Trionfi (Bortoli)/Trionfo della morte/Capitolo II
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DEL TRIONFO
DELLA MORTE
CAPITOLO SECONDO.
La notte che seguì l’orribil caso
Che spense il sole, anzi ’l ripose in cielo,
Di ch’io son qui come uom cieco rimaso,
Spargea per l’aere il dolce estivo gelo
5Che con la bianca amica di Titone
Suol da’ sogni confusi torre il velo,
Quando donna sembiante a la stagione,
Di gemme orïentali incoronata,
Mosse ver me da mille altre corone;
10E quella man già tanto desiata
A me parlando e sospirando porse,
Onde eterna dolcezza al cor m’è nata:
- Riconosci colei che ’n prima torse
I passi tuoi dal publico viaggio? -
15Come ’l cor giovenil di lei s’accorse,
Così, pensosa, in atto umile e saggio,
S’assise, e seder femmi in una riva
La qual ombrava un bel lauro ed un faggio.
- Come non conosco io l’alma mia diva? -
20Risposi in guisa d’uom che parla e plora
- Dimmi pur, prego, s’ tu se’ morta o viva. -
- Viva son io, e tu se’ morto ancora, -
Diss’ella - e sarai sempre, infin che giunga
Per levarti di terra l’ultima ora.
25Ma ’l tempo è breve e nostra voglia è lunga;
Però t’avvisa, e ’l tuo dir stringi e frena,
Anzi che ’l giorno, già vicin, n’aggiunga. -
Et io: - Al fin di questa altra serena
Ch’ha nome vita, che per prova il sai,
30Deh, dimmi se ’l morir è sì gran pena. -
Rispose: - Mentre al vulgo dietro vai
Et a la opinïon sua cieca e dura,
Esser felice non puoi tu già mai.
La morte è fin d’una pregione oscura
35A l’anime gentili; a l’altre è noia,
Ch’hanno posto nel fango ogni lor cura.
Et ora il morir mio, che sì t’annoia,
Ti farebbe allegrar, se tu sentissi
La millesima parte di mia gioia. -
40Così parlava, e gli occhi avea al ciel fissi
Devotamente; poi mosse in silenzio
Quelle labbra rosate infin ch’i’ dissi:
- Silla, Mario, Neron, Gaio e Mezenzio,
Fianchi, stomachi e febri ardenti fanno
45Parer la morte amara più ch’assenzio. -
- Negar - disse - non posso che l’affanno
Che va inanzi al morir non doglia forte,
E più la tema de l’eterno danno:
Ma pur che l’alma in Dio si riconforte,
50E ’l cor che ’n sé medesmo forse è lasso,
Che altro ch’un sospir breve è la morte?
Io aveva già vicin l’ultimo passo,
La carne inferma, e l’anima ancor pronta,
Quando udi’ dir in un son tristo e basso:
55«O misero colui che’ giorni conta,
E pargli l’un mille anni! Indarno vive,
Ché seco in terra mai non si raffronta;
E cerca ’l mare e tutte le sue rive,
E sempre un stil, ovunque fusse, tenne:
60Sol di lei pensa, o di lei parla o scrive».
Allora in quella parte onde ’l suon venne
Gli occhi languidi volgo, e veggio quella
Che amò noi, me sospinse e te ritenne.
Riconobbila al volto e a la favella,
65Che spesso ha già ’l mio cor racconsolato,
Or grave e saggia, allor onesta e bella.
E quando io fui nel mio più bello stato,
Ne l’età mia pia verde, a te più cara,
Ch’a dire et a pensare a molti ha dato,
70Mi fu la vita poco men ch’amara
A rispetto di quella mansueta
E dolce morte ch’a’ mortali è rara;
Ché ’n tutto quel mio passo er’io più lieta
Che qual d’esilio al dolce albergo riede;
75Se non che mi stringea di te sol pieta. -
- Deh, madonna, - diss’io - per quella fede
Che vi fu, credo, al tempo manifesta,
Or più nel volto di chi tutto vede,
Creovvi Amor pensier mai ne la testa
80D’aver pietà del mio lungo martire,
Non lasciando vostr’alta impresa onesta?
Che’ vostri dolci sdegni e le dolci ire,
Le dolci paci ne’ belli occhi scritte,
Tenner molti anni in dubbio il mio desire. -
85A pena ebb’io queste parole ditte,
Ch’io vidi lampeggiar quel dolce riso
Ch’un sol fu già di mie virtuti afflitte.
Poi disse sospirando: - Mai diviso
Da te non fu ’l mio cor, né già mai fia;
90Ma temprai la tua fiamma col mio viso,
Perché a salvar te e me null’altra via
Era e la nostra giovenetta fama;
Né per ferza è però madre men pia.
Quante volte diss’io meco: «Questi ama,
95Anzi arde: or si conven ch’a ciò provveggia,
E mal pò provveder chi teme o brama.
Quel di fuor miri, e quel dentro non veggia».
Questo fu quel che ti rivolse e strinse
Spesso, come caval fren, che vaneggia.
100Più di mille fïate ira dipinse
Il volto mio ch’Amor ardeva il core;
Ma voglia in me ragion già mai non vinse.
Poi se vinto ti vidi dal dolore,
Drizzai in te gli occhi allor soavemente,
105Salvando la tua vita e ’l nostro onore;
E se fu passïon troppo possente,
E la fronte e la voce a salutarti
Mossi, et or timorosa et or dolente.
Questi fur teco miei ingegni e mie arti:
110Or benigne accoglienze et ora sdegni
(tu ’l sai che n’hai cantato in molte parti),
Ch’i’ vidi gli occhi tuoi talor sì pregni
Di lagrime, ch’ i’ dissi: «Questi è corso,
Chi non l’aita, sì ’l conosco ai segni»:
115Allor provvidi d’onesto soccorso;
Talor ti vidi tali sproni al fianco,
Ch’ i’ dissi: «Qui conven più duro morso».
Così, caldo, vermiglio, freddo e bianco,
Or tristo, or lieto, infin qui t’ho condutto
120Salvo, ond’io mi rallegro, benché stanco. -
Et io: - Madonna, assai fora gran frutto
Questo d’ogni mia fé, pur ch’ i’ ’l credessi -
Dissi tremando e non col viso asciutto.
- Di poca fede! Or io, se nol sapessi,
125Se non fosse ben ver, perché ’l direi? -
Rispose, e ’n vista parve s’accendessi.
- S’al mondo tu piacesti agli occhi miei,
Questo mi taccio; pur quel dolce nodo
Mi piacque assai che intorno al cor avei;
130E piacemi il bel nome, se vero odo,
Che lunge e presso col tuo dir m’acquisti;
Né mai in tuo amor richiesi altro che ’l modo.
Quel mancò solo; e mentre in atti tristi
Volei mostrarmi quel ch’ i’ vedea sempre,
135Il tuo cor chiuso a tutto ’l mondo apristi.
Quinci il mio gelo, onde ancor ti distempre;
Ché concordia era tal de l’altre cose,
Qual giunge Amor, pur ch’onestate il tempre.
Fur quasi eguali in noi fiamme amorose,
140Almen poi ch’ i’ m’avvidi del tuo foco;
Ma l’un le palesò, l’altro l’ascose.
Tu eri di mercé chiamar già roco,
Quando tacea, perché vergogna e tema
Facean molto desir parer sì poco.
145Non è minor il duol perch’altri il prema,
Né maggior per andarsi lamentando;
Per fizïon non cresce il ver né scema.
Ma non si ruppe almen ogni vel, quando
Soli i tuo’ detti, te presente, accolsi,
150Dir più non osa il nostro amor cantando?
Teco era il core, a me gli occhi raccolsi;
Di ciò, come d’iniqua parte, duolti,
Se ’l meglio e ’l più ti diedi, e ’l men ti tolsi!
Né pensi che, perché ti fossin tolti
155Ben mille volte, e più di mille e mille
Renduti e con pietate a te fur volti.
E state foran lor luci tranquille
Sempre ver te, se non ch’ebbi temenza
De le pericolose tue faville.
160Più ti vo’ dir per non lasciarti senza
Una conclusïon che a te fia grata
Forse d’udir in su questa partenza:
In tutte l’altre cose assai beata;
In una sola a me stessa dispiacqui,
165Che ’n troppo umil terren mi trovai nata.
Duolmi ancor veramente ch’ i’ non nacqui
Almen più presso al tuo fiorito nido;
Ma assai fu bel paese ond’io ti piacqui,
Ché potea il cor del qual sol io mi fido,
170Volgersi altrove, a te essendo ignota,
Ond’io fora men chiara e di men grido. -
- Questo no - rispos’io - perché la rota
Terza del ciel m’alzava a tanto amore,
Ovunque fusse, stabile et immota! –
175- Or così sia - diss’ella. - I’ n’ebbi onore
Ch’ancor mi segue; ma per tuo diletto
Tu non t’accorgi del fuggir de l’ore.
Vedi l’Aurora de l’aurato letto
Rimenar ai mortali il giorno, e ’l sole
180Già fuor de l’oceano infin al petto.
Questa vien per partirne, onde mi dole.
S’a dir hai altro, studia d’esser breve,
E col tempo dispensa le parole. -
- Quant’io soffersi mai, soave e leve -
185Dissi - m’ha fatto il parlar dolce e pio;
Ma ’l viver senza voi m’è duro e greve.
Però saper vorrei, madonna, s’io
Son per tardi seguirvi, o se per tempo. -
Ella, già mossa, disse: - Al creder mio,
190Tu starai in terra senza me gran tempo.