VIII - In cui l’antico e solenne valzer tedesco è mutato in turbine.

../VII ../IX IncludiIntestazione 29 gennaio 2017 100% Da definire

VIII - In cui l’antico e solenne valzer tedesco è mutato in turbine.
VII IX
[p. 38 modifica]

VIII.


In cui l’antico e solenne valzer tedesco è mutato in turbine.


Ma se gli spettatori dopo d’aver lasciato il teatro ripresero l’usata tranquillità e se ne tornarono placidamente a casa non conservando altro che una specie di ebetismo passeggero, avevano però subito una straordinaria esaltazione, ed affranti, rotti come dopo un’orgia, caddero grevemente nei loro letti. [p. 39 modifica]

Ora al domani ciascuno ebbe come un ricordo di quanto era accaduto alla vigilia. In fatti ad uno mancava il cappello perduto nel tumulto, ad un altro la falda dell’abito lacerata nella mischia; a questa la fina scarpetta di raso, a quella la mantiglia delle feste. Tornò la memoria agli onesti borghesi ed insieme colla memoria una certa vergogna della loro inqualificabile effervescenza, che appariva ad essi come un’orgia di cui fossero stati inconsciamente gli eroi. Non ne parlavano, non ci volevano più pensare, ma il personaggio più sbalordito della città fu ancora il borgomastro van Tricasse. Il domani mattina, svegliandosi, egli non potè ritrovare la sua parrucca. Lotche aveva cercato da per tutto, nulla. La parrucca era rimasta sul campo di battaglia. Quanto a farla reclamare da Jean Mistrol, il trombettiere uffiziale del comune, no; meglio era fare il sagrificio di quella capigliatura posticcia che mettersi così in piazza contro il decoro del primo magistrato della città.

Il degno van Tricasse così pensava col corpo rotto, la testa greve, la lingua grossa, il petto ardente. Egli non provava alcuna voglia di levarsi, al contrario, ed il suo cervello lavorò più in quel mattino che non avesse lavorato in quarant’anni forse. L’onorevole magistrato rifaceva nel proprio spirito tutti gli incidenti di quell’inesplicabile rappresentazione e li andava ravvicinando ai fatti compiuti, or non è molto, alla serata del dottor Ox; egli cercava le ragioni di questa singolare eccitabilità che due volte si era fatta manifesta ne’ suoi magistrati più lodevoli.

«Ma che avviene adunque? si domandava egli; quale spirito di vertigine si è impadronito della mia tranquilla città di Quiquendone? Forse che dobbiamo impazzire e che bisognerà fare della città un ampio ospedale! Perchè infine ieri ci eravamo tutti, notabili, consiglieri, giudici, avvocati, medici, accademici, e tutti, se i miei ricordi sono fedeli, tutti abbiamo subito quell’accesso di furiosa pazzia! Ma che vi era adunque in quella musica infernale? È inesplicabile! Pure io non aveva mangiato nè bevuto nulla che potesse produrre in me una [p. 40 modifica]tale esaltazione! No, ieri a pranzo una fetta di vitello troppo cotto, qualche cucchiaio di spinacci con zuccaro, due uova sbattute e due bicchieri di birrone mescolato con acqua pura; tutto ciò non può dare al capo! No, vi è qualche cosa che io non mi posso spiegare, e siccome, dopo tutto, io sono responsabile degli atti de’ miei amministrati, farò fare un’inchiesta.

Se non che l’inchiesta decisa dal consiglio municipale non produsse alcun risultato. Se i fatti erano palesi, le cause sfuggirono alla sagacia dei magistrati. D’altra parte era tornata la calma negli spiriti, e colla calma l’oblio degli eccessi. I giornali del luogo evitarono anzi di parlarne, ed il resoconto della rappresentazione pubblicato nel Memoriale di Quiquendone tacque assolutamente di quella febbre di tutto un pubblico.

E nondimeno, se la città riprese la flemma usata, se ridivenne in apparenza fiamminga come prima, in fondo si sentiva che l’indole ed il temperamento de’ suoi abitanti a poco a poco si mutavano. Si avrebbe detto invero col medico Domenico Custos, che spuntavano loro de’ nervi.

Spieghiamoci per altro. Codesto mutamento incontrastabile ed incontrastato, non avveniva che in certe condizioni. Quando i Quiquendonesi camminavano per le vie della città, all’aria aperta, sulle piazze, lungo il Vaar, essi erano sempre quella buona pasta di gente fredda e metodica d’una volta; così pure quando si confinavano nelle loro abitazioni, gli uni lavorando colle mani, gli altri col cervello, questi non facendo nulla, quelli non pensando di più. La loro vita privata era silenziosa, inerte, vegetativa come prima. Nessuna contesa, nessun rimprovero nelle famiglie, nessuna accelerazione dei movimenti del cuore, nessun eccitamento del midollo encefalico. La media delle pulsazioni rimase quello che era, nel buon tempo andato, da cinquanta a cinquantadue al minuto.

Ma, fenomeno assolutamente inesplicabile che avrebbe sfidato la sagacia dei migliori fisiologi di quel tempo, se gli abitanti di Quiquendone non si modificavano nella vita privata, si tra sformavano al contrario visibilmente nella vita comune, in quei rapporti da uomo ad uomo di cui essa è cagione. [p. 41 modifica]

Si riunivano in un edificio pubblico? Non poteva più andare, per servirci dell’espressione del commissario Passauf. Alla borsa, al palazzo comunale, all’anfiteatro dell’accademia, alle adunanze del consiglio come alle riunioni dei dotti, si produceva una specie di vivificazione, ed un eccitamento bizzarro si impadroniva subito degli astanti. In capo ad un’ora le parole erano già acri, dopo due ore la discussione degenerava in contesa, le teste si scaldavano e si veniva alle ingiurie personali. Perfino nel tempio, durante la predica, i fedeli non potevano intendere freddamente il ministro van Stabel, il quale d’altra parte si dimenava sul pulpito e li ammoniva più severamente che non fosse uso fare. Infine codesto stato di cose fu cagione di nuove risse più gravi, ahimè, di quella del medico Custos e dell’avvocato Zitto, e se non resero mai necessario l’intervento dell’autorità, gli è che i litiganti, tornati nelle proprie case, vi trovavano insieme colla calma l’oblio delle offese fatte e ricevute.

Per altro questa particolarità non aveva potuto impressionare spiriti assolutamente impotenti a riconoscere ciò che avveniva entro di sè. Un solo personaggio della città, quello medesimo di cui il consiglio pensava da trent’anni a sopprimere la carica, il commissario civile Michele Passauf, aveva fatto questa osservazione che l’accalorarsi, nullo nelle case private, si rivelava prontamente nei pubblici edifici, e si domandava non senza una certa ansietà che cosa avverrebbe se mai codesto eretismo venisse a propagarsi fino alle case della borghesia, e se l’epidemia — era la parola che egli adoperava — si spandesse nelle vie della città. Allora non più oblio delle ingiurie, non più calma, non più intermittenza di delirio, ma un’infiammazione permanente che precipiterebbe senza dubbio i Quiquendonesi gli uni contro gli altri.

«E che avverrà allora? si domandava atterrito il commissario Passauf, come arrestare questi furori selvaggi? Come frenare questi temperamenti sfrenati? La mia carica non sarà più una sinecura e bisognerà pure che il consiglio si determini a raddoppiarmi lo stipendio, se pure non si dovrà cacciar me stesso in gattabuia per infrazione dell’ordine pubblico. [p. 42 modifica]

Ora questi giustissimi timori incominciarono ad avverarsi. Dalla borsa, dal tempio, dal teatro, dalla casa comunale, dalla accademia, dal mercato, il male fece invasione nelle abitazioni private, e ciò meno di quindici giorni dopo la terribile rappresentazione degli Ugonotti. Fu nella casa del banchiere Collaert che si manifestarono i sintomi dell’epidemia.

Questo ricco personaggio dava un ballo, od almeno una serata alle persone notevoli della città. Egli aveva emesso alcuni mesi prima un prestito di trentamila franchi che era stato sottoscritto per tre quarti, e per riconoscere quel trionfo finanziario, egli aveva aperto le sue sale e dato una festa a’ suoi compatriotti.

Si sa in che cosa consistono questi ricevimenti fiamminghi, di cui la birra e gli sciroppi fanno in generale tutte le spese. Alcune conversazioni sul tempo che fa, sull’apparenza dei raccolti, sul buon stato dei giardini, sulla cultura dei fiori e specialmente dei tulipani; ogni tanto una danza lenta e compassata come un minuetto, qualche volta un valzer, ma uno di quei valzer tedeschi che non fanno più d’un giro e mezzo al minuto e nei quali i ballerini si tengono abbracciati lontano l’un dall’altro quanto permette la lunghezza delle loro braccia; tale è l’ordinario di codesti balli frequentati dalla classe elegante di Quiquendone. La polka, dopo di essere stata messa a quattro tempi, aveva pur cercato di attecchirvi; ma i ballerini rimanevano sempre indietro dell’orchestra per quanto si battesse lenta la misura; onde vi si aveva dovuto rinunciare.

Queste tranquille riunioni nelle quali i giovinotti e le giovinette trovavano un onesto e moderato piacere, non si erano mai accalorate disgustosamente. Perchè adunque in quella sera in casa del banchiere Collaert gli sciroppi parvero trasformarsi in vini alcoolici, in sciampagna spumante, in punch incendiarii? Perchè verso il mezzo della festa una specie d’ebrietà inesplicabile si impadronì di tutti gli invitati? Perchè il minuetto degenerò in salterello? Perchè i professori d’orchestra affrettarono il tempo? Perchè, come in teatro, le candele splendettero d’un bagliore inconsueto? Qual corrente [p. 43 modifica]elettrica invase le sale del banchiere? D’onde avvenne che le coppie si riavvicinarono, che le mani si strinsero convulsivamente, che cavalieri soli si segnalarono con qualche passo arrischiato durante la pastorella già così grave, così solenne, così maestosa?

Ahi! Quale Edipo avrebbe potuto rispondere a tutti questi insolubili quesiti? Il commissario Passauf, presente alla serata, vedeva bene che l’uragano si avvicinava, ma non poteva dominarlo, non poteva fuggirlo e sentiva come un’ebbrezza salirgli al cervello. Tutte le sue facoltà fisiologiche e passionali si accrescevano; lo si vide più volte gettarsi sulle confetture e vuotare i vasoi come se fosse uscito da un lungo digiuno. Frattanto le danze si accaloravano. Un lungo mormorio, pari ad un sordo ronzio, usciva da tutti i petti. Si ballava, si ballava davvero. I piedi si agitavano con crescente frenesia; i volti si imporporavano come faccie di Sileno; gli occhi splendevano come carbonchi. La fermentazione generale era spinta al massimo grado.

E quando l’orchestra intonò il valzer del Freischütz, e quando questo valzer così tedesco e d’un movimento così lento, fu attaccato in furia dai suonatori, ah! non fu più un valzer, ma un turbine insensato, una rotazione vertiginosa, una ridda degna d’essere diretta da un qualche Mefistofele che battesse il tempo con un tizzone acceso! Poi un galop, un galop infernale per tutta un’ora, senza requie, trasse nelle sue spire attraverso le sale, i salotti, le anticamere, le scale, dalla cantina al granaio della ricca casa, i giovanotti, le giovinette, i padri, le madri, le persone di ogni età, d’ogni peso, d’ogni sesso; il grosso banchiere Collaert, la signora Collaert, i consiglieri, il gran giudice, ed i magistrati e Niklausse e la signorina van Tricasse ed il borgomastro van Tricasse e lo stesso commissario Passauf, il quale non potè mai ricordarsi chi fosse la sua ballerina in quella notte. Ma essa non lo dimenticò, e da quel giorno essa rivide ne’ suoi sogni l’ardente commissario che l’allacciava con una stretta appassionata!... Essa, l’amabile Tatanemanzia!