Sulle frontiere del Far-West/CAPITOLO II - Il grande cavallo bianco
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CAPITOLO II.
Il grande cavallo bianco.
Quando il gigantesco indian-agent, che nel campo veniva tenuto in conto di un secondo capo, tornò nella tenda tenendo per mano la piccola indiana sempre impassibile, il colonnello non si era ancora alzato, nè aveva levate le mani dal viso.
— Signor Devandel, — disse il colosso, dopo aver fatto sedere Minnehaha presso il fuoco che ardeva ancora in mezzo al wigwam.
— L’Uccello della Notte è morto: sarà uno sioux, od un chayenne od un arrapahoe di meno che avremo da combattere. —
Il colonnello si tolse le mani dal viso e guardo l’indian-agent quasi con ispavento.
— Morto! — disse poi.
— E da valoroso. Questi vermi, anche se hanno la pelle rossa, hanno del buon sangue nelle vene.
— E credi tu che io sia contento?
— Eh!... Ne abbiam fucilati tanti, signor Devandel, come essi hanno tormentati ferocemente e scotennati tanti pure dei nostri.
— Eppure io l’avrei risparmiato.
— E perchè, colonnello?
— Non lo so, ma lo sguardo di quel giovane ha gettato dentro di me un turbamento che non so spiegare. Si direbbe che io ho comandato un assassinio.
— Non avete fatto altro che applicare la legge inesorabile della prateria. D’altronde avete ricevuti ordini formali di non fare prigionieri, se maschi.
— Lo so, — rispose il colonnello, alzandosi di scatto. — Oh!... Quanto sono terribili queste guerre!...
— Signor Devandel, — disse il gigante. — Avete udito il nitrito acutissimo che ha mandato il cavallo di Uccello della Notte, subito dopo la morte del padrone?
— Sì, dopo la scarica, ho udito due nitriti invece d’uno. Era ancora vivo il cavallo dell’indiano?
— Sì, signor Devandel, ed è un vero peccato che sia morto, poichè non ho mai veduto un animale così magnifico, nè così bianco.
— Bianco, hai detto, John? — Sì, colonnello.
— Più grosso dei mustani ordinari?
— Quasi il doppio. Vi assicuro che non poteva esistere, in tutta la prateria, un altro che lo somigliasse. —
Il colonnello aveva fatto due passi indietro, esclamando:
— Red!... Che cosa succede questa notte? Quale sventura sta per piombarmi addosso? Erano già vent’anni che me l’aspettavo!...
— Mio colonnello, — disse l’indian-agent, il quale non aveva mai veduto quell’intrepido soldato così smarrito. — Che cosa avete?
— Se è Red, ella non tarderà a prendersi la rivincita alla testa degli Sioux.
— Ma chi?
— Yalla.
— Ne so meno di prima.
— Tu eri lontano, allora, — disse il colonnello. — Combattevi nella Sonora con Kearney. Conducimi a vedere quel cavallo: bisogna che lo veda. —
L’indian-agent lanciò sul colonnello uno sguardo quasi compassionevole, legò la piccola indiana ad un palo della tenda, poi accese un fanalone da marina, dicendo:
— Andiamo, signor Devandel. Le sentinelle sono tornate a posto e gl’Indiani non ci sorprenderanno, almeno per ora. —
Ricominciava a gocciolare, però la luna brillava sempre purissima tra il grande squarcio della nube che il vento teneva divisa.
I due uomini, dopo aver gridato ad alta voce la parola d’ordine, per non prendersi qualche colpo di fucile, si allontanarono dalle linee dei carri, e si diressero verso la triste gola del Funerale, dove il povero Uccello della Notte penzolava dalla roccia, col corpo tutto imbrattato di sangue e la testa abbandonata sul petto.
All’avvicinarsi dei due uomini, tre o quattro grossi avvoltoi neri che stavano in agguato, pronti a divorare il fucilato, si erano alzati precipitosamente, per poi abbattersi, rumoreggiando, nella gola.
Il colonnello, vedendo l’Uccello della Notte, si era fermato, come se le forze gli fossero venute improvvisamente meno, ed aveva fatto un gesto d’orrore.
— Ah!... La guerra!... — aveva mormorato. — Ed ho dovuto obbedire, mentre quel disgraziato ha nelle sue vene anche del sangue bianco. Chi sarà stato suo padre? Chi sua madre?... Dio! Dio! Quale ricordo!...
— Colonnello, — disse il gigante, traendolo dolcemente dietro una rupe. — Che cosa avete questa sera, adunque? Io non vi ho mai veduto così agitato.
Ah!... Ecco qui il cavallo bianco che montava l’Uccello della Notte.
A voi la lanterna. —
Il colonnello piuttosto che prenderla gliela strappò di mano e si precipitò sul cadavere del meraviglioso quadrupede.
Un urlo gli uscì subito dalle labbra, un urlo di spavento.
— Red!... Il mio Red!... Oh, lo conosco ancora dopo vent’anni.
— Un cavallo venerando, dunque, — disse John, un po’ ironicamente.
— Nè hai mai veduto tu, uno eguale?
— Oh mai, mio colonnello!...
— Era il cavallo delle leggende indiane. Come è venuto a morire qui, così presso a me? Chi l’aveva affidato all’indiano?... Ah, John, qui sotto si nasconde qualche terribile sciagura!...
— Quale?
— I miei figli che io ho lasciati laggiù, nella mia hacienda....
— Sono lontani, colonnello, — interruppe l’indian-agent — e li credo al sicuro.
— L’odio di quella donna può raggiungerli fino là, ora che le tre grandi tribù sono tutte in armi, — disse il colonnello, con profonda emozione.
Successe un breve silenzio, interrotto solamente dal lugubre urlo d’una coyote, il piccolo lupo di prateria, affatto inoffensivo.
— Vediamo, colonnello, — disse finalmente l’indian-agent, il quale cominciava a preoccuparsi. — Siete ben certo che questo sia il cavallo bianco delle leggende indiane? Non potreste ingannarvi?
— Non vedi che forme possiede e che statura gigantesca?
— Questo è vero, signor Devandel. Vorrei però sapere che cosa c’entra questo cavallo, con una donna che porta un nome indiano e coi vostri figli.
Sono sei anni che guerreggiamo insieme sulle frontiere, e non mi avete mai parlato di questa misteriosa storia. —
Il colonnello rimase qualche istante muto, girando ora gli sguardi sul cavallo bianco ed ora sul giovane indiano, poi afferrandolo strettamente per un braccio, gli disse:
— Vieni: bisogna che ti spieghi tutto. Forse dopo sarò più tranquillo.
— Infatti questa sera mi sembrate agitatissimo.
— Si direbbe che una disgrazia terribile mi minaccia, — rispose il colonnello, con voce soffocata.
— Cercheremo di evitarla.
— Sono a posto le sentinelle?
— Tutte: il pericolo d’una sorpresa per ora non c’è, perchè gli Sioux non hanno che una sola via se vorranno assalirci: la gola del Funerale. —
Attraversarono la spianata ingombra di furgoni e rientrarono nella tenda.
John riattizzò il fuoco, sospese il grosso fanale, diede uno sguardo alla piccola indiana che pareva si fosse assopita, poi sturò una bottiglia di gin ed empì due grossi bicchieri, dicendo:
— Questo vi darà un po’ di animo, mio colonnello, e manderà a casa del diavolo le vostre idee nere. —
Si erano seduti sulle selle di due cavalli, l’uno di fronte all’altro, colla bottiglia nel mezzo.
Il colonnello prese un bicchiere e lo vuotò avidamente, come se avesse cercato ad un tratto di stordirsi.
— La storia che sto per narrarti risale a vent’anni fa, — disse, dopo un altro breve silenzio. — Al pari di tanti altri avventurieri, avevo cominciata la mia carriera come scorridore della prateria.
L’indiano allora rispettava il bianco, del quale aveva bisogno per provvedersi d’armi, di liquori e di vesti, e non si correvano grandi pericoli avanzandosi anche nelle immense solitudini del Far-West. È vero che, di quando in quando, dei disgraziati non tornavano più indietro e lasciavano le loro capigliature sanguinanti fra le mani delle più crudeli pelli-rosse.
Ero diventato già un famoso tiratore ed avevo contratto molte relazioni nelle varie tribù, quando un giorno eccomi cadere nel bel mezzo d’una grossa riserva di Sioux.
— I più terribili demoni della prateria, — disse l’indian-agent, caricando ed accendendo una pipa monumentale. — Nemmeno vent’anni fa quei vermi facevano grazia all’uomo bianco.
— È vero, John, e quando fui preso mi tenni subito per perduto e mi vidi già legato allo spaventevole palo della tortura.
— Allora non sareste qui a raccontarmi questa interessante storia, — disse John, ridendo. — I vostri capelli sono veri?
— Sì.
— Allora tutto è andato bene; avanti, colonnello.
— Conosci la leggenda del grande cavallo bianco?
— Io so che tutti i cacciatori di cavalli del Far-West e le tribù indiane pretendono di aver veduto, imbrancato fra altri mustani selvaggi, un meraviglioso quadrupede tutto bianco, colle quattro unghie ed anche la criniera dello stesso colore e di forme perfette.
Durante i bivacchi, intorno ai fuochi, bo udito molte volte dei navajoes, degli arrapahoes e dei chayennes parlare, in modo misterioso, di quello strano animale che si diceva si mostrasse ora su un territorio ed ora su un altro, e che sfidava tutti i più abili cacciatori.
— Ci hai creduto tu?
— Uh!... Se ne narrano delle storielle nella prateria, quando non si ha voglia di dormire o il pericolo costringe a vegliare!...
— Eppure, come hai veduto, il famoso cavallo bianco è esistito. —
John Maxim scosse la testa un po’ dubbioso, poi disse:
— Continuate, colonnello. Già ormai la notte è perduta.
— Come ti ho detto, mi credevo irremissibilmente perduto, quando dopo parecchi giorni di prigionia e di terribili minacce, Moha-ti-Assah, il capo della tribù, venne a trovarmi e mi disse:
— Il grande cavallo bianco, che nessun indiano è mai stato capace di prendere, si è mostrato sulle nostre praterie insieme ad una truppa di mustani di varie tinte.
Se tu sei capace d’impadronirtene, ti donerò non solo la vita, ma ti offrirò anche la mano di mia figlia Yalla, che è ritenuta per la più bella fanciulla del Far-West.
Ho detto: pensaci. Se rifiuti, fra tre giorni ti legheremo al palo della tortura e la tua capigliatura rossa servirà ad ornare il mio scudo.
— Spicciativo, l’amico, — disse l’indian-agent.
— Come puoi immaginarti, accettai, quantunque non mi sorridesse affatto di diventare lo sposo di una giovane pelle-rossa.
Avevo contato su qualche fortunata combinazione per prendere il largo e cercare rifugio presso qualche tribù più ospitale.
L’indomani ero in marcia attraverso l’immensa prateria, in cerca del famoso cavallo che doveva salvarmi la vita.
Mi ero accorto subito però che gl’Indiani da lontano mi sorvegliavano per impedirmi d’ingannare il loro capo.
Erravo da qualche settimana, seguendo accanitamente le orme dei mustani selvaggi, quando un mattino, mentre scendevo una forra, mi trovai improvvisamente dinanzi ad una truppa di cavalli non domati, in mezzo ai quali, molto da lontano, si scorgeva un bellissimo animale di una bianchezza immacolata, il cui pelame riluceva come se fosse di raso.
La leggenda era diventata verità: il grande ed imprendibile cavallo bianco esisteva realmente sul territorio degli Sioux, almeno in quel momento.
Non potevo da solo pensare a condurre a buon fine una così difficile impresa, perciò andai subito in cerca di aiuti, ma quando ritornai il cavallo bianco era ormai già scomparso.
Non mi scoraggiai per questo e mi rimisi in campagna, risoluto a trovare il momento opportuno per fuggire o la buona occasione per salvare la mia capigliatura.
Altri giorni trascorsero in vane ricerche. Già cominciavo a disperare, quando una sera, nel momento in cui il sole stava per tramontare, mi ritrovai dinanzi al meraviglioso cavallo, il quale guidava sei mustani tutti neri e sei tutti rossastri.
Vedendomi, la truppa fuggì, prima che io avessi avuto il tempo di mettere mano al lazo, ma ad un tratto vidi il cavallo bianco arrestarsi di colpo contro un albero, come se qualche legame lo avesse avvinto strettamente. Scesi a precipizio nella forra e mi trovai dinanzi ad uno spettacolo che mai scorderò. Il re dei cavalli selvaggi, il leggendario quadrupede degl’Indiani, si trovava dinanzi a me, stretto contro il tronco d’un noce nero da un gigantesco serpente.
Il mio primo pensiero era stato quello di uccidere il rettile a colpi di fucile, poi mi assalì il timore di ferire anche il cavallo, ed impegnai una lotta disperata col mio solo bowie-knife.
Il cavallo bianco, strano a narrarsi, non cercava più di fuggire, anzi, mentre io lottavo col mostro, cercava, di quando in quando, di lambirmi il viso.
Quando fu liberato, il suo primo movimento fu quello di disporsi a fuggire, poi gettò tre nitriti di gioia, e volgendosi verso di me abbassò la candida testa.
Tutto il suo istinto di selvatichezza era stato annichilito da un altro più potente: la riconoscenza.
Per parecchi minuti il magnifico animale mi caracollò intorno sempre nitrendo, poi parve invitarmi a salire.
M’aggrappai alla sua lunga criniera, balzai in groppa e partii con velocità spaventosa.
Nessun cavallo aveva mai galoppato come quello straordinario quadrupede. Le sue zampe pareva che non toccassero nemmeno le erbe della prateria.
Si sarebbe detto che possedeva un paio d’ali invisibili agli uomini.
La mia entrata nel campo degli Sioux fu trionfale. Il grande cavallo bianco, diventato improvvisamente domestico, aveva galoppato tranquillamente fra le file degl’Indiani, senza manifestare nessuna selvatichezza.
Moha-ti-Assah, il grande sakem della tribù, si avanzò finalmente verso di me e mi disse:
— Manitù ti ha protetto e la tua vita, d’ora innanzi, sarà per noi sacra. Tu sei mio figlio, perchè io avevo solennemente giurato, dinanzi all’Arca del Primo Uomo, che avrei concessa la mano di mia figlia solamente a colui che fosse riuscito a prendere il grande cavallo bianco. Yalla è tua: prendila.
— E vi sposò con qualche brutto muso d’indiana, — disse l’indian-agent, sorridendo.
— Yalla era una fanciulla bellissima, — rispose il colonnello. — Mai, prima di allora, avevo veduto fra le tribù indiane una così splendida creatura.
Disgraziatamente ella era rossa ed io bianco e l’odio istintivo non doveva tardare a scoppiare fra noi. D’altronde non avevo mai sognato di sposare una donna di colore diverso, feroce come tutti quelli della sua razza, che combatteva sempre in prima fila e che si mostrava, verso i prigionieri, d’una crudeltà inaudita.
Un giorno sentii pesarmi troppo la catena, ed ebbi troppa vergogna di essermi unito ad una nemica della nostra razza. Decisi di fuggire al più presto, ed una notte tempestosa, sellato il gran cavallo bianco, lasciai il campo, giurando in cuor mio di non farvi più ritorno. Trascorsero degli anni. La guerra del Messico mi diede una fortuna che invano avevo cercato nella prateria, sposai una bella e giovane messicana della Sonora e andai a fondare l’hacienda di San Felipe, che tu già conosci.
— E che è una delle più belle dell’Utah, — aggiunse John. — E Yalla?
— Cominciavo già ad averla scordata e mi ero dedicato intensamente all’educazione dei miei due figli, Giorgio e Mary, essendo morta la loro madre troppo presto per mia sventura, quando un brutto giorno i miei fazenderos trovarono inchiodato, sulla palizzata del fortino eretto intorno alla mia casa, un fascio di frecce colla punta bagnata di sangue e strette da una pelle di serpente.
— Segnale di vendetta indiana, — disse John. — Vi aveva finalmente scovato quella terribile indiana?
— Proprio così! Quantunque fra i territorî degli Sioux e l’Utah, che è abitato dagli Arrapahoes, coi quali vivevo in buoni rapporti, Yalla era riuscita a trovare il mio rifugio.
Da quel giorno non ebbi più pace e tremai pei miei figli.
Tre volte delle bande indiane, venute non si sa di dove, tentarono d’incendiare la mia fattoria e due volte fui fatto segno a colpi di fuoco mentre cacciavo nella prateria.
Avevo già deciso di vendere la fattoria e di ritirarmi nella Sonora, dove la mia povera moglie possedeva dei beni, quando la guerra scoppiò come un colpo di fulmine fra la nostra razza e quella rossa.
Il Governo, preso alla sprovvista, chiamò sotto le armi i suoi vecchi soldati del Far-West, i più abili per combattere gl’Indiani, e dovetti raggiungere al più presto questo posto di osservazione che è uno dei più importanti, poichè chiude la via agli Sioux.
— O meglio ai guerrieri di Yalla, — disse John, il quale appariva sempre più preoccupato. — Ma, e il grande cavallo bianco come non rimase fra voi?
— Perchè mi fu rubato da una di quelle bande d’indiani che, come ti ho detto, non si sapeva donde venissero, e che erano invece sioux mandati dalla crudele Yalla.
— Ed ora lo ritrovate qui!... È strano!...
— Yalla aveva fatto di tutto per affezionarselo, ed in parte vi era riuscita. Infatti, negli ultimi tempi che io ero rimasto fra gli Sioux il cavallo bianco obbediva più a lei che a me.
— Con quella donna non avete avuto nessun figlio? —
Il colonnello guardo l’indian-agent con spavento.
— Non lo so: — rispose — lasciai la tribù tre mesi dopo il mio matrimonio. — John Maxim riattizzò il fuoco, riempì i bicchieri, ricaricò la pipa, poi disse:
— Qui sotto vi è un mistero che dobbiamo dilucidare, signor Devandel. Quasi quasi mi pento di aver fatto fucilare quel giovane guerriero, il quale forse avrebbe finito per lasciarsi sfuggire qualche confessione.
È vero che ci resta la piccina.
— Che cosa vorresti fare, John? — chiese il colonnello, con tono di rimprovero. — È vero che le pelli-rosse massacrano e tormentano ferocemente i nostri bambini, quando riescono a catturarli, ma noi non siamo selvaggi.
— Io credo, signor Devandel, che quella piccina sappia molte cose. Oh!... Si vedrà!... —
Stava per accostarsi a Minnehaha, la quale pareva che dormisse profondamente, quantunque i suoi occhi, di quando in quando si movessero, allorchè al di fuori si udirono rimbombare due colpi di fucile, seguiti dalle grida di:
— All’armi! Gl’Indiani!...
— Notte dannata!... — urlò l’indian-agent, balzando sul suo rifle, subito imitato dal colonnello. — Che cosa sta per succedere? È il mistero del cavallo bianco che si spiega?
Signor Devandel, accorriamo!... —
Si udivano le voci dei volontari della frontiera echeggiare in varie direzioni, però nessun colpo di fucile aveva tenuto dietro al primo, nè il grido di all’armi si era rinnovato.
In un baleno il colonnello ed il gigante si precipitarono fuori dalla tenda e si slanciarono verso la gola del Funerale, dove si vedevano agitarsi numerose ombre umane.
— Largo!... — gridò Devandel. — Ci attaccano, dunque? Ognuno prenda il posto assegnato.
— Ma no, colonnello, — disse un sergente. — Pare che si tratti di un falso allarme, poichè nessuno ha udito l’urlo di guerra degli Sioux.
— Chi vegliava alla gola? — chiese l’indian-agent.
— Harry e Giorgio.
— I due scorridori!... Sono troppo bravi per ingannarsi!... — disse il colonnello affrettando il passo.
Attraversarono velocemente la spianata e raggiunsero le due sentinelle avanzate, mentre gli altri si disperdevano in vane direzioni, per evitare qualche terribile sorpresa.
— E dunque, Harry? — chiese il colonnello, armando il rifle.
— Ah, signor Devandel, questa notte succedono delle cose molto strane!
Gli Sioux non devono essere lontani, poichè eccone qui un altro che è venuto a cadere proprio addosso al grande cavallo bianco.
— Un indiano ancora?
— Sì, colonnello, — rispose Giorgio il fratello dello scorridore.
— L’avete fulminato?
— Non si passa sotto i nostri rifles senza cadere, signore, — disse Harry. — Sarebbe troppo grossa per uno scorridore che mancasse al bersaglio. Ah!... To’!... Giorgio!...
— Fratello!...
— E l’Uccello della Notte?
— Non vi è più!...
— È stato portato via sotto il nostro naso senza che noi ce ne accorgessimo.
— Possibile!... — esclamò il colonnello, impressionato.
— Guardate anche voi, signor Devandel, — disse Harry. — Il fucilato non si trova più appeso alla roccia alla quale l’avevamo legato.
— Notte dannata!... — gridò l’indian-agent. — Succede la fine del mondo?
Dov’è l’indiano che dite di aver fulminato?
— È qui, coricato sul fianco del cavallo bianco. —
Il colonnello fece colle mani portavoce, gridando:
— Attenti: gli Sioux ci sono vicini! Aprite gli occhi!... —
Poi prese la grossa lanterna di marina che teneva in mano il gigante e si curvò sul famoso cavallo.
Un indiano, nudo come un verme, di mezza età, colle membra unte d’olio di semi di girasole e di grasso d’orso, per poter sfuggire più facilmente alle strette degli avversarii, giaceva presso l’animale, tenendo una mano nascosta sotto la grossa gualdrappa di panno azzurro che serviva da sella.
L’indian-agent, prima ancora che il colonnello avesse pronunciata una parola, era piombato sul cadavere ed aveva afferrata quella mano.
— Ah!... — aveva subito esclamato. — Ecco quello che cercava di far sparire questo verme, e che noi non abbiamo pensato a cercare. Qui troveremo la chiave del segreto! —
Aprì a forza la mano destra del morto e strappò una carta che stava stretta fra le dita appena irrigidite.
Aveva appena mandate un grido di trionfo, quando in fondo alla gola del Funerale, che la nebbia avvolgeva, si udirono echeggiare dei fischi acuti, un po’ stridenti.
— Gli Ikkiskota!... — avevano esclamato i volontari della frontiera, impallidendo.
Nel silenzio della notte, quel fischio che si ripeteva ad intervalli e che veniva emesso col fischietto di guerra degli Indiani, formato con una tibia umana, aveva prodotto in tutti una profonda sensazione.
Erano dunque vicini gli Sioux, quei terribili guerrieri che valevano da soli le tribù riunite dei Chayennes e degli Arrapahoes?
Il colonnello Devandel si spinse più innanzi che potè, cercando di discernere qualche cosa attraverso il nebbione che accennava a salire, poi disse:
— Ammassatevi tutti nella stretta e riparatevi dietro le rocce. La posizione è buona e non si espugnerà facilmente.
Io non vi chiedo che cinque minuti e poi sarò fra voi per vincere o per morire.
John!... Vieni nella tenda!...
— Subito, colonnello.
— Hai quella carta?
— Sì.
— Andiamo a vedere che cosa contiene. —