Tragedie, inni sacri e odi/Poesie non accolte dall'autore/Nota bibliografica

Poesie non accolte dall'autore - Nota bibliografica

../../Poesie non accolte dall'autore ../Alla sua donna IncludiIntestazione 21 novembre 2021 75% Da definire

Poesie non accolte dall'autore Poesie non accolte dall'autore - Alla sua donna

[p. 365 modifica]



Il sonetto erotico Se pien d’alto disdegno..., di schietta ispirazione alfieriana, fu dal Manzoni scritto tra i sedici e i diciassette anni. Di esso veniva data notizia, fin dal 1829, nel t. III, p. 57-58, delle Opere di Alessandro Manzoni milanese, Firenze, fratelli Batelli, nello scritto, che par certo del Tommasèo, Delle poesie giovenili d’Alessandro Manzoni e quindi del suo modo d’imitare gli antichi. Ma non se ne riferiva se non l’ultimo verso. E il sonetto non fu mai più pubblicato, nemmeno nelle Opere inedite o rare curate dal Bonghi, fino al 1884; quando, di su una copia manoscritta messa in vendita a Parigi, potè stamparlo A. De Gubernatis, nella Revue Internationale (a. I, vol. II, p. 849, fasc. 10 giugno 1884, Firenze) da lui diretta. Posteriormente, Ercole Gnecchi, nel vol. Lettere inedite di A. M., Milano, Cogliati, 1900, p. 151, lo ha ristampato di sull’autografo; che anzi riproduce in facsimile. La nostra stampa, maturalmente, s’attiene scrupolosamente all’autografo. In calce al sonetto è la firma del Manzoni, e la data: 1802.

Il De Gubernatis lo dice composto «pour une dame vénitienne»; ma non credo sia nel vero. Meglio è supporre che l’ispiratrice sia stata quell’angelica Luigina, per la quale il poeta ebbe e serbò vivissimi «sentimenti di venerazione e di devozione», Cfr. Gli anni di noviziato poetico di A. M., avanti al vol. I delle Opere, Milano, Hoepli, 2ª ediz., 1908, p xxxii e lxiii.

Mi par bene riferire le parole con cui il Tommasèo l’annunziava:

«Non aveva il Manzoni compiuti i vent’anni, o già col suo sonetto a Francesco Lomonaco avea mostrato all’Italia poeta ch’e’ dovea sorgere un giorno. Ma prima ancora di quel sonetto, gli amici di quest’ottim’uomo possedevano e conservan tuttora singolari saggi dell’ingegno suo mirabilmente precoce, ch’avrebbero in altri tempi onorato verseggiatori ben più maturi d’età, o di dottrina, e di fama. Noi conosciamo persona dottissima, e cara all’Italia, che del Manzoni possiede un sonetto composto non ancora compiuti i sedici anni; sonetto dove non tanto è da ammirare la coltura dello stile formato a originale imitazione de’ più tersi scrittori del cinquecento, e segnatamente del Casa, quanto la delicatezza d’un sentimento purissimo ed alto. In codesto quasi puerile sonetto, il Poeta dice di riconoscere dall’amore la gentilezza e la nobiltà dell’animo, e conchiude con affermare che queste doti in lui non potranno cambiarsi mai; perché, dic’egli,

Perch’io non posso tralasciar d’amarti.

[p. 366 modifica] Altri avrebbe facilmente potuto esprimere la prima parte di «questo concetto, ch’è una dello solite petrarchesche dimostrazioni «d’un affetto gentile; ma la seconda, espressa nel verso citato ch’è l’ultimo, indica, s’io non m’inganno, una delicatezza più originale, un non so che di semplice insieme e di arguto che arresta il pensiero. Il giovine Poeta di sedici anni non solo ama perchè trova un oggetto degno d’amore, ma spera altamente della dignità dell’indole propria perchè sente ch’e’ non potrà cessar d’amare un oggetto sì degno! Sarebbe difficile trovare qualcosa di simile negl’innumerabili verseggiatori amorosi del cinquecento: e lo stesso platonismo del Petrarca rade volte è così semplice, così delicato. Noi chieggiam perdono al Manzoni dell’aver tratta in luce questa memoria della sua gioventù; ma noi ci siam sentiti un bisogno di dare a conoscere a un pubblico che lo venera un documento prezioso su cui giudicare della quasi innata nobiltà del cor suo. Noi crediamo che sola la sua modestia può della nostra indiscretezza arrossire».

L’altro sonetto, ove il Manzoni ritrae sè medesimo, anch’esso di schietta ispirazione alfieriana, è del 1801. Corse manoscritto tra le mani degli amici e ammiratori del poeta, e non fu stampato se non dopo la sua morte. Esempliamo l’autografo, che è alla Braidense, ed è stato riprodotto a p. xxix del cit. discorso su Gli anni di noviziato poetico.

Il sonetto al Lomonaco fu stampato alla p. 4 del I vol. delle Vite degli eccellenti Italiani, composte per Francesco Lomonaco, Italia, 1802, con l’intestazione: «A Francesco Lomonaco. Sonetto per la Vita di Dante, di Alessandro Manzoni, giovine pieno di poetico ingegno ed amicissimo dell’autore». Mi attengo a questo testo.

Il Lomònaco fu una singolare figura d’uomo e di patriotta. Nato il 22 novembre 1772 a Montalbano Jonico (Basilicata), amico e discepolo in Napoli di Francesco Conforti, di Mario Pagano e di Domenico Cirillo, prese viva parte alla preparazione e alla proclamazione della Repubblica Partenopea del 1799. Imprigionato e condannato a morte, riuscì, dicono, per un fortunato errore di scrittura (nella lista dei condannati l’amanuense lo aveva ribattezzato Lamanica!), a svignarsela. Per la via di Marsiglia, si rifugiò a Parigi; dove presentò al ministro della guerra Carnot un Rapporto, che divenne famoso, sulle segrete cagioni e su’ principali avvenimenti della catastrofe napoletana, sul carattere e la condotta del Re, della Regina di Sicilia, e del famoso Acton. La battaglia di Marengo (14 giugno 1800) gli riaprì la via dell’Italia; e venne a stare in Milano, dove diede alle stampe il suo Rapporto. Il 17 pratile dell’anno IX (6 maggio 1801) attesta d’aver curato e di curare, «in qualità di medico, il cittadino Foscolo, preso da affezioni coliche ed ippocondriache, che gli producono una febbre giornaliera con dolori interni». Il 21 brumaio dell’a. X (12 nov. 1801), «prega il Ministro della Guerra perchè lo liberi dalla persecuzione cui al presente sono soggetti i suoi compatrioti»; e a piè di pagina, il Monti raccomanda l’istanza, «e si fa mallevadore per la moralità» del postulante. Nell’e[p. 367 modifica]state del 1803, «è incaricato di scrivere lo gesta dei più illustri Capitani italiani», per cui «ottiene dal Ministro della Guerra la tenue ricompensa di lire 90 mensili»; e il 28 agosto, il generale di brigata Bonfanti «lo raccomanda al suo successore, non meno che al Ministro della Guerra, come giovine studioso, di ottimo carattere, bramoso di occupazione, ed infelice», Nel 1805 fu chiamato a insegnare la Storia e la Geografia nella r. Scuola Militare, recentemente creata a Pavia, trasformando il Collegio Ghislieri. Napoleone ordinava che s’infranciosasse ogni nostra istiuzione. «Il faut avoir soin», prescriveva da Fontainebleau ai rettori della Scuola, «de faire une liste d’un millier de livres français: tout ce que peut franciser les élèves». Ma il Lomonaco, se molto ammirava l’avventuriero còrso, ammirava moltissimo il misogallo Alfieri. «Fra l’immensa schiera degli esseri a figura umana nei quali mi sono imbattuto», lasciò scritto (Opere di F. L., Lugano, 1831-37, v. IV, p. 152-3), «non ne ho ravvisato che due veramente originali: l’uno è Napoleone, l’altro l’Alfieri, entrambi degni di essere appellati uomini nell’età in cui mi vivo». E a buon conto, nel Discorso inaugurale del suo insegnamento, rievocò l’immagine e gli scritti di Machiavelli, Bruno, Campanella, Gravina, Vico: tutto ciò che di meno francese e di più schiettamente italiano aveva potuto! Naturalmente fu subito ammonito di conformarsi alle «istruzioni superiori». Il poveromo dovette affrettarsi a pregare il Ministro «di riposare su la sincerità de’ suoi sentimenti», e a protestare: «Se mancherò di forze nella luminosa carriera che l’alta munificenza del Governo mi ha aperta, non mancherò certamente di zelo». Difatto era diligentissimo, e dava lezione tutti i giorni; quantunque assai scarsamente retribuito. Fra insidiato da colleghi malevoli; e le inimicizie nascoste esplosero in una vera persecuzione quando, nel 1809, egli ebbe la cattiva idea di pubblicare a Milano i suoi Discorsi letterarj e filosofici. Il Segretario generale della P. I., ch’egli credeva amico e da cui implorava protezione, richiamò su di essi l’attenzione e i fulmini del Consigliere Segretario di Stato. «Quest’opera», asseriva (13 maggio 1809), «è sparsa di proposizioni, quando contrarie ai principj del Governo e della politica, non senza frequenti allusioni ingiuriose e maligne, tutte a fomentare principj sediziosi, quando imprudenti e false, quando sudicie e ributtanti, e cariche di lascivia e di laidezza intollerabile». L’effetto fu che l’edizione fu sequestrata; e invano l’indebitato autore ricorse al Ministro dell’Interno, ricordandogli tra l’altro «che la Bibbia Sacra ha servito di spada agli eretici per combattere ed atterrare le celesti verità», e che l’Augustissimo Monarca aveva proclamato che «la libertà di stampa è la miglior conquista che il secolo presente abbia fatta su’ secoli trapassati». Povero illuso! Scriveva così il 17 maggio 1809; e nel pomeriggio del 1º settembre si buttava nel Navigliaccio di Pavia, dond’era estratto cadavere. Di questa sua decisione aveva dato notizia al fratello lontano, scrivendogli: «Dopo l’epoca della stampa del mio ultimo libro, io sono stato bersaglio della maldicenza, delle delazioni le più infami e della calunnia. I miei fieri implacabili nemici, non contenti di tutto ciò, muovono ora tutte le [p. 368 modifica]macchine per perdermi... Le prove che ne ho sono tanto lampanti, che non ammettono ombra di dubbio. Ma perchè ciò non accada, ho deliberato di troncarmi la vita. Se vissi sempre indipendente e glorioso, voglio morire indipendente e gloriosissimo».

Nel c. III del poemetto giovanile Il trionfo della Libertà il Manzoni si giovò largamente delle informazioni avute dal profugo sugli atroci avvenimenti della repressione borbonica della Repubblica Partenopea; e ai versi (che sono una curiosa anticipazione d’uno dei più felici movimenti lirici del Nome di Maria: «In che lande selvagge...»):

Ma in quale arena mai grido non giunge
     Di sua nequizia e de’ fatti empi e rei;
     E sia pur quanto esser si voglia lunge?


appose la nota: «Leggasi l’energico e veramente vesuviano rapporto fatto da Francesco Lomonaco, patriota napoletano». Pare lo soccorresse in ogni maniera (v. la lettera al Mustoxidi del 22 ott. 1803); e certamente lo raccomandò al Monti «nelle sue mire per una cattedra».

Ringraziò poi l’amico illustre «per le premure che prendeva a favore d’un uomo che stimo ed amo per la sua probità; e se i miei preghi», soggiungeva (nella lett. da Parigi, 31 agosto 1805), «valgono appo te, te ne fo perchè tu le continui». Il Lomonaco, tra le Vite degli eccellenti italiani, aveva narrata pur quella del Beccaria: e ciò gli sarà valsa la benevolenza anche di donna Giulia. Nei Discorsi letterarj e filosofici poi, nel III, dopo d’aver fatto i nomi di Dante Petrarca Michelangelo Machiavelli Alfieri come magnifici esempi di originalità, egli citava, con dignitosa riservatezza, un emistichio del Carme in morte dell’Imbonati. «Il genio», vi diceva, «invece di essere imitatore, sdegna di leggere per esser letto; a differenza della pedanteria, che legge sempre e non è letta mai: o se qualche volta è letta a caso, non è mai riletta, non mai meditata. Il genio, orgoglioso del sentimento delle sue forze, ardisce sempre nuovi slanci, e se rovescia, gode almeno che si dica: ...su l’orma propria ei giace». — Cfr. G. Natali, La vita e il pensiero di F. Lomonaco, Napoli, 1912, dal vol. XLII degli Atti della R. Accad. di Scienze Mor. e Polit.; e F. Lomonaco e il sentimento nazionale nell’età napoleonica, nella «Nuova Antologia», 1º nov. 1912. — Carteggio del M., I, p. 5-6 ss. — Saggio storico sulla rivoluzione napolet. del 1799 di V. Cuoco, seguito dal Rapporto al cittad. Carnot di F. Lomonaco, a cura di F. Nicolini; Bari, Laterza.


Notevolissimo è il sonetto che segue, Alla Musa, del 1802, in cui il giovanissimo poeta formulò ed espresse il suo programma e la sua ambizione artistica. L’ultimo verso, in cui quel programma assomma, fu da lui trasportato tal quale nel Carme in morte dell’Imbonati; dove pur chiamò l’Alfieri il primo che «ne le reggie L’orma stampò de l’italo coturno», e gli mise accanto il Parini. — Trascrivo il sonetto, rimasto finora inedito, di sull’autografo che si conserva nella Braidense. [p. 369 modifica]


L’idillio Adda fu mandato dal Manzoni al Monti con una lettera del 15 settembre 1803. Fu stampato nel 1875, postumo, da G. Gallia, in una commemorazione di G. B. Pagani, nei Commentari dell’Ateneo di Brescia; e poi da C. Romussi, nel 1878. avanti al Trionfo della Libertà, p. 146-51.


I Versi in morte di Carlo Imbonati furono la prima volta stampati a Parigi, coi tipi di P. Didot il maggiore, nel 1806. Alla p. 15, dove la poesia finisce, è detto: «Tirato a 100 esemplari». Questa è l’unica edizione dell’autore; ed è quella che seguiamo. Furon poi subito, ai primi dell’aprile, ristampati in Milano a cura dell’amico G. B. Pagani, con un’ampollosa e inopportuna dedica al Monti, che molto dispiacque al Manzoni. Cfr. Carteggio, I, 33 e 37 ss.


Gli sciolti A Parteneide son dell’autunno 1809. Rispondono a una ode del poeta danese Jens Baggesen, intitolata Parteneide a Manzoni, che il Bonghi (Op. ined. o rare, I, 136-7) dà tradotta. Un brano di questi versi stampò prima il Sainte-Beuve, nel saggio sul Fauriel, il 1845 (Portraits contemporains, Paris, 1889, vol. IV, p. 200), e ristampò nel 1974 lo Stoppani, I primi anni di A. M., p. 231; li stamparon poi tutti il De Gubernatis (Il Manzoni e il Fauriel, p. 10-2) e il Bonghi. — Per la data e per l’interpretazione di questo componimento, è da vedere l’arguto scritto di Manfredi Porena, nella Miscellanea di studi in onore di A. Hortis, Trieste, 1910.


Il poemetto Urania fu la prima, o l’unica volta, pubblicato dal poeta in Milano, dalla Stamperia Reale, nel 1809. Sull’ultima pagina (24) dell’opuscolo è detto: «Stampato per cura di L. Nardini, ispettore della Stamperia Reale». — Riproduco esattamente questa stampa.


L’Ira d’Apollo fu pubblicata la prima volta nell’Eco, giornale di scienze, lettere, arti, commercio e teatri, il lunedì 16 novembre 1829 (Milano, a. II, n. 137). Vi furon premesse questo parole: «Allorchè si cominciò a quistionare tra i romantici e i classicisti, certo Grisostomo pubblicò una lettera semiseria, in cui fra le altre coso volle escludere dalla poesia la mitologia greca. Mentre molti gridavano contro quella temerità, sì vide venire, senza saper d’onde, una canzone che fu molto lodata. Eccola, come fu rinvenuta fra le carte di un galantuomo che morì tre settimane sono». Fu ristampata di su una diversa copia manoscritta dallo Stoppani (I primi anni di A. M., Milano, 1874, p. 187); e poi di sull’autografo dal Bonghi, che io seguo. Le varianti che dà il Bonghi (Op. ined. o rare, I, 153 ss.) son molte; ma mi è parso superfluo ridarle qui. — Tra le carte del Fauriel, che ora si conservano nella Biblioteca dell’Istituto di Francia, l’amico G. Gallavresi mi segnata pure «un autografo, con varianti, dell’Ira d’Apollo». E sulla copia fattane da Gianmaria Zendrini, professore di storia naturale nell’Università di Pavia, e grande ammiratore del Manzoni e raccoglitore d’ogni sua briciola (morto nel 1858), il Bonghi (I, 79) lesse questa notizia: «Ode [p. 370 modifica]burlesca, dettata d’improvviso da Alessandro Manzoni alla Villa Sannazzari sul lago di Como nel 1818, diretta a Giovanni Berchet, autore di un’operetta nella quale era volto in ridicolo l’uso della mitologia antica nella poesia sopra argomenti moderni». La villa, di cui il poeta era ospite allora, è quella di Belvedere, a Blevio, della marchesa Sannazari Imbonati, sorella di Carlo Imbonati (cfr. Carteggio, I, 118): ne è ora proprietario don Giorgio Vigoni.

Di quest’ode faceva già un cenno il Tommaseo, nell’edizione fiorentina del 1828-29 delle Opere di A. M., vol. III, p. 96. La diceva «ironicamente mitologica», e asseriva che «v’ebbe degli uomini di fede antica, che la presero in sul serio, e aggregarono il Manzoni ai difensori delle sante Pieridi». Ne riferiva anche due versi, «belli d’una delicata ironia», che trascriveva con una variante: «Pensa, o figliuol di Giove, almo Smintèo....».


I versi pel ritratto del Monti furon la prima volta pubblicati dallo stesso Tommasèo, nell’edizione fiorentina delle Opere del Manzoni, 1823-29, III, p. 92-5. Il critico soggiunse: «Sincere uscirono dal cuore al Manzoni quelle lodi: sincero fu il dolore e il compianto. E se quest’anima candidissima affermò che la natura avea donato al Monti il canto di Virgilio, lo affermò perchè lo credette. Noi nol crediamo: ed è questa delle poche opinioni che portiam dal Manzoni diverse.... Dal carattere politico e letterario del Monti al carattere dell’Alighieri, infinita a noi pare la distanza».

Assai ghiotto il brano d’una lettera inedita del Berchet alla marchesa Arconati, del 2 giugno 1829, che il prof. E. Bellorini gentilmente mi comunica, e che io suppongo riferirsi appunto a questo male ispirato epigramma. «Dunque ci siamo ingannati tutti», esclama, «e que’ versi sono proprio di Alessandro? Non giuriamo più di nulla d’ora innanzi. Ma per essere d’Alessandro i versi non migliorano, e valgono sempre tre quattrini». Cfr. ora Bellorini, L’amicizia di G. Berchet per A. Manzoni, nel «Giorn. Stor. d. lett ital.», LX, 1912, p. 412.


I distici latini Volucres furono stampati nella Perseveranza del 29 maggio 1868; con un’avvertenza in cui, tra altro, era detto averli il Manzoni «fatto passeggiando, come suole ogni giorno, nei Giardini pubblici. Gli uccelli, chiusi nella gabbia del Bignami, hanno risvegliato, nell’animo verde e giovanile di quel venerando canuto, il pensiero e il desiderio della libertà». Nello stesso giornale, l’11 giugno, ne veniva pubblicata una versione ritmica di Anselmo Guerrieri, che il Bonghi giudicò «squisita». Suona:

GLI UCCELLI.

Anitre fortunate, a cui l’aperto
     Aer sorride, e libera nell’ampio
     Margine la tranquilla acqua s’allarga!

[p. 371 modifica]

     Noi qui dentro di ferro intente reti
     Chiudono; a noi da invidïosi tetti,
     A noi vien tolta la superna luce.
     Le fronde, ahimè!, vediam; le non concesse
     Siepi vediamo, e la pennuta schiera,
     Cui non c’è dato mescolarci. All’aure
     Se mai talvolta immemori spicchiamo
     L’ala, respinta dai tristi cancelli.
     Subitamente si ripiega e cade.
     Nessuno scherzo, nessun dolce amore
     Ci riporta l’april; ninna famiglia
     Di garruletti nidi a sè ci chiama.
     Non l’irriguo ruscel, non il bisbiglio
     Di lieta fonte; ci provvede ignave
     Acque un meschino canaletto. Oh crude
     Esche! Rapiti alla dolcezza vostra,
     D’eterna prigionia strasciniam gli ozi!


I due distici al prof. Michele Ferrucci, dell’Università di Pisa, furon pubblicati dal Bonghi (I, 291), di su l’autografo. Con qualche variante li aveva già fatti conoscere lo Sforza, in una nota all’Epistolario di A. M., II, p. 265; dove aggiunse la seguente versione di Andrea Maffei:

Tali arditi si dan, che di perdono
     Degni per poco, vivadio, non sono,
E pretendono lode in premio al verso!
     Tu che la merti, da costor diverso,
Perdono implori. È doppio error; ma bello,
     Nobile questo, e miserabil quello.


Credo infine non inutile riferire, se non foss’altro come documento storico nobilissimo, l’abbozzo di canzone al Manzoni ispirato dalla sommossa milanese del 20 aprile 1814, in cui fu trucidato il ministro Prina, e dalla successiva convocazione dei Collegi Elettorali. Fu disseppellito dal Bonghi, e stampato nel 1883 tra le Opere inedite o rare di A. M., v. I, p. 145 ss. discute anch’esso dei fremiti misogallici del grande Astigiano; e si potrebbe confrontarlo con l’epica canzone, che l’Alfieri scrisse nel 1789 sulla distruzione della Bastiglia, Parigi sbadigliato.

Il poeta vi si fa interprete del sentimento popolare. Aveva taciuto fin allora, perchè a nulla sarebbe valso l’ardire; infranto il bavaglio, leva alta la voce contro l’ipocrito dominatore, che ci teneva schiavi nel sacro nome della libertà. Chè schiava era l’Italia, costretta ogni anno a deporro il suo tesoro (esecutore il Prina) «sull’avara lance di Brenno»! E i figli erano strappati ai genitori, noverati a branco, spinti contro eserciti innocenti di fratelli; e morivano lontano. [p. 372 modifica]

Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari!


Ora tutto, d’improvviso, è mutato: «quando eran più l’onte aspre ed estreme», ecco, di tra le nubi, s’è mostrato il braccio salvatore di Dio, a soccorrere i «ben pugnanti». Ed ha vinto; così che «a ragion si rallegra il popol nostro». Finalmente son tornati alle loro caso sospirate, agli abbracciamenti pii, ai soavi colloquii («i fidati colloqui d’amor», del primo coro dell’Adelchi), quei giovani costretti a ramingare per greppi senz’orma, o tenuti, dall’odio potente del tiranno, in carceri tenebrose; ora è tutto un «favellar di gioia e di speranza», e «il nobil flor de’ generosi» oramai veglia nelle armi,

                                        mostrando
Con che acceso voler la patria ascolta
Quando libero e vero è il suo dimando.


Il poeta è fiducioso che l’itala brama sarà da «quei possenti intesa Cui par che piaccia ogni più nobil cosa»; e accompagna coi suoi voti i delegati dei Collegi Elettorali a Parigi.