di autorevoli studiosi che avrebbero dimostrato che quelle sementi non sarebbero risultate più produttive di quelle tradizionali, che si sarebbero dimostrate capaci di svilupparsi solo sui suoli migliori, che avrebbero favorito i coltivatori ricchi, in grado di acquistare motopompe e concimi, che sarebbero state investite da disastrose fitopatie, causa di apocalittici tracolli produttivi.
E’ indubitabile che tanta folla di studiosi non abbia denunciato fenomeni immaginari: gli inconvenienti che elencano sono stati eventi gravi, hanno provocato, in una regione o in un’altra, in un anno o in quello successivo, situazioni di penuria e di crisi. Al di là, tuttavia, dell’obiettività dei rilievi, sorprende come tale consesso di scienziati, e lo studioso che ne riassume il pensiero, non abbiano operato la considerazione elementare che Cina e India, le due e protagoniste della Rivoluzione Verde, contavano, prima del suo inizio, una popolazione complessiva appena superiore al miliardo, che viveva di una disponibilità alimentare, rispettivamente, di 1.636 e di 2.073 calorie quotidiane, che al termine della vicenda hanno ampiamente superato, insieme, i due miliardi di abitanti, un terzo dell’umanità, e che quegli abitanti possono contare, oggi, su disponibilità alimentari equivalenti, rispettivamente, a 2.972 e a 2.466 calorie al giorno.
Si può serenamente sfidare il professor Altieri, e lo stuolo degli studiosi di cui cita il pensiero, a dimostrare che l’immane mutamento di disponibilità è stato dovuto a eventi diversi dalla Rivoluzione Verde. Non crede alla veridicità delle cifre? L’abisso tra le serie di dati è tale che, fossero errate le stime di tutti gli organismi internazionali, la genetica vegetale moderna, elemento integrante dell’agronomia occidentale, matrice della Rivoluzione Verde, avrebbe comunque prestato un contributo determinante all’aumento delle produzioni che l’umanità ha preteso, negli ultimi cinquant’anni, dai suoli coltivati su tutto il Pianeta.
Avrebbero potuto fornire un contributo equivalente i sistemi agricoli delle popolazioni primitive, quelli che Altieri rimpiange tanto accoratamente? La risposta non può che essere categoricamente negativa: ecologicamente ammirevoli, forse perfetti, quei sistemi, frutto di sedimentazione millenaria, non erano sprovveduti di capacità di evoluzione, ma i loro tempi di evoluzione erano tempi secolari: alla triplicazione della produzione cerealicola che ha accompagnato, fortunosamente quanto si voglia, il raddoppio della popolazione umana negli ultimi cinquant’anni non avrebbero potuto prestare che un contributo assolutamente marginale.
Agnosticismo scientifico, passione tecnologica
Se nel crepuscolo degli anni Settanta una rassegna delle scuole e sette in cui si rifrangeva il movimento per un’agricoltura alternativa rivelava l’intensità dello sforzo per definirne l’edificio secondo principi capaci di confrontarsi con i cardini teorici dell’agricoltura tradizionale, vent’anni più tardi, alla constatazione dell’immensa dilatazione degli spazi coltivati dagli agricoltori “biologici” si accompagna, paradossalmente, quella dell’abbandono, da parte di quanti praticano la nuova agricoltura, di qualsiasi proposito teorico. Se l’agricoltura alternativa pare avere iniziato, cioè, la marcia trionfale alla conquista delle campagne, quanti la praticano hanno abbandonato, contemporaneamente, ogni impegno per fondare le proprie pratiche su presupposti conoscitivi di dignità scientifica. La circostanza può apparire paradossale: essa rivela, peraltro, al critico che esamini le condizioni in cui si è realizzata, ragioni palesi. I trenta anni trascorsi hanno convertito l’opzione di pratiche agrarie alternative da impegno etico di pionieri dalle vigorose motivazioni ideali, paladini della ricomposizione degli equilibri tra l’uomo e le risorse, che le ragioni ideali anteponevano ad ogni calcolo economico, in attività produttiva dai solidi risultati economici. Ad assicurare quei risultati sono stati due eventi dagli esiti convergenti: il varo, da parte dell’Unione Europea, di un programma di significativi incentivi a favore dell’agricoltura “biologica”, il diffondersi tra i consumatori di istanze salutistiche sempre più affannose. Da un lato, cioè, le erogazioni dell’Unione Europea hanno convertito l’agricoltura alternativa in uno dei terreni più fertili di contributi della sussidiata agricoltura europea, dall’altro consumatori sempre più sazi, adusi a devolvere agli acquisti alimentari una percentuale del proprio reddito insignificante di fronte alle quote del reddito destinate al cibo da tutte le società della storia, sempre più ansiosi dei possibili effetti nocivi di alimenti “contaminati”, sono stati sospinti a premiare con liberalità, pagandoli prezzi maggiori, alimenti che si proclamano in possesso di requisiti salutistici più certi delle derrate ottenute con le pratiche consuete. Trasformata da impegno etico di tutela degli equilibri tra l’uomo e le risorse agrarie in ordinaria attività produttiva, condotta da una pluralità di operatori per ricavarne, come tutti gli imprenditori, contributi pubblici e i più elevati guadagni possibili, senza rinnegare i principi cardinali, in primo luogo il bando della chimica, l’agricoltura alternativa ha rigettato le istanze teoriche, ha rinunciato ad elaborare una dottrina da contrapporre alle teorie agronomiche classiche, si è immersa nei problemi della tecnica produttiva.
I quali sono tutt’altro che semplici. Avvicinare le produzioni dell’agricoltura alternativa, realizzate senza antiparassitari, anticrittogamici e diserbanti, alle rese produttive dell’agricoltura ortodossa non è impegno agevole: è solo grazie ad estrema perizia che il divario può essere ridotto. Se ridurlo risultasse tecnicamente troppo arduo, la tentazione degli adepti conquistati alla nuova pratica dai sussidi pubblici ad impiegare, surrettiziamente, gli strumenti della chimica, diverrebbe irresistibile. E, si deve sottolineare, il sotterfugio sarebbe di identificazione impossibile: i fertilizzanti, e molte delle molecole antiparassitarie più moderne, non lasciano traccia, ed è arduo supporre che gli organismi di certificazione, che suggellano la produzione “biologica” con uno-due sopralluoghi annuali, traendo il proprio utile dal numero delle aziende cui rilasciano i propri attestati, sarebbero interessati a scoprire le frodi. Per scongiurare il pericolo che l’intero ordito dell’agricoltura alternativa, ormai florido sistema economico, sia pervaso dalla tara della frode, i suoi alfieri debbono assicurare agli adepti la disponibilità di pratiche sicure, che applicate con meticolosità producano risultati non troppo remoti da quelli dell’agricoltura ortodossa, dai quali deve separarli un divario che possa essere compensato dalle sovvenzioni e dal più elevato prezzo di vendita dei prodotti. Ma risolvere, senza l’impiego di fertilizzanti, insetticidi, anticrittogamici e diserbanti, tutti i problemi tecnici nelle sfere diverse della produzione agricola non è obiettivo agevole: alla soluzione dei cento quesiti in cui l’imperativo si rifrange nella molteplicità delle colture e degli allevamenti la seconda generazione degli alfieri dell’agricoltura alternativa ha dedicato tutte le proprie energie.
Agnosticismo scientifico, quindi, fervente fede nella tecnologia: esprime con chiarezza emblematica l’atteggiamento dei nuovi paladini dell’agricoltura alternativa il testo, vergato per il ventennale di un sodalizio “biologico”, in cui uno dei più attivi, nell’arco tra gli anni Ottanta e Novanta, Enos Costantini, agronomo udinese, riferisce, con apprezzabile lucidità, il proprio percorso di fautore dell’agricoltura liberata dalle molecole di sintesi, di promotore di convegni, seminari ed esperienze in campo apprestate per favorire, assicurando la soluzione dei problemi tecnici più ardui, la moltiplicazione degli adepti della nuova agricoltura.
In un testo vergato con amabile facondia, non può sfuggire a chi dietro la piacevolezza voglia misurare le ragioni ispiratrici, l’insistente riproporsi di espressioni di diffidenza verso la scienza. Ai grandi interrogativi sulla conservazione degli equilibri naturali, sull’innocuità delle pratiche agricole, sulla salubrità degli alimenti, secondo Costantini la scienza sarebbe del tutto incapace di dare risposte certe. Dichiarando di avere setacciato biblioteche intere alla ricerca, sulle pubblicazioni specialistiche, della dimostrazione “scientifica” della nocività delle molecole di sintesi impiegate in agricoltura, in quelle biblioteche Costantini proclama di avere trovato le prove della nocività dei composti chimici, non riconoscerebbe mai di avere scoperto la dimostrazione “scientifica” che una sola di quelle molecole sia innocua. Quando si pronunci sugli effetti ambientali dei prodotti della chimica ogni scienziato professerebbe, secondo Costantini, una personale, opinabile “scienza”: essendo tra loro dissonanti, le “scienze” diverse proposte dalla comunità accademica sarebbero tutte ugualmente inattendibili. E’ la prova della più incondizionata adesione, da parte di un agronomo italiano, alla lezione di Aubert, che nell’agronomo udinese può vantare il più fedele dei discepoli.
Ad avallare gli appunti sull’inutilità della scienza Costantini menziona la propria esperienza universitaria, che giudica inutile siccome nulla avrebbe aggiunto alle solide conoscenze tecniche acquisite all’istituto professionale, il centro di irradiazione di un sapere agronomico capace di risolvere i problemi “in campo”, un sapere pratico e utile di fronte alle inutili, vuote, elucubrazioni accademiche. Agnostico verso la scienza, Costantini esprime un atteggiamento di incondizionata considerazione per la tecnologia agronomica, manifesta la più calorosa considerazione per i promotori delle esperienze, e per gli scambi di conoscenze, che hanno consentito ai coltivatori “biologici” di conservare la fertilità della terra senza somministrare al suolo fertilizzanti industriali, di eliminare le malerbe senza impiegare i diserbanti, di combattere le crittogame senza impiegare altri mezzi che le molecole “naturali” dello zolfo e del rame, di contenere gli insetti parassiti senza gli insetticidi di sintesi.
Un atteggiamento singolare? Su una verità si deve convenire col dottor Costantini. Iscrivendosi all’università ha commesso un errore imperdonabile: se in quattro anni i docenti di ventuno materie non sono riusciti a dimostrargli che senza la scienza la tecnologia moderna è corpo incapace di sopravvivenza, o ha scelto la peggiore delle facoltà italiane o gli bastava davvero la lettura del manuale dell’ortolano e del prontuario del capostalla che gli aveva assicurato l’istituto tecnico.
Pragmatismo filosofico, ambizione scientifica
Conclusa la rassegna degli alfieri della nuova agricoltura protesi a fondare la metodologia che propugnano su originali fondamenta filosofiche, una pretesa i cui coloriti risultati hanno suggerito, sensatamente, il ripudio di ogni ambizione teorica e l’adesione al più pratico credo tecnicistico, una considerazione particolare ed una riflessione conclusiva sono dovute ad un testo redatto secondo un’ispirazione radicalmente diversa, il proposito di comporre l’inventario più completo delle esperienze di agricoltura eterodossa per di verificare il contributo che ciascuna può prestare a definire il quadro dell’agricoltura del futuro, di cui lo stesso testo mira a delineare i caratteri generali, raccogliendo le cento esperienze che considera entro una cornice scientifica unitaria.
E’ il volume Alternative agriculture del National Research Council degli Stati Uniti, un consesso scientifico di prestigio internazionale che ha affidato l’indagine delle metodologie agronomiche estranee ai canoni ordinari ad un comitato di agronomi, genetisti, biologi ed economisti, che nel 1989 hanno enucleato, nell’ampio volume, l’inventario delle esperienze innovative identificate su tutto il territorio dell’Unione. Hanno definito quelle esperienze esempi di “agricoltura alternativa”, un termine scelto rifiutando, significativamente, quelli più ambiziosi di “agricoltura biologica”, “biodinamica”, di “agroecologia”, una scelta in cui è trasparente il rigetto di opzioni filosofiche che trascendano il terreno agronomico. Escluse, peraltro, pretese filosofiche, il lavoro del comitato del National Research Council rivela intenti di sintesi dalle palesi ambizioni scientifiche: al pragmatismo filosofico si compone la lucidità dei propositi conoscitivi.
Negli ultimi tre quarti di secolo l’agricoltura americana ha conseguito, riconoscono i membri del comitato, traguardi straordinari di produttività, ma quei traguardi non sono stati realizzati senza costi, che debbono identificarsi nell’inquinamento delle falde freatiche provocato da fertilizzanti e antiparassitari, nei rischi alla salute di chi esegue i trattamenti antiparassitari e di chi consumi prodotti trattati impropriamente, nel ricorso sistematico e pervasivo ai farmaci negli allevamenti, un ricorso che può condurre alla creazione di ceppi batterici resistenti, potenzialmente nocivi non solo agli animali ma anche all’uomo Di fronte alle conseguenze nocive delle pratiche moderne vi sono agricoltori che hanno reagito cercando di evitare, o di limitare, l’impiego di fertilizzanti e antiparassitari nei propri campi e nei propri frutteti, di antibiotici nelle proprie stalle. Quelle esperienze hanno raggiunto un numero tanto consistente da imporre un’analisi che verifichi quali contributi esse possano prestare, generalizzandone le pratiche, al superamento dei problemi creati dalla tecnologia agraria moderna.
Le motivazioni ideali che sospingono i tentativi di agricoltura alternativa compongono la gamma più varia: tra i protagonisti alcuni mirano all’esclusione dei prodotti della chimica, altri ne operano riduzioni di entità diversa, qualcuno si propone di preservare le peculiarità del suolo, qualcuno di ridurre gli sprechi energetici. Il comitato non si è interessato delle motivazioni, ha effettuato la verifica dell’efficacia produttiva delle scelte aziendali, ha mirato ad illustrare, nel rapporto, soluzioni tecniche che si siano rivelate funzionali, in ambienti geografici differenti, per colture diverse, in contesti aziendali peculiari. Operando il proprio inventario ha verificato che gli agricoltori che impiegano tecniche “alternative” rivelano spesso un’abilità superiore a quella media, e grazie a quell’abilità realizzano risparmi, e ottengono produzioni tali da ricavarne redditi eccellenti, la misura decisiva della funzionalità di una pratica agronomica, il metro che impone di considerare le aziende che la applicano aziende protese al futuro.
Da cento esperienze apparentemente disorganiche, la constatazione, quindi, che esiste la possibilità di congegnare pratiche agricole più aderenti agli equilibri naturali di quelle che esercita la maggioranza degli agricoltori americani, una constatazione che dimostra l’operare, nel tessuto agrario degli Stati Uniti, di stimoli vitali di rinnovamento, un rinnovamento verso quell’agricoltura “sostenibile” di cui auspicano l’avvento tanto gli uomini di scienza quanto i membri della collettività civile sensibili alle prospettive dei rapporti tra l’uomo e le risorse naturali.
Nessuna professione di fede, quindi, nessun manifesto sul futuro dell’agricoltura e del Pianeta: nello spirito di una profonda razionalità scientifica l’analisi di esperienze che possono considerarsi precorrimenti di un futuro che non potrà accettare, in nome dell’orrore per la chimica, la forma più moderna di superstizione, la rinuncia alla produzione delle quantità di derrate che pretende un consorzio umano che somma sei miliardi di membri, che dovrà adeguare i propri mezzi adottando metodologie che assicurino che le risorse del suolo, delle acque, delle specie animali e vegetali non siano sacrificate agli imperativi, pure pressanti, del presente, siano usate razionalmente affinché il loro impiego per appagare le esigenze di chi abita oggi il Pianeta non pregiudichi la loro capacità di soddisfare i bisogni di chi lo abiterà domani.
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