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434 ATTO SECONDO
Alcuno alla Marchesa l’applica, mia signora;

Alcun di don Gherardo alla consorte: ognuna
D’esser da voi stimata aspira alla fortuna;
E mandanmi da voi entrambe in confidenza,
A rilevar, se posso, l’arcano e la sentenza.
Torquato. Quel che nel sen racchiudo, non spiego con parole.
Dite alle due Eleonore, ch’elleno non son sole.
Eleonora. È ver, di cotal nome ve ne son altre ancora.
Per esempio, ancor io ho il nome d’Eleonora...
Ma da metter non sono in paragon di quelle.
Torquato. Gli occhi dell’uom son quelli che fan le donne belle.
L’amor, la tenerezza, il cuor d’affetti pregno,
Può far qualunque oggetto meritevole e degno.
Tutti siam d’una pasta, ed è mero accidente
Che una sia la padrona, e l’altra la servente.
Eleonora. È vero, è un accidente ch’io sia a servir costretta.
Nata son cittadina; mio padre era cornetta.
E a quel che dir intesi, mia madre, se non fallo,
Era di Magnavacca, o di Bagnacavallo.
M’hanno allevato sempre con tutta civiltà;
Mia madre praticava il fior di nobiltà,
E s’ella non moriva da certo mal di gola,
Avrei fatto fortuna sotto la di lei scuola.
Torquato. Forse da miglior sorte non siete assai lontana.
Eleonora. Se viveva mia madre, io sarei cortigiana.
Chi sa che non avessi in questa Corte anch’io
Un marito onorato qual era il padre mio?
Era da tutti amato. Facean finezze ognora
A lui, alla consorte e alla figliuola ancora.
Torquato. (Scorgesi l’ignoranza). (da sè) Restino i morti in pace;
Voi potrete finezze aver quante vi piace.
Eleonora. Da chi?
Torquato.   Da chi s’appaga del buon che in voi avete
Eleonora. Dite: son miei quei versi?
Torquato.   Vostri son, se volete.