Taras Bul'ba/XI
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XI
Qua e là tra quelle case rosseggiava un muro di mattoni, ma anche quello in molti punti s’era già tutto cangiato in nero. Talora, soltanto sulla cima di un pezzo di muro intonacato, percosso dal sole, splendeva un bianco insopportabile per gli occhi. Lí tutto consisteva in cose luride e ripugnanti, canne, cenci, bucce, rottami di vasi gettati. Ognuno, appena trovava in casa un oggetto inservibile, lo scaraventava nella strada, offrendo ai passanti la massima comodità di appagare tutti i sensi con quella sozzura. Un uomo a cavallo poteva quasi toccare con la mano le pertiche tese attraverso la strada da una casa all’altra, con su sospese tante calze di giudei, calzoncini corti e oche affumicate. Qualche volta un visetto di ebrea piuttosto belloccia, adornata di perle finte annerite, faceva capolino da una vecchia finestrella. Uno stuolo di ragazzi ebrei, sudici, laceri, dai capelli ricciuti, schiamazzava e si voltolava nel sudiciume. Un ebreo di pelo rosso, col volto tutto coperto di lentiggini che lo rendevano simile a un uovo di passero, si affacciò da una finestra; immediatamente attaccò discorso con Jankelj nel suo gergo incomprensibile, e Jankelj entrò subito nel cortile. Sulla strada arrivò un altro giudeo, si fermò, entrò in discorso anche lui, e quando Bul’ba sbucò finalmente strisciando di sotto ai mattoni, egli vide i tre Giudei che discutevano con molto calore.
Jankelj si volse a lui e gli disse che tutto si sarebbe fatto, che il suo Ostap si trovava rinchiuso nella prigione della città, e che, sebbene fosse difficile persuadere le guardie, pure, a ogni modo si sperava di procurargli un abboccamento.
Bul’ba entrò coi tre Giudei in una stanza.
I Giudei cominciarono daccapo a parlare tra loro la loro lingua incomprensibile. Taras teneva gli occhi su ciascuno di loro. A vederlo, si sarebbe detto che qualcosa gli aveva dato una forte scossa; sul suo volto rude e indifferente divampò come una fiamma ardente di speranza... di quella speranza che talora visita l’uomo giunto al grado estremo della disperazione; il suo vecchio cuore cominciò a battere forte, come negli anni della giovinezza.
— Uditemi, Giudei! — egli disse, e nelle sue parole si sentiva qualcosa di solenne. — Voi siete buoni a fare tutto nel mondo, a tirar fuori anche ciò che è nascosto nel fondo del mare, e un antico proverbio dice che il Giudeo ruba magari a se stesso, quando si mette in mente di rubare. Mettetemi in libertà il mio Ostap! Dategli il modo di fuggire dalle mani del diavolo. Ecco, io a quest’uomo ho promesso dodicimila zecchini... ne aggiungerò altri dodicimila. Tutto il vasellame prezioso che io possiedo e l’oro che tengo sotterrato presso di me, la mia casa e l’ultimo vestito lo darò a voi, e stringerò con voi un contratto per tutta la vita, col patto che tutto ciò che guadagnerò nella guerra, lo dividerò a mezzo con voi.
— Oh, non è possibile, signore caro, non è possibile! — disse Jankelj con un sospiro.
— No, non è possibile! — disse un altro giudeo.
I tre Giudei si guardarono in faccia l’un l’altro.
— Ma provare — disse il terzo sbirciando timidamente gli altri due — chi sa che Dio non ci assista?
Tutti e tre i Giudei cominciarono a parlare in tedesco. Bul’ba per quanto tendesse l’orecchio, non riusciva a indovinare niente; soltanto sentiva ripetere spesso la parola «Mardochaj» e niente altro.
Sentite, signoria! — disse Jankelj — occorre consigliarsi con un uomo di tal fatta, che non c’è mai stato l’eguale al mondo. Uh, uh! egli è un sapiente come Salomone, e quando lui in una cosa non riesce, vuol dire che nessuno al mondo ci riesce. State qui a sedere; ecco la chiave e non lasciate entrare nessuno!
I Giudei uscirono sulla strada.
Taras chiuse la porta, e da un piccolo finestrino guardava su quella lurida strada giudaica. I tre Giudei si fermarono nel mezzo della strada e si misero a parlare con molto calore; a loro si uní presto un quarto, e in fine un quinto. Egli udí daccapo ripetere «Mardochaj, Mardochaj». I Giudei guardavano con insistenza verso un lato della strada: finalmente all’estremità di essa apparve di dietro a una casupola un piede con calzare ebraico, e cominciarono a guizzare le pieghe d’un mezzo-caffettano. «Ah, Mardochaj! Mardochaj!» presero a gridare i Giudei a una voce. Un ebreo allampanato, un po’ piú basso di Jankelj, ma molto piú coperto di rughe, con uno spropositato labbro superiore, si accostò al gruppo impaziente, e i Giudei si affrettarono a gara a informarlo, intanto che Mardochaj ripetutamente gettava un’occhiata alla piccola finestrella, e Taras indovinò che parlavano di lui. Mardochaj gesticolava, stava a sentire, interrompeva il discorso, spesso sputava voltandosi di fianco, e, sollevando le pieghe del mezzo-caffettano, affondava una mano in una tasca e ne cavava fuori non so che ciondoli e in tal modo faceva vedere i suoi sconci pantaloni. Da ultimo i Giudei sollevarono un tale schiamazzo, che l’ebreo piantato di sentinella dovette fare segno di tacere, e Taras cominciava già a temere della sua sicurezza; ma poi, ripensando che i Giudei non possono deliberare altrimenti che sulla strada, e che la loro lingua non l’intende neppure il diavolo, rimase tranquillo.
Due minuti dopo i Giudei entrarono tutti insieme nella sua stanza. Mardochaj si accostò a Taras, gli batté un colpetto su una spalla e disse: — Quando noi con l’aiuto di Dio avremo voglia di agire, siate certo che le cose andranno come si deve.
Taras diede un’occhiata al nuovo Salomone, quale non era mai stato al mondo, e concepí una certa speranza. Realmente il suo aspetto poteva ispirare una certa fiducia; il suo labbro superiore era addirittura uno spauracchio; la grossezza di esso era senza dubbio accresciuta da particolari circostanze. La barba di codesto Salomone contava soltanto quindici peluzzi, e quelli erano solo nella gota sinistra. Sulla faccia Salomone aveva tanti segni delle bastonate ricevute per la sua audacia, che egli senza dubbio da gran tempo ne aveva perso il conto e s’era abituato a considerarli come altrettante voglie.
Mardochaj uscí insieme coi camerati, tutti pieni di stupore per la sua sapienza. Bul’ba rimase solo. Egli si trovava in una strana posizione, non mai provata per lo innanzi: per la prima volta in vita sua sentiva una certa inquietudine. L’anima sua era in uno stato febbrile. Non era piú l’uomo di prima, inflessibile, incrollabile, duro come una quercia; era pusillanime, era questa volta, un debole. Trasaliva ad ogni piú piccolo rumore, ad ogni nuova figura di giudeo che si mostrava sulla via. In tale stato passò finalmente tutta la giornata; non mangiò, non bevve, e non si scostò neppure un momento dalla piccola finestrella sulla via. Finalmente, già a sera tarda, si presentarono Mardochaj e Jankelj. Il cuore di Taras era un gelo.
— Ebbene? Si riesce? — chiese ad essi con l’impazienza di un cavallo selvaggio.
Ma prima ancora che quelli ripigliassero fiato per rispondere, Taras osservò che Mardochaj già non aveva piú il suo ultimo ricciolo, che, sebbene abbastanza sporco, pure scendeva sempre inanellato di sotto alla sua berretta. Notevole era anche il fatto che egli voleva dire qualcosa, ma balbettava un tale intruglio che Taras non ci capí niente. E poi lo stesso Jankelj portava spesso una mano alla bocca come se soffrisse per una infreddatura.
— Oh, caro signore! — disse Jankelj — adesso è proprio impossibile! Come è vero Dio, è impossibile! È una brutta razza che bisognerebbe sputacchiarla sulla testa. Ve lo dirà qui Mardochaj. Mardochaj ha fatto quello che ancora nessun altr’uomo al mondo ha mai fatto; ma Dio non volle che la cosa andasse cosí! C’è là un esercito di tremila uomini, e domani, li devono giustiziare tutti.
Taras guardava i Giudei negli occhi, ma ormai senza impazienza e senza ira.
— E se vossignoria vuole incontrarsi con loro, allora domani per tempo, quando il sole non sia ancora spuntato. Le sentinelle sono d’accordo e un coscritto ha promesso. Soltanto... che costui non possa mai aver bene al mondo! Oh, che razza di gente ingorda! Anche fra noialtri non se ne trova di eguali: cinquanta ducati ho dovuto dare a ciascuno, e al coscritto...
— Bene. Menami da lui! — disse Taras in tono risoluto, e tutta la solita durezza era tornata nel suo spirito.
Egli accettò la proposta di Jankelj, di travestirsi da conte forestiero, venuto da paesi tedeschi; al qual fine il lungimirante giudeo s’era affrettato a procurarsi degli abiti adatti. Era già notte. Il padrone di casa, il noto giudeo rossiccio e lentigginoso, tirò fuori una smilza tela di sacco, nascosta sotto una specie di stuoia, e la distese sul banco per Bul’ba. Jankelj si mise a giacere sul pavimento sopra un altro sacco simile. Il giudeo rossiccio tracannò un piccolo bicchierino di liquore e, deposto il caffettano e rimasto con le calze e certe scarpe fatte in modo da somigliare assai a pulcini, si ritirò con la sua ebrea in qualcosa che pareva un armadio. Due piccoli Giudei, simili a due cagnolini domestici, giacevano per terra accanto all’armadio. Ma Taras non dormí; stava a sedere immobile, e leggermente con le dita picchiava sul tavolo come su un tamburo; teneva in bocca la pipa e mandava fuori tanto fumo, che il giudeo tra il sonno starnutò e si coprí il naso con la coperta.
Appena il cielo cominciò ad essere toccato da un pallido preannunzio dell’aurora, egli urtò Jankelj con un piede.
— Alzati, giudeo, e dammi il tuo abito da conte.
In un attimo si vestí; si tinse di nero i baffi e le sopracciglia, si mise in testa un piccolo berrettino scuro; e nessuno, anche dei suoi intimi, avrebbe potuto riconoscerlo. A vederlo, gli si sarebbero dati non piú di trentacinque anni. Un vermiglio colore di buona salute illuminava le sue guance, e le stesse cicatrici gli davano un’aria imperiosa. L’abito, ornato d’oro, gli stava molto bene.
Le strade dormivano ancora. Non si mostrava ancora nella città neppure un garzone di bottega col paniere al braccio. Bul’ba e Jankelj giunsero a un edifizio che aveva la forma di un airone seduto. Era largo, basso, enorme, annerito e da un lato di esso si lanciava fuori, come un collo di cicogna, una torre lunga e stretta, sulla cui cima sporgeva un lembo di tetto. Quell’edifizio serviva a parecchi usi diversi: vi erano le caserme, le prigioni e perfino il tribunale penale. I nostri viandanti entrarono in una porta, e si trovarono nel mezzo di una sala spaziosa, o piuttosto, in un cortile coperto. Circa un migliaio di uomini vi dormivano tutti insieme. In fondo si apriva una porticina bassa, dinnanzi alla quale due sentinelle facevano tra loro, stando a sedere, un certo strano giuoco, il quale consisteva in questo, che l’una batteva all’altra con due dita un colpo sulla palma della mano. Esse prestarono poca attenzione ai sopravvenuti, e non voltarono la testa, se non quando Jankelj disse:
— Siamo noi. Udite signori, siamo noi.
— Passate — disse una di esse, mentre con una mano spingeva la porta, e presentava l’altra mano al compagno per riceverne i colpi.
Avanzarono in un corridoio stretto e scuro, che li menò daccapo in una sala simile alla prima, con piccole finestrelle in alto.
— Chi va là? — gridarono parecchie voci insieme, e Taras vide schierato un drappello di militari armati di tutto punto. — Noi abbiamo ordine di non far passare nessuno.
— Siamo noi! — gridava Jankelj. — In nome di Dio, siamo noi, illustri signori!
Ma nessuno voleva stare a sentire. Per fortuna arrivò in quel momento un uomo corpulento, che da tutti gl’indizi pareva un superiore, perché strillava piú forte degli altri.
— Signore, siamo noi; voi già ci conoscete, e il signor conte vi vuole ancora ringraziare.
— Lasciate passare, per cento diavoli alla mamma del diavolo! e poi non fate entrare piú nessuno. E che nessuno deponga la sciabola e si sdrai per terra come un cane...
Il seguito dell’eloquente comando non fu piú udito dai nostri due viandanti.
— Siamo noi! siamo dei vostri! — si affrettava a dire Jankelj a ognuno che incontrava.
— Ebbene, si può adesso? — egli domandò ad una delle guardie, quando finalmente arrivarono al punto in cui terminava il corridoio.
— Si può; però non so se vi lasceranno entrare addirittura nella prigione. Adesso già non c’è piú Jan; c’è un altro al suo posto — rispose la sentinella.
— Ahi ahi! — disse piano il giudeo. — Questo è brutto, mio caro signore!
— Conducimi! — proferí in tono ostinato Taras.
Il giudeo obbedí.
Alla porta del sotterraneo, terminante in alto a punta, si trovava di piantone un aiduco, con un paio di baffi a tre piani. Il piano superiore di quei baffi andava in dietro, il secondo andava diritto in avanti, il terzo all’ingiú; cosa che lo rendeva molto simile a un gatto.
Il giudeo si curvò verso i tre precipizi, e si accostò a lui, mettendosi quasi al suo fianco:
— Vostra magnificenza! Magnifico signore!
— O giudeo, a me tu dici codesto?
— A voi, magnifico signore.
— Hm... ma io sono un semplice aiduco! — disse il baffuto a tre piani, con una certa gioia negli occhi.
— Ma io, com’è vero Dio, credevo che fosse il Vojevoda in persona. To’, to’, to’...
A questo punto il giudeo storse un po’ la testa e spalancò le dita.
— To’, che aspetto imponente! Com’è vero Dio, un colonnello! In tutto e per tutto, un colonnello! Basterebbe aggiungere appena un dito alla Statura, ed eccoti un colonnello! Bisognerebbe mettere il signore a cavallo di un puledro che fosse cosí veloce come una mosca, e lasciargli passare in rivista il reggimento!
L’aiduco raddrizzò il piano inferiore dei suoi baffi; e nel far ciò i suoi occhi erano interamente illuminati di gioia.
— Che bella razza di guerrieri! — seguitò a dire il giudeo — oh, cospetto, che brava gente! Cordoncini, placchette... risplendono come il sole; e le ragazze polacche, basta che vedano un militare... eh, eh!... — Il giudeo storse di nuovo la testa.
L’aiduco arricciò con una mano i baffi superiori e lasciò udire attraverso i denti una voce simile al nitrito di un cavallo.
— Prego vossignoria di fare un favore! — disse allora il giudeo — ecco qui questo principe venuto dall’estero che vorrebbe vedere i cosacchi. Da quando si trova al mondo non ha mai visto un cosacco, non sa che razza sono i cosacchi.
L’apparizione di conti e baroni stranieri in Polonia era cosa abbastanza comune: vi erano spesso attirati unicamente dalla curiosità di osservare quell’angolo d’Europa quasi mezzo asiatico; la Moscovia e l’Ucraina si consideravano come appartenenti addirittura all’Asia. E per questo l’aiduco, fatto un inchino abbastanza profondo, ritenne conveniente aggiungere alcune parole di suo:
— Io non so capire signoria illustrissima — egli disse — perché desiderate di vederli. Sono cani, non sono uomini. E hanno una religione tale che nessuno la stima.
— Bugiardo, figlio del diavolo! — disse Bul’ ba — sei tu un cane! Come osi dire che la nostra fede non si stima? È la vostra eretica religione, che non si stima!
— Ehè, he! — disse l’aiduco — ma io so chi sei, amico: sei tu stesso di quelli che già alloggiano presso di me. Ora, aspetta, che chiamerò qui i nostri.
Taras si avvide della sua imprudenza, ma la sua fierezza e il suo dispetto gli impedivano di pensare al modo di ripararvi. Per fortuna, Jankelj in un attimo s’affrettò a intromettersi.
— Illustrissimo signore, come è possibile che il conte qui sia un cosacco? E se fosse un cosacco, allora dove si sarebbe procurato un abito cosí e un tale aspetto da vero conte?
— Raccontala a chi ti pare!... — E l’aiduco già apriva la sua larga bocca per gridare.
— Altezza reale! tacete! tacete, per l’amor di Dio! — cominciò a strillare Jankelj. — Tacete! Noi penseremo bene a compensarvi in modo che non avete mai visto l’eguale: vi daremo due ducati d’oro.
— Ehè! due ducati! Due ducati per me non contano niente: io al barbiere do due ducati solamente per farmi radere una metà della barba. Cento ducati mi devi dare, giudeo! — Qui l’aiduco incominciò a ripiegare i baffi superiori. — E, se non mi dai cento ducati, mi metto a gridare sul momento!
— E come mai tanto? — disse facendosi pallido il giudeo tutto afflitto, mentre scioglieva il suo borsellino di cuoio; ma la sua fortuna fu che nel borsellino non c’era niente di piú e che l’aiduco non sapeva contare piú là di cento.
— Signore, signore! andiamo via al piú presto! vedete che gente cattiva si trova qui! — disse Jankelj, osservando che l’aiduco si rigirava in mano i denari e pareva pentito di non aver chiesto di piú.
— Oh, di’ un po’, aiduco del diavolo! disse Bul’ba — i denari li hai presi, e non pensi a farceli vedere? No, tu hai l’obbligo di farceli vedere. Una volta che hai preso i denari, ora non hai piú il diritto di rifiutarti.
— Andate, andate al diavolo! O, se no, all’istante io darò un segnale, e qui vi... Levate le gambe al piú presto!
— Signore, signore! andiamo via, per amor di Dio, andiamocene! Gli venga il malanno! Possa sognarsi qualche cosa che lo costringa a sputare! — gridò l’infelice Jankelj.
Bul’ba lentamente, chinata la testa, si voltò e tornò addietro, seguito dai rimproveri di Jankelj, che era divorato dal dolore al pensiero dei ducati perduti invano.
— Metteva proprio conto di eccitarsi! Lascia che strepiti, quel cane! Questa gente poi è cosí fatta, che non può fare a meno di strepitare! Oh, poveri noi! che sorte manda Dio agli uomini! Cento ducati, soltanto per mandarci via! Ma un povero diavolo come me: gli strappano i riccioli, gli storpiano la faccia, in modo che non si può piú nemmeno guardarlo, e nessuno gli dà cento ducati. O Dio mio! Dio misericordioso!
Ma questo insuccesso ebbe un effetto molto maggiore su Bul’ba: effetto che si manifestava in una fiamma divorante nei suoi occhi.
— Andiamo! — disse all’improvviso, come riscuotendosi — andiamo sulla piazza. Voglio stare a vedere come lo strazieranno.
— Ahi, signore! perché andarci? È chiaro che con ciò non possiamo dare alcun aiuto.
— Andiamo — disse Bul’ ba ostinato, e il giudeo come una bambinaia dietro a un monello irrequieto, con un sospiro prese a seguirne le orme.
La piazza in cui doveva compiersi il supplizio non era difficile a cercarsi: la folla si rovesciava in essa da tutti i lati. Per quella rozza età si trattava di uno dei piú segnalati spettacoli, non solo per la plebe, ma anche per le classi piú elevate. Una quantità di vecchie, delle piú religiose e divote, una quantità di giovani ragazze e donne delle piú timide che poi tutta la notte appresso vedevano continuamente in sogno cadaveri insanguinati, e sognando gridavano cosí forte, come può gridare soltanto un ussero ubbriaco — pure non lasciavano perdere l’occasione di andare a curiosare.
— Ahi, che supplizio! — gridavano tra esse alcune in un accesso di febbre isterica, chiudendo gli occhi e voltandosi indietro, e nondimeno, rimanevano lí a lungo. Qualche altro, con la bocca aperta, e allungando le braccia avanti, avrebbe voluto magari saltare sul capo a tutti per potere di là guardare meglio. Dalla folla delle teste anguste, minute e ordinarie, emergeva la faccia piatta di un macellaio, che osservava con aria di competenza tutto il procedimento e parlava a monosillabi con un armaiuolo, a cui egli dava il nome di compare, perché la domenica andavano ad ubbriacarsi insieme nella medesima osteria. Alcuni disputavano con calore; altri facevano perfino delle scommesse, ma la grande maggioranza era composta di quelle persone che sul mondo intero e su ciò che avviene nel mondo stanno a guardare, mentre con un dito fanno pulizia nel naso. In prima linea, subito dopo i ceffi baffuti appartenenti alla guardia civica, stava un giovine nobile, o sedicente nobile, in arnese da battaglia, il quale aveva evidentemente indossato tutto quello che possedeva, in modo che nel suo quartiere non doveva esserci rimasto altro che una camicia sdrucita e un vecchio paio di stivali. Due collane, una sopra l’altra, gli pendevano dal collo con non so quale medaglia d’oro. Aveva con sé la sua fidanzata, Juzysja, e continuamente guardava attorno perché non le macchiasse qualcuno l’abito di seta. Egli dava a lei tutte le informazioni del caso, tanto che sicuramente non c’era niente da aggiungere.
— Ecco, amore mio, Juzysja — egli diceva tutta quella gente che vedete, è venuta apposta per guardare come giustizieranno i rei. E quello là, tesoro, che, come vedete, tiene in mano la mannaia e gli altri arnesi, quello è il boia, e deve fare lui l’esecuzione. E quando comincerà a dare la ruota e compiere altri tormenti, allora il reo sarà ancora vivo; ma quando gli porteranno via la testa, allora, anima mia, egli morrà all’istante. Prima griderà e si muoverà, ma come appena gli portano via la testa, allora non potrà piú né gridare, né mangiare, né bere, perché, anima mia, non avrà piú la testa.
E Juzysja stava a sentire ogni cosa con terrore e con curiosità. I tetti delle case erano tutti coperti di gente. Dagli abbaini si affacciavano strani ceffi, coi baffi e con qualcosa di simile alle cuffie. Sui balconi, sotto baldacchini, sedeva l’aristocrazia. Una graziosa manina di dama ridente, luccicante come lo zucchero bianco, si appoggiava a una ringhiera. Gli illustrissimi signori, abbastanza corpulenti, guardavano con aria grave. Un valletto in livrea scintillante con le maniche rimboccate, distribuiva lí sul posto svariate bibite e leccornie. Spesso una piccola monella dagli occhi neri, riempitasi la nobile manina di pasticcini e frutta, ne gettava sulla folla. Una turba di cavalieri famelici sporgeva di sotto i cappelli, e un certo nobile d’alta statura, la cui testa si elevava al disopra della moltitudine, coperto da uno scolorito soprabito rosso coi cordoncini d’oro anneriti, era il primo a prendere, in grazia delle sue lunghe braccia; baciava la preda raccolta, se la premeva al cuore e la cacciava in bocca. Un falcone, appeso entro una gabbia d’oro, sotto un balcone, era anche lui tra gli spettatori: col becco curvato di fianco e una zampetta sollevata, osservava esso pure attentamente la folla. Ma la gente improvvisamente cominciò a rumoreggiare, e da tutti i lati si ripeteva il grido: «Li menano! li menano! i cosacchi!».
Andavano a capo scoperto, coi lunghi ciuffi, con le barbe cresciute. Andavano senza paura e senza tristezza, ma con un certo sereno orgoglio; i loro abiti di stoffa costosa erano laceri e pendevano loro addosso ridotti a vecchi stracci; essi non guardavano e non salutavano la folla. Avanti a tutti andava Ostap.
Che sentí il vecchio Taras, quando vide il suo Ostap? Che cuore fu il suo in quel momento? Di mezzo alla folla egli lo guardava fiso e non perdeva il suo piú piccolo movimento.
Erano ormai vicini al luogo del supplizio. Ostap si fermò. A lui per primo toccava di bere quel calice amaro. Diede uno sguardo ai suoi compagni, levò un braccio in alto e disse forte:
— Concedi, mio Dio, che tutti gli eretici qui presenti non odano, gl’impuri! come un cristiano subisce il martirio! che nessuno di noi pronunzi una sola parola!
Dopo ciò si accostò al palco.
— Bravo, figlio mio, bravo! — disse piano Bul’ ba e chinò a terra la sua testa canuta.
Il boia gli tolse di dosso i vecchi cenci. Lo legarono mani e piedi sui cavalletti appositamente preparati e... Non affliggeremo i lettori con una descrizione degli infernali supplizi, che farebbero loro rizzare i capelli. Essi erano un prodotto di quel secolo rozzo e feroce, in cui l’uomo viveva ancora la vita sanguinaria delle sole imprese di guerra, e si era indurito nell’anima, non avendo il senso dell’umanità. Indarno alcuni, non molti, formanti nel secolo un’eccezione, si dichiaravano contrari a quei provvedimenti crudeli. Indarno un re e molti nobili cavalieri, illuminati di mente e di cuore, facevano presente che una siffatta crudeltà di punizione non poteva far altro che infiammare lo spirito di vendetta della nazione cosacca. Ma il potere del re e delle menti sagge era nulla di fronte all’insolenza e all’arroganza dei magnati del reame, i quali con la loro irriflessione e la loro assoluta incapacità di vedere lontano, col loro puerile egoismo e meschino orgoglio trasformarono la Dieta in una parodia di governo.
Ostap sostenne come un eroe le prove e i tormenti. Né un grido né un lamento si udí, neppure quando cominciarono a rompergli le ossa delle braccia e delle gambe, quando il loro orrendo scricchiolío si udiva tra la morta folla degli spettatori lontani, quando le damigelle torcevano addietro i loro sguardi; niente che somigliasse a un lamento fu strappato dalle sue labbra; non un brivido sul suo volto. Taras era lí tra la folla, col capo chino, ma insieme sollevando fieramente lo sguardo ed approvando diceva soltanto:
— Bravo, figlio mio, bravo!
Ma quando lo sottoposero agli ultimi strazi mortali, parve come se cominciasse a venirgli meno la sua forza. E girò intorno lo sguardo: Dio mio! niente altro che visi sconosciuti ed estranei! Oh, se almeno uno dei suoi piú cari fosse stato presente alla sua morte! Non avrebbe voluto udire i singulti e le desolate grida di una debole madre, o gli urli forsennati di una sposa che si strappasse i capelli e si percuotesse il bianco seno; avrebbe voluto vedere un uomo forte, che con una parola assennata lo sollevasse e confortasse nell’ultimo istante. E gli mancarono le forze, ed esclamò con l’animo affranto:
— Babbo mio, dove sei? Ascolti tu tutto questo?
— Ascolto! — si udí in mezzo al silenzio universale, e tutto un milione di uomini in un momento fu percosso da un brivido. Un reparto di soldati a cavallo si lanciò a perlustrare attentamente tra la calca del popolo. Jankelj era pallido come la morte; e quando i soldati si furono un po’ allontanati da lui, con terrore si voltò addietro per guardare Taras; ma Taras accanto a lui non c’era piú: era scomparsa anche l’orma dei suoi piedi.