Trattato di archeologia (Gentile)/Arte romana/II/Secondo periodo/Osservazioni generali
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Osservazioni generali.
Le opere greche importate in Roma. — L’arte concentrata in Roma in questo periodo dà alla grande città tanti monumenti e tale artistica energia da bastare per tutti i secoli avvenire. Ma non è un’arte importata per conquista, per forza politica, essendone tolti dalle proprie sedi i più antichi e più splendidi prodotti; è il focolare dell’attività artistica trasportato a Roma. I conquistatori romani nei loro trionfi portano in Roma gli oggetti d’arte più preziosi delle città conquistate, come, con uno stesso sentimento ma in proporzioni incomparabilmente minori, fecero i Francesi invasori d’Italia sul finire del secolo passato. Prime ad essere spogliate furono le città di Magna Grecia e di Sicilia, poi quelle della Grecia e dell’Asia.
Nell’anno 212 av. C. M. Marcello conquistava Siracusa, ne traeva molte opere d’arte per decorare il tempio dell’Onore e della Virtù, fatto erigere presso Porta Capena. Neil’anno 210 av. C., Fabio Massimo, occupata Taranto, ne fece togliere per trasportarlo in Roma l’Ercole colossale, opera di Lisippo.
Nell’anno 197 av. C., T. Quinzio Flaminino, vincitore di Filippo di Macedonia, tolse grande quantità di statue di bronzo e di marmo, e vasi preziosi di finissimo lavoro alle città macedoniche e greche1.
M. Fulvio Nobiliore, vincitore e trionfatore degli Etoli e dei Cefallenî nell’anno 589 av. C., portò in Roma ducento ottantacinque statue di bronzo e ducento trenta di marmo2.
Nell’anno 168 av. C. il trionfatore di Perseo, Paolo Emilio, che seco conduceva dalla Grecia Metrodoro, portò in Roma ducento cinquanta carri di statue e di quadri; fra queste opere d’arte era una Athena di bronzo, lavoro di Fidia, posta poi nel tempio della Fortuna. Tante spogliazioni non esaurivano la Grecia; in Macedonia trovò molto da raccogliere ancora Metello Macedonico vincitore di Andrisco Pseudo-Filippo nell’anno 148 a. C.; nel bottino fu compreso il grande gruppo di Lisippo rappresentante Alessandro fra suoi generali alla battaglia del Granico.
Quasi potrebbe dirsi che queste spogliazioni fossero come primi assaggi in confronto alla quantità di opere onde si ornarono i trionfi seguenti, dopoché L. Mummio ebbe conquistata Corinto nell’anno 146 av. C. E innanzi a tali e tanti prodotti di una civiltà artistica così splendida, quale era la condizione di coltura e di sentimento dei conquistatori? Basta a dimostrarlo l’aneddoto riferito da Vellejo Patercolo (I. 13): L. Mummio console era tanto rozzo ed imperito che ai soldati trasportanti quadri e statue dei più insigni maestri greci, minacciava che, se mai avessero guaste o perdute quelle opere, le avrebbero dovute restituire. E a questo aggiungi ancora che Vellejo, scrittore dei tempi di Tiberio imperatore, ciò dicendo, pone quel dubbio, tutto proprio della mente romana, se cioè per Corinto meglio non fosse stato rimanersene rozza ed indotta, anzichè toccare il sommo nella coltura di arti corruttrici.
Nuovi e splendidissimi trionfi celebrarono poi Silla dopo l’espugnazione di Atene nella prima guerra contro Mitridate, l’anno 86 av. C.; e Lucullo nell’anno 68 av. C., vincitore della seconda guerra contro quel re; e Pompeo Magno, che in una terza guerra lo abbattè, ridusse in soggezione tutta l’Asia anteriore, e celebrò un meraviglioso trionfo nell’anno 61 av. C. E insieme con le antiche opere d’arte affluivano in Roma gli artisti delle nuove scuole greche di Rodi, di Pèrgamo, e d’altre città d’Asia, o come schiavi, o attràttivi dalle molte e grandi occasioni di lavoro e d’onore che là si offrivano. Le sculture, i quadri, i vasi e le relazioni con gli artisti destavano in Roma se non un intimo e sincero amore, certo una grande ammirazione per l’arte greca, che fu assunta come mezzo a render splendide le pompe trionfali, le feste, gli spettacoli, con cui ricchi e nobili cittadini cercavano guadagnarsi il favor popolare; o come mezzo per abbellire le private dimore e per soddisfare al gusto ed al fasto delle classi elette e colte della cittadinanza, cioè di coloro che designavano se stessi come intelligentes, e che, ellenizzando, distinguevansi da quelli che, fedeli al carattere nazionale romano, erano qualificati come idiotae.