Trattatelli estetici/Parte prima/IV. La bellezza e suoi giudici
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IV.
LA BELLEZZA E SUOI GIUDICI.
A definire la bellezza provaronsi con varia fortuna ingegni sommi e mediocri; a renderne il vero, pieno, intelligibile concetto non è riuscito nessuno. Sono cose che meglio intendensi per sentimento, che per via di discorso. Bando dunque alle definizioni, e alle distinzioni sottili, che tormentano l’intelletto senza possibilità d’acquetarlo. Imitiamo l’industria di chi, non potendo abbattere d’un solo tratto di scure una qualche gran pianta, si fa a pertugiarla di molti colpi tutto all’intorno, fino ad assottigliare per modo quel vastissimo tronco, che possa rimanere afterrato da un’ultima scossa. Le definizioni recidono di lancio ogni questione la peggio intralciata, ma vogliono essere adoprate sopra argomenti che le comportino, e, come s’è detto, questa materia della bellezza non soffre di venire a questo modo determinata. Fermiamoci quindi a discorrere del modo ond’essa si considera generalmente da diversi generi di persone, e vediamo se tenendo questo modo indiretto ci vien fatto di carpire alcuna utile deduzione.
Mi sembra che in tre guise diverse, da tre diverse specie di genti si faccia ragione della bellezza. Sono in primo luogo di quelli che considerano la bellezza in sè stessa, assolutamente, ossia secondo alcune regole generali ed astratte, che applicano all’uopo con pertinace esattezza a qualsivoglia l’oggetto che loro si offra da giudicare nel proposito della bellezza. E questa la noiosissima generazione dei pedanti, che armati di certi loro principii, cui chiamano norme infallibili di bellezza, rimangono inflessibili a sentenziare secondo quelli la bontà e malvagità d’ogni opera d’artista. Non veggo a chi meglio che a costoro possa riferirsi l’antichissima favola dell’inumano Procuste, e del suo inumanissimo letto. Vanno costoro a vedere un quadro, una statua? Sfoderano subito, come appunto gli avessero in tasca, i bei paroloni di concorso di linee, sbattimenti d’ombre e di luce, partito, panneggiamento, risalto, e più ch’altro quel terribile costume, tanto facile ad essere offeso da’ gran maestri, quanto ad essere osservato da’ picciolini; e dove alcun che sporga o rientri dalla misura, gridano subito la croce addosso all’artista, il quale, tutto che non intenda quel gergo, e contempli l’opera propria tra malinconico e dispeltoso, pure si acconcia per l’avvenire a ricreare i concelti della propria mente secondo il senno di quelle ciancic. Sono pure questi medesimi pedanti, che, all’ascoltare o tragedia o commedia che sia, mentre altri ingenuamente ride o piange senza badar più che tanto, notano il come dell’andare e del venire d’ogni personaggio, e se la scena rimanga vota, o si muti frammezzo l’atto, ed è questo il meglio che sanno dirti, chiamati a dar giudizio del merito del dramma. Perchè non vanno essi ancora, quando alcuno gl’interroga se tale o tal altra donna sia bella, a misurare di quanto lo spazio ch’è tra il naso e le ciglia sia diverso da quello ch’è tra esso e la bocca, e così d’ogni altra parte? Che altro fece per essi lo studio fuorchè il confinarli noli’ abbaco? Non e’ è divario da essi a quel gramo usuraio, che mai non rimane dal sommare, sottrarre, moltiplicare e dividere; e condotto a un ballo, è straniero a tutto quello che vi si fa, tranne alla somma delle candele che novera una per una, dei ballerini che gli passano davanti ad esser sommali uno per uno, con tutto quel resto d’operazioni aritmetiche che può suggerire l’andirivieni e le varie vicissitudini della festa.
In secondo luogo sono da ricordare coloro i quali non hanno altra guida a giudicare della bellezza salvo le impressioni che ne ricevono. Giudici incompetenti anche questi, alquanto però più rispettabili di que’ primi, in quanto la loro sentenza, sebbene incompleta, si fonda sopra solida base, ch’è la natura umana, ed ha una parte di verità incontrastabile. Ciò che in essi vi ha di difettoso circa il giudicare sta espresso nel detto di quell’antico pittore: olà ciabattino, non più là della scarpa! E se fosse pure invenzione di qualche bell’ingegno, vale più assai quella frase di un lungo trattato. I grandi artisti fecero sempre un gran caso del giudizio pronunziato dagl’idioti intorno alle opere loro, cosi ne avessero fatto meno di quel de’ pedanti! L’Italia, non foss’altro, avrebbe forse in cambio della Conquistata un poema da competere colla Liberata. La grande virtù di chi voglia far proprio vantaggio delle osservazioni degl’idioti sta in ciò, di avvertire alla relazione che ci ha tra la persona e l’oggetto che le si presenta. Manca all’idiota la facoltà del generalizzare, ma per quanto si riferisce alle sensazioni individuali, esse sono in lui bene spesso assai più vivaci che negli altri, e può renderne conto più distintamente, se non con parole, col linguaggio efficacissimo del pianto, del riso, delle mutazioni del volto, e di tutte quell’altre foggie di manifestare l’animo interno anteriori ad ogni civile congregamento.
Sono per ultimo quelli che, non ignari delle opere precedute e delle osservazioni fatte intorno all’arte, e quantunque atti a paragonare le proprie colle altrui sensazioni, per trarne norme di giudizio più generali, mantengono tuttavia in una bella indipendenza di sentimenti il proprio animo, e, se cosi possiamo dire, hanno per mano sinistra la teorica e per destra la pratica, giovandosi d’ambedue a un solo fine, e regolando i movimenti di ciascheduna secondo è loro dettato dall’intelletto e dal cuore loro proprio. Sono questi gli uomini eccellenti, vuoi nel produrre opere d’arte maravigliose, vuoi nel giudicarne: sono questi la cui incontentabilità, si naturale ad ogni nomo, si ripiega su quello che rimane a fare, anzichè sul fatto, e quindi più solleciti nell’indagare che acerrimi nel distruggere; animi in cui più del dispetto può il desiderio, e che preferiscono lo stimolare chi è in corso all’aggravare la mano su chi è caduto. È una leggiadra calunnia, più che mai divulgata al tempo nostro, il pensare che quelli i quali non ammettono certe regole, coniate a modo loro dai pedanti, siano poi insofferenti d’ogni regola. Oh se sapessero quanti ostacoli vede il Genio frapporsi a’ generosi suoi passi, i quali, non che additare, la mediocrità di chi vuol fargli da maestro non sa nè manco immaginare! La vede il Genio quella bellezza, di cui il pedante non sa disegnargli che il nudo carcame, la vede persona viva e complessa quale appare all’idiota, cui manca il modo per ottenerla quel tanto ch’ei vuole, o richiamarla a sè davanti, partita. E questo modo lo trova egli il Genio alcuna volta, interrogando sensazioni che il gramo erudito non conobbe, e che l’illetterato fece inavvertitamente palesi; e come abbia trovato questo modo arcano di perpetuare il bello, ossia di rendere sensibili le forme archetipe e intellettuali, eccoti la passione degl’infelici cognati che loro smuore sul volto al cadere del libro, la rivelazione delle mistiche angoscie della Gran Madre nei canti di Pergolesi, la dispensiera del nettare eterno che contende col vento a poggiar sull’Olimpo ove la manda Canova. Il senso di que’ versi divini, l’armonia di quelle note divine, la leggiadria di quelle forme divine, sono dai pedanti più lodate che intese, più intese che lodate dagl’idioti; e dagli animi privilegiati a inspirarsi alla immagine del bello e intese e lodate, e da taluno, a cui il privilegio della natura fu più segnalato, talvolta pur riprodotte.