La rappresaglia

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[p. 209 modifica]LA RAPPRESAGLIA.

19 febbraio.


L’azione aerea che ha colpito Lubiana per giusta rappresaglia ai misfatti dell’aviazione austriaca, si è svolta fra bombardamenti ed attacchi, ed ha avuto episodi meravigliosi di battaglia.

Al di sopra delle Alpi Giulie, negli abissi sereni di un fulgidissimo cielo italiano, lontano dal mondo, il cuore italiano si è levato ad altezze sovrumane di eroismo.

Gli aeroplani che sono tornati dall’incursione, come ha giustamente detto il comunicato ufficiale, sono tornati sani e intatti, felicemente. La lotta non li ha che sfiorati. Il dramma è stato tutto umano. Una batteria è sempre militarmente sana, salva, integra, efficace, anche quando degli artiglieri muoiono sui pezzi, purché i pezzi sparino. Così un aeroplano che torna in piena efficienza, forte ed incolume, fa buon ritorno anche se insanguinato.

Uno dei nostri apparecchi è ridisceso sul suolo italiano per la volontà soprannaturale, per l’eroismo favoloso di un solo uomo ferito, portando dei morti. La sua avventura è fra le più terribili e le più grandiose della [p. 210 modifica] guerra dell’aria, ed ha la stupenda e sanguinosa bellezza di una vittoria.

Cerchiamo di narrare con ordine.

Il campo di aviazione pareva in festa, alla prima mattina, mentre i grandi apparecchi da crociera si preparavano al volo. L’ordine di partenza è stato accolto con gioia perchè era desiderato. In ogni delitto degli aviatori austriaci i nostri soldati dell’aria sentivano un’offesa inumana che spettava a loro di rintuzzare. Fremevano di sdegno e d’impazienza. Non si sono mai slanciati nell’atmosfera con così lieto entusiasmo come per questa spedizione punitiva. Alle sette e mezzo il primo aeroplano lasciava la terra.

La mattinata era serena, calma, fredda, un poco pallida, e le montagne lontane, le montagne che il volo doveva sorpassare, mostravano rosate frastagliature di nevi, nuvolose e leggere, come librate sul cupo e confuso azzurro delle pendici velate.

Per qualche tempo la squadriglia ha volteggiato sul campo per salire, per «prender quota». Erano dei «Caproni», i grandi apparecchi da lungo volo dalle doppie ali vaste ed il triplice timone di direzione.

Ingrossate dal casco, le teste dei due piloti affiancati spuntavano sul bordo della grande prora bianca, slanciata, ardita, che fende l’aria col suo sperone tagliente sporgendo come un rostro la mitragliatrice. Fra le due ruote [p. 211 modifica] anteriori, un luccichìo di cose strane, oblunghe, lucenti, appese in fila come delle campane: le bombe.

Un aeroplano aveva a bordo tre persone. Il fato gli riserbava la più gloriosa e tragica avventura. Il terzo passeggero era un ufficiale valoroso ed entusiasta che nessun dovere preciso costringeva ai voli. Il suo comando era a terra, ma la passione per l’arma aerea, l’amore paterno per i piloti alla cui vita la sua funzione lo univa, lo spingevano ad accompagnarli nelle imprese più rischiose. Era l’osservatore volontario delle escursioni più ardite, bonario, sorridente, calmo.

Pieno di un vigore giovanile si era inerpicato sulla fusoliera, felice. Al momento di partire un ufficiale era accorso sotto bordo porgendogli dei guanti a riscaldamento elettrico:

— Ha dimenticato questi, li prenda! Troverete trenta gradi sotto zero!

— Ma che! Farà caldo!

E si era assiso al seggiolino di punta, dietro alla mitragliatrice, dove doveva morire della più bella morte.

Prendere quota è una manovra che separa e sparpaglia. Nelle vicinanze della fronte, raggiunta l’altezza voluta, la squadriglia si è riunita, ed assunta la formazione prescritta ha puntato verso la mèta. Volava in una linea diagonale, secondo la tattica comune alle piccole squadre. In questa formazione ogni apparecchio [p. 212 modifica] fila un poco sul fianco dell’apparecchio che lo precede. Non coprendosi, gli aeroplani possono scorgersi l’uno con l’altro. Ma nella luce, navigando contro al sole, i più lontani svanivano allo sguardo dei nostri piloti, e la squadra pareva senza fine.

Il volo era calmo, stabile, superbo, benché un vento gelato di nord-est rallentasse la corsa. Soffiava a quell’altezza un po’ di quella bora che fa le belle giornate sull’Adriatico.

L’Isonzo è stato valicato a nord del Sabotino e del Monte Santo, incipriati di brina. La valle angusta, cupa, piena d’ombra, sembrava un solco azzurro. Al di là, una tempesta di vette e di pianori sulla quale il biancheggìo delle nevi metteva effetti di spume sulle onde: l’altipiano di Rainsizza. La squadriglia saliva sempre per valicare in altezza i monti dell’Idria. Sull’Isonzo è cominciato il tiro delle batterie antiaeree del nemico.

Non si udivano i colpi e le esplosioni, per il canto possente delle eliche, ma si vedevano le nuvolette degli scoppi formarsi intorno alla squadriglia. Tutto il cielo appariva a momenti punteggiato da nuclei bianchi di fumo fra i quali il volo passava. Un po’ di calma si è fatta sull’altipiano, irto di punte, solcato da labirinti di vallette.

Coperto di neve esso appariva come un caos di candori, sul quale delle vaste selve stendevano qua e là una bruma fulva. Le strade [p. 213 modifica] sui pendii nevosi erano dei filamenti tortuosi, sottili e oscuri. I villaggi alpestri formavano minuscole macchie brune, degli aggruppamenti di ombre. Volando col sole di fronte, tutta quella regione d’alta montagna si vedeva soffusa di colorazioni glauche; aveva diafanità incorporee, leggerezze vaporose; sembrava dovesse essere molle come un panorama di nubi se i rilievi maggiori, percossi dal sole, non avessero sollevato profili taglienti e luminosi, bagliori di ghiacci netti e violenti.

Invece le vallate più vaste, a destra, verso Aidussina, verso Vippaco, verso Adelsberg, sparivano nella foschìa delle bassure ampie, fumose, giallastre, indefinite, e delle grandi nubi, più basse delle vette dei monti, quelle nubi che si formano sulle pianure dopo una mattinata di nebbia, coprivano a tratti le valli. Ai nostri volatori sembravano come posate sulla terra. Essi, sorvegliando il cielo, gettavano sguardi di ammirazione al paesaggio fantastico che si svolgeva con solenne lentezza sotto a loro, in fondo al luminoso abisso.


Ad una cinquantina di chilometri da Lubiana è avvenuto l’attacco nemico. L’allarme agli austriaci doveva essere stato dato dall’osservatorio del Monte Santo, dal quale nelle belle mattine la visione può spingersi lontanissima sulle nostre pianure. Forse la squadriglia era stata avvistata mentre ancora si formava. [p. 214 modifica]

Gli aviatori austriaci non hanno osato affrontare la squadra intera. Hanno aspettato che essa passasse per gettarsi sull’ultima unità con apparecchi da caccia. Ogni aeroplano da crociera ha un lato vulnerabile. Ma, volando in squadriglia, la sua parte meno difesa è sotto la protezione dell’apparecchio che segue. L’ultimo è necessariamente più debole.

La tattica austriaca non è stata gloriosa ma certo abile. Non si può nell’aria come sul mare comandare i movimenti d’una flotta volante. La trasmissione degli ordini è impossibile. E se fosse possibile, le necessità sopravvengono così fulmineamente che ogni manovra comandata sarebbe tardiva, e perciò dannosa. L’azione, di fronte all’imprevedibile, non può essere che individuale, dettata dalla necessità dell’istante, e la cooperazione, limitata dalle possibilità delle varie macchine, non può sorgere che spontaneamente, quando è possibile, dalla visione diretta dei fatti e dalla intuizione dei bisogni. Nel cielo è l’isolamento.

Uno dei piloti del penultimo aeroplano è stato forse il primo ad avvistare il nemico. Era il pilota di destra. Ha veduto venir su dalla vallata, presso a poco all’altezza di Aidussina, un piccolo monoplano velocissimo, che saliva senza giri, seguendo quasi il pendìo della montagna. Emergeva dalle brume, balzava in alto con volo impetuoso e rettilineo.

Il pilota che lo aveva scorto lo ha indicato [p. 215 modifica] al compagno. Tutti e due hanno avuto l’impressione che il nemico filasse dritto su di loro, dal basso in alto. Allora hanno virato leggermente a destra, per sorvegliare meglio e per fronteggiare il probabile pericolo. Un secondo apparecchio austriaco compariva in quel momento, quasi sulla rotta del primo. Essi erano ancora più bassi di alcune centinaia di metri del nostro livello di volo.

Con un netto mutamento di rotta i due monoplani hanno girato a sinistra filando verso l’ultimo Caproni, sotto al quale sono passati. I piloti che avevano osservato attentamente questa manovra, hanno creduto di riconoscere negli avversarii due Fokker, i recenti strumenti da caccia che tanta strage hanno fatto nell’aviazione inglese in Francia.

Il Fokker è un formidabile piccolo monoplano, con un motore rotativo Mércédes di duecento cavalli, capace di volare a centonovanta chilometri all’ora, armato di una mitragliatrice che può tirare in ogni senso, anche attraverso il disco rotante dell’elica in virtù di un interruttore che impedisce lo sparo nell’istante in cui l’elica potrebbe essere colpita. Un aeroplano così fatto può sfuggire ai colpi manovrando, volteggiando, tenendosi sul lato meno difeso e, più vulnerabile dell’avversario, può aggredire senza rischio.

Vedendo che l’ultimo Caproni stava per subire l’attacco, i piloti del penultimo hanno [p. 216 modifica] iniziato un giro per avvicinarsi. Erano lontani un chilometro e mezzo dall’unità in pericolo, la quale si scostava verso il sud.

Essi hanno osservato un volteggiare rapido e serrato di uno degli austriaci, ora sopra, ora sotto al Caproni assalito, mentre l’altro faceva evoluzioni più larghe e più discoste.

Poi la caccia è cessata, ad un tratto, e si è visto il Caproni, come sfuggendo all’aggressione, allontanarsi verso ponente, solo, veloce, intatto, con volo sicuro.

— Si è liberato da sè! — ha gridato uno dei piloti che guardavano.

— Via, a Lubiana! — ha risposto il compagno.

E la loro macchina possente ha ripreso la rotta.

Lo strepito assordante dei motori e il rombo profondo e sonoro delle eliche non avevano permesso loro di udire lo scoppiettìo delle mitragliatrici, di intuire la lotta svoltasi fulmineamente, e non potevano immaginare quale carico sacro di eroismo e di morte, di gloria e di sangue, portava ora con sè quella macchina alata che si allontanava così calma, librata nell’immensità dei cieli, al di sopra del mondo, aleggiando verso la Patria.

Era il Caproni dai tre passeggieri.

Essi al primo momento non avevano scorto che un solo aeroplano nemico. Lo avevano visto passar sotto, tre o quattrocento metri [p. 217 modifica] lontano, e portarsi alla loro sinistra. L’ardito ufficiale che volontariamente aveva assunto l’incarico dell’osservatore, afferrati i manubri della mitragliatrice, all’estrema prua, si apprestava il momento favorevole.

L’altro monoplano austriaco, non visto, basso, si era allontanato indietro. Poi era tornato, inseguendo e salendo. Quando ha raggiunto il Caproni, gli stava quasi sopra. Lasciandosi allora scivolare in volo librato gli è arrivato ad una cinquantina di metri di distanza, scaricando la mitragliatrice con tiro obliquo. Dominava il nostro apparecchio da dietro, un poco a destra.

Le pallottole hanno grandinato sulle attrezzature.

Il nemico mirava agli uomini. Il pilota di sinistra, l’eroe leggendario della giornata, è rimasto ferito subito. Un proiettile, traversandogli il casco da parte a parte, gli ha solcato la pelle del cranio.

Ha rassicurato i compagni con un gesto.

Il pilota di destra ha lasciato il posto di manovra e, afferrato un fucile automatico, è andato a poppa, fra i motori, per difendere quel lato. L’ufficiale osservatore, che aveva il comando, si è voltato un istante a vedere ed ha fatto un cenno di approvazione.

Una grande calma, una solenne calma, era in tutti gli atti di quei tre uomini toccati già dal destino. [p. 218 modifica]

L’apparecchio aggressore intanto, piombando col suo volo librato, era passato sotto al Caproni, trasversalmente, e tornava indietro, riprendeva altezza. Ripeteva l’attacco con la stessa manovra.

È arrivata la seconda scarica della mitragliatrice nemica.

Un’altra grandine di pallottole ha percosso la prora.

Il fucile automatico italiano ha sparato tre o quattro colpi, poi ha taciuto.

Alla seconda raffica le mani dell’ufficiale osservatore sono piombate giù dai manubri della mitragliatrice. Egli ha rovesciato la testa indietro, e scivolando dal suo seggiolino, è caduto riverso.

Il pilota, dietro a lui, lo ha scosso, ma ha riconosciuto la morte nel suo sguardo spento. Una palla alla tempia lo aveva fulminato.

Il pilota ferito, restato solo al governo dell’apparecchio, si è concentrato tutto nuovamente nella manovra, angosciato ma impavido.

Un istante dopo il collega che era andato nella passerella dei motori, gli è apparso vicino. Aveva avuto un proiettile nella spalla. Era pallido, barcollante, si reggeva la mano del lato ferito con l’altra mano, e questo suo gesto aveva un’esprimibile espressione invocante. Guardava fisso l’amico, fraternamente, come volesse dirgli qualche cosa. Ma non parlava che con quello sguardo dolce, profondo, solenne, intenso. [p. 219 modifica]

L’aeroplano nemico compiva il terzo attacco. È arrivata la terza raffica.

Il pilota che aveva la spalla trapassata è caduto. Un’altra pallottola lo aveva finito, traversandogli il cuore.

Nel giro di qualche minuto, l’uomo al volante, col suo cranio tagliato, si è ritrovato unico sopravvivente dell’equipaggio sulla gigantesca macchina alata, dalla quale stille di sangue piovevano sulla terra lontana. Mai la morte era salita così in alto nel cielo.

Gli avversarii, finite le munizioni, volavano vicinissimi ora, facendo cenno al superstite di atterrare.

Passavano e ripassavano gestendo, offrendo la resa, e le loro mani protese ripetevano: «Giù, giù! Calati! Calati dunque! Che aspetti?»

Ma il pilota italiano oscillava la testa ferita in una negazione ostinata, disperata, sublime.

Aveva i piedi nel sangue. I suoi compagni gli erano caduti così vicini che i loro cadaveri imbarazzavano la manovra. Sul volante pesava il corpo dell’ufficiale osservatore. Con uno sforzo penoso il pilota ha dovuto spostarlo, lo ha rovesciato in avanti sul bordo della prora, al quale è rimasto appoggiato con la fronte, le braccia pendenti, tutto raccolto come in un sonno profondo. L’altro cadavere era caduto sulla pompa della pressione, fra i due seggiolini affiancati, e per farla agire l’eroe era [p. 220 modifica] costretto a sollevare la salma dell’amico, con una mano sola, energica e pietosa.

La sua ferita dolorava. Caldo il sangue gli colava sul viso di fra le imbottiture del casco e si gelava al vento della gran corsa nelle altitudini dell'atmosfera. Con la mano guantata si asciugava ogni tanto gli occhi, sotto al cristallo della maschera, che gli si velavano di una nebbia rossa.

Non era più un uomo, era una volontà vivente. Non arrendersi, non cedere, riportare dal cielo all’Italia la sua nave volante ed i suoi morti: questo il suo pensiero grande, unico, febbrile. Tutta la sua vita era nel volo, il suo cuore era nella macchina. La sua anima piena di energie incommensurabili, si esaltava e spasimava nella visione delle nostre terre, lontane e nebulose, dalle quali saliva verso di lui come un immenso appello materno, la voce intensa di un richiamo prodigioso, ardente, appassionato, senza fine.

Filando verso Gorizia passava sull’invito di vallate facili all'atterramento, vedeva svolgersi molli pianure allettevoli adatte alla discesa, e sentiva mancargli le forze. Si sentiva spegnere. Ma volava, volava, e l’aeroplano tragico filava nelle luminose profondità dello spazio, condotto da un’agonia. Tutto questo valore e tutto questo martirio veleggiavano trionfalmente nel cielo come una apoteosi del sacrificio.

All’eroe ferito il viaggio pareva eterno. Non [p. 221 modifica] finiva mai, mai, mai. Egli si sentiva fuori del tempo, fuori della vita. Era come in un sogno epico e feroce, pieno di truce ebbrezza.

In prossimità della fronte il fuoco delle artiglierie antiaeree lo ha avvolto. Lasciato indietro l’Isonzo si è avvicinato finalmente a terra. Ha cercato dei prati. È sceso.

I soldati accorsi dai campi vicini non hanno visto escire nessuno dall’apparecchio appena fermo.

La macchina insanguinata, silenziosa pareva abbandonata. Inerpicatisi sulla fusoliera essi hanno avuto l’impressione che nulla più vi vivesse. Hanno creduto tutti morti.

Con le mani sul volante, la faccia appoggiata alle mani, il pilota svenuto pareva un altro cadavere.

Il suo primo pensiero, tornando in sè, è stato per i suoi compagni. Nella confusione del risveglio ha domandato di loro.

Mentre si svolgeva questo superbo dramma dell’aria, la squadriglia proseguiva verso Lubiana.


Arrivando sullo sbocco della valle del Laibach, gli aviatori si sono trovati sopra pallori di brume e candori di nuvole basse. La terra appariva remota, sbiadita, fra squarci di nubi, fra cirri leggeri, qua e là in ombra, qua e là soleggiata. Lontano, al nord, nella vallata della Sava, nitidamente biancheggiava Krainburg. Ma [p. 222 modifica] Lubiana era in gran parte nascosta da nuvolaglie leggere.

Soltanto un lembo estremo dei quartieri al sud della città era visibile, un po’ sbiancato dai vapori. Era uno sparpagliamento grigio di piccoli tetti oscuri lungo la riva del Laibach. Una quantità di treni nereggiava sui fasci di binari della stazione, circondata da vaste tettoie. Altri treni correvano sulla linea di Gorizia. S’intuiva un intenso movimento ferroviario.

La città, che si adagia in gran parte sulle falde delle alture di ponente, s’indovinava sotto alla coltre nuvolosa. Una visibilità maggiore hanno cercato i Caproni avvicinandosi a terra. Ma le batterie antiaeree della difesa avevano aperto il fuoco. Raffiche di proiettili esplodenti accompagnavano i nostri voli. Ed è fra le nuvole che ogni aeroplano ha lasciato piombare tutte le sue granate-mina e le sue bombe.

Dopo tre o quattro giri su Lubiana, ad uno ad uno, gli aeroplani hanno ripreso la rotta del ritorno. In quel momento, quel Caproni che aveva il penultimo posto nella formazione di partenza, e che aveva assistito, senza poterlo comprendere, al primo combattimento, ha avuto un violento sobbalzo. Un guasto al motore centrale. Temendo di non poter risalire a grandi altezze, ha deviato solo verso il mare, cercando le bassure. I piloti vedevano il mare lontano, una sfumatura azzurra all’orizzonte, la salvezza. Hanno messo la prora su Trieste. [p. 223 modifica]

Sono passati sulla città a mille metri, in una bufera di shrapnells. Trieste era in allarmi. Si distingueva da quell’altezza il fuggi fuggi della gente. I tramways erano fermi, e nella stazione le locomotive in manovra si affrettavano sbuffando a ricoverarsi sotto alle tettoie. Quando il Caproni attraversava i quartieri del centro, la città pareva deserta.

Ancora un minuto, ed ecco il volo sulle onde. I proiettili inseguivano ancora, ma i piloti hanno avuto un’esplosione di gioia. Si sono scambiati un sorriso ed hanno acceso le sigarette. Sotto a loro una torpediniera fuggiva spaurita. Un sottomarino ha profilato nell’azzurro dell’acqua l’ombra del suo corpo immerso, del quale l’affilato ponte soltanto, come la pinna dorsale d’un gran pesce, tracciava a fior d’onda una lunga scia bianca.

Attraversato il golfo, mezz’ora dopo essi atterravano sul loro campo.

Un Caproni soltanto è mancato all’appello.

Le vedette nostre lo hanno visto calare sul territorio nemico circondato da uno sciame di apparecchi da caccia austriaci. Sembra che l’avversario abbia ripetuto la tattica del primo attacco. Sarebbe stata ancora l’ultima unità della squadriglia assalita al ritorno, isolata e sopraffatta.

Le nostre perdite non sono gravi, e sono state accompagnate da un tale splendore di gloria, che l’orgoglio nostro supera forse il [p. 224 modifica] dolore. Ogni azione di guerra fa le sue vittime. Le incursioni aeree hanno sempre lasciato qualche penna nella lotta. L’essenziale è questo: che in condizioni difficili, l’eroismo dei nostri aviatori ha portato a compimento fieramente l’impresa che la Nazione si aspettava da loro.

La rappresaglia è compiuta, la punizione è inflitta. Essa deve significare al nemico inumano che noi, rispettosi del diritto delle genti, reclamiamo e imponiamo un eguale rispetto a nostro riguardo, ovunque e sempre, sotto la pena del taglione.