Storie fiorentine dal 1378 al 1509/XXI
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XXI.
Imprese del Valentino in Romagna. — Sua venuta a Campi ed accordi con Firenze. — Lega tra Francia e Spagna ai danni del re di Napoli. — Lucrezia Borgia. — Nuovi accordi di Firenze col re di Francia. — Riforme interne. 1501. Seguitò lo anno 1501, sendo ancora gonfaloniere di giustizia Piero Soderini, nel quale tempo el Valentino, fatto giá, doppo l’acquisto di Imola e Furli, signore di Rimino e di Peserò, e con poca difficultá, perché quegli signori Pandolfo Malatesta e Giovanni Sforza, inteso lo sforzo suo e non avendo riparo, non lo aspettorono, ritornò a campo a Faenza; e benché e’ faventini sostenessino da principio ostinatamente lo impeto suo, pure di poi a ultimo stracchi e non avendo speranza di soccorso, gli arrenderono la cittá, pattuita prima la salute e liberazione di Astore loro signore. La qual cosa non osservò, perché lo menò seco prigione, ed usatolo, come si disse, libidinosamente, perché era fanciullo bellissimo, lo fece in ultimo amazzare, mostrando in uno tempo medesimo perfidia, lussuria e crudeltá grande. E cosi el Valentino acquistata Faenza e fatto signore di tanti stati di Romagna, venne in riputazione grande, e massime perché aveva un buono esercito ed era signore valente e molto liberale ed amato da’ soldati ed aveva a’ soldi sua Giampaolo Baglioni, Vitellozzo Vitelli, Paolo Orsini e quasi tutta la milizia di Italia; in modo che la cittá nostra non si trovando con ordine di forze e di danari, e con la piaga di Pisa e di Pistoia, e drento con poco ordine e governo, né avendo intelligenzia o dependenzia alcuna da Francia, cominciò a temerne assai, massime per essere a’ soldi sua e’ Vitelli e gli Orsini, inimici della nostra cittá.
Espugnata che ebbe el Valentino Faenza, ne venne alla volta di Bologna per fare pruova di mutare quello stato ed insignorirsene per la Chiesa,- ma vedendo che e’ Bentivogli erano drento bene provisti e che la impresa sarebbe lunga e difficile, fatto certo accordo con loro e tocca buona somma di danari, si parti. E non essendo ancora uscito del bolognese, messer Giovanni fece amazzare messer Agamennone figliuolo di messer Galeazzo Mariscotti con certi altri sua fratelli, dicendo avevano tenuta pratica di dare al Valentino Bologna, o perché in fatto fussi vero o pure perché sotto questo colore volessi levarsegli dinanzi; parendogli che messer Agamennone fussi uomo di ingegno ed ambizioso, e che per nobilita e per molti conti avessi séguito e riputazione grande in Bologna. Partito el Valentino di Bologna, se ne venne del mese di maggio sendo gonfaloniere di giustizia Lorenzo di Lotto Salviati, in su’ terreni nostri; e per la via di Valdimarina ne venne a Campi, avendo lasciato Piero de’ Medici a Luiano in bolognese ed avendo con seco Vitellozzo e gli Orsini.
Dette questa cosa alterazione assai nella cittá, perché el popolo fece giudicio che e’ fussi venuto con ordine de’ cittadini principali, e’ quali con questo mezzo volessino mutare lo stato, ed accrebbesi questo sospetto, perché essendo entrato Valentino colle gente in Valdimarina, che è luogo stretto, fu opinione del volgo che se si fussi mandate le gente si potevano, sarebbe stato rotto, ma che chi l’aveva fatto venire, fussi stato operatore della salvazione sua. Per le quali cose inveleniti gli animi, e sparlandosi publicamente di molti, massime di Bernardo Rucellai, di Lorenzo di Pierfrancesco, de’ Nerli, di Alfonso Strozzi e simili, fu pericolo che la moltitudine non corressi col fuoco a casa e’ cittadini piú nominati; ma seguitando poco poi l’accordo con Valentino, si fermorono le cose, perché come Valentino fu giunto e férmosi a Campi, faccendo e’ sua molti danni ne’ luoghi circumvicini, gli fu mandati piú oratori, fra gli altri el vescovo de’ Pazzi, Benedetto de’ Nerli, Piero Soderini ed Alamanno Salviati, e’ quali finalmente feciono accordo con lui, e cosi se ne stipulò el contratto: che e’ si partissi de’ terreni nostri sanza fare piú danno o lesione alcuna; fussi condotto per nostro capitano generale per tre anni, con certo numero d’uomini di arme e con condotta di ducati trentamila l’anno; lasciassisi Gerbone cancelliere de’ Vitelli, a instanzia di Vitellozzo. E cosi convenuto, si parti accompagnato da Piero Soderini, Luigi dalla Stufa ed Alessandro Acciaiuoli, e’ quali usassino seco l’uficio di imbasciadori ed attendessino come commessari a fare provedere pe’ luoghi donde aveva a passare, acciò che e’ non seguissi disordine; e benché si usassi tutte le diligenzie, nondimeno e’ sua feciono molti danni pe’ terreni nostri. Questa venuta del Valentino potette essere causata da se proprio, perché stimassi, veduti e’ -disordini della cittá, averne a migliorare condizione, o disegnando la condotta o qualche altro acquisto; ma lui disse da poi molte volte cogli uomini nostri in sua giustificazione, che quando parti del bolognese, la intenzione sua era andarsene per Romagna e non toccare e’ terreni nostri, ma che sendone richiesto instantissimamente da Vitellozzo e gli Orsini, non potette loro negarlo; ma che poi, vedendosi in sul nostro, volle pigliare quello vantaggio potette avere. Da altro canto Vitellozzo e gli Orsini, parlando a Campi separatamente cogli imbasciadori nostri che erano iti al duca Valentino, mostrorono con parole e gesti efficaci che Vitellozzo non pretendeva avere ricevuta ingiuria alcuna dalla cittá, ma da pochi cittadini; de’ quali quando si pigliassi qualche onesto modo che vi fussi drento lo onore suo, sanza lesione però di chi l’aveva offeso, che e’ vorrebbe essere buono figliuolo e servidore della cittá; e cosi gli Orsini perché e’ conoscevano molto bene quanto questa amicizia potessi essere utile per l’una parte e per l’altra. Le quali offerte loro non furono accettate, perché la brigata non se ne fidava, e dubita vasi non l’avessino fatto per mettere qualche disunione e scandolo.
Quel che si fussi la cagione di questa venuta, la fu di gran terrore a’ cittadini savi per piú cagione: l’una per il sospetto che prese el popolo a torto che e’ cittadini vi tenessino mano, el quale multiplicò molto nella mente degli uomini e con tanta infamia de’ primi, che a casa Piero Soderini furono dipinti ceppi e forche; l’altra, perché la cittá si trovava male condizionata col re, ed in modo che non molti giorni innanzi, non si gli faccendo e’ pagamenti che s’avevano a fare per virtú de’ capitoli fatti a Milano secondo e’ debiti tempi, aveva molto svillaneggiato di parole Pierfrancesco Tosingni nostro imbasciadore, insino a dirgli che non voleva che egli stessi in corte, perché non vi voleva imbasciadori degli inimici suoi; e però dubitorono e’ piú savi che questa mossa di Valentino non avessi origine da lui, che ci volessi battere con questo bastone. E per levarsi da dosso tanto affanno, acconsentirono a una condotta violenta, e che non si poteva osservare per la somma del danaro, e perché la cittá non si sarebbe potuta fidare di lui; e cosi feciono previsione di danari al re, in modo che lui addolcito comandò al Valentino che non ci molestassi. Partitosi el Valentino, ne venne in quello di Siena e con ordine di Pandolfo Petrucci suo intrinseco amico, voltò le gente a Piombino, ne cacciò el signore e si insignorí di quello luogo con gran dispiacere della cittá che si doleva che ne’ luoghi vicini multiplicassino tanto le forze sue. Sopravenne quasi nel medesimo tempo a Italia nuovo accidente, perché el re di Francia, desideroso recuperare el reame di Napoli e veduto el re Federigo tenere pratiche grande con Ferrando re di Spagna, per non avere a combattere a un tratto con lui e con Spagna, aveva segretamente fatto accordo con Spagna di dividere insieme quello regno per metá; e di poi mandò le gente sue nel reame, le quali passorono pe’ terreni nostri poco di poi che el duca Valentino si era partito. Da altra parte el re di Spagna, sendo ancora segreto questo accordo fatto con Francia, mandò in Calavria una armata grossa con buono esercito, fattone capitano Consalvi Ferrando uomo valentissimo, dimostrando al re Federigo farlo per suo aiuto; ma come e’ franzesi entrorono nel reame, si scoperse in loro favore.
E 1 re Federigo, vedutosi tanta piena adesso, aveva fatto disegno di tenere Capova e messovi drento gran numero di fanterie ed ancora cavalli assai ed el conte Rinuccio da Marciano condotto pochi mesi innanzi a’ soldi sua; ma e fu tanto l’impeto e la gagliardia de’ franzesi, che alla prima battaglia, e credo el primo di poi che ebbono piantato le artiglierie, la espugnorono e vi feciono drento grandissima uccisione e crudeltá, e di soldati, fra’ quali fu morto el conte Rinuccio, e di terrazzani, ché in su quella furia non perdonorono a sesso né a etá alcuna. La quale cosa intesa che ebbe el re Federigo, abbandonato Napoli, si fuggi in Ischia, e pochi di poi capitolò co’ capitani del re dare loro Ischia e le fortezze del reame che erano in mano sua, e lui andarsene in Francia, dove avessi a essergli assegnato dal re uno stato di entrata di trentamila scudi l’anno; e cosi fatto questo accordo, si fece secondo e’ patti la divisione tra Francia e Spagna, nella quale a Spagna toccò Calavria e credo lo Abruzzi, a Francia toccò Napoli, Capua, Caeta, l’Aquila ed el resto del reame.
Nel medesimo anno e del mese di settembre o di ottobre, papa Alessandro maritò madonna Lucrezia sua figliuola bastarda a don Alfonso primogenito di Ercole duca di Ferrara; el quale parentado fu per la parte del duca disonorevole, per essere lei bastarda e di casa privata, ed inoltre avere avuti dua mariti; uno el signore Giovanni di Peserò, dal quale fu menata, ma di poi el papa, fatto provare che gli era impotente, lo disfece; l’altro un bastardo di casa di Ragona, el quale fu di notte morto in Roma dal duca Valentino; e di poi perché era ferma opinione che el papa suo padre e Valentino suo fratello avessino avuto a fare con lei. E cosi pel contrario essere la casa da Esti nobilissima ed usa a parentadi grandi, perché la donna del duca Ercole era stata figliuola del re Ferrando, e la prima donna di don Alfonso, che era morta sanza figliuoli, era stata figliuola del duca Galeazzo; e nondimeno fu tanta la instanzia che ne fece el re di Francia per satisfare al papa, tanta la dote, si grande la sicurtá se ne cavò, perché al duca gli parve con questo parentado fermare lo stato suo, che e’ si stimò piú l’utile che l’onore; e cosi le cose del papa procedevano con grandissimo favore di fortuna.
Ne’ medesimi tempi si trattava accordo tra el re di Francia da una parte, e Massimiano e Filippo arciduca di Borgogna da altra parte; la qual cosa desiderandosi assai da Francia, venne el cardinale di Roano, che assolutamente governava el re a Milano, e di quivi ne andò nella Magna a aboccarsi collo imperadore. Dove, doppo trattato di qualche rii, si conchiuse con molti patti segreti che pretendevano a acconciare a modo loro le cose di Italia, lega ed intelligenzia tra quegli principi, e publicamente si maritò a uno piccolo figlioletto dello arciduca una piccola fanciullina figliuola del re di Francia, promettendogli per dota lo stato di Milano; le quali convenzione, come di sotto si dirá, non ebbono effetto alcuno.
Fatta che ebbe monsignore di Roano questa conclusione, ne venne a Milano, dove gli fu mandato imbasciadori dalla cittá messer Antonio Malegonnelle e Benedetto de’ Nerli. La cagione fu perché el re pretendeva che non avendo noi fattigli certi pagamenti a’ debiti tempi ed inoltre non gli avendo pagati per la impresa del reame ducati cinquantamila in luogo de’ fanti, secondo la forma de’ capitoli fatti a Milano, essere rotti quegli capitoli, e lui non essere piú obligato a alcuna nostra protezione. E se bene la cittá si potessi assai giustificare, e massime perché a’ cinquantamila ducati non era obligata se non doppo la recuperazione di Pisa e le altre cose nostre, nondimeno essendo lui piú potente ed avendo nelle nostre differenzie a essere giudice e parte, non accettava alcuna nostra giustificazione, mostrando apertamente essere male disposto contro a noi; e però la paura s’aveva di lui ed el desiderio che e’ non avessi a malignare, era una delle cagioni che inclinava e’ cittadini a volersi accordare seco. Ma la potissima era che noi ci trovavamo sanza soldati e sanza forze e sanza dependenzia di potentato alcuno che ci potessi difendere, ed e converso si vedeva essere in sull’arme e potentissimo el duca Valentino signore di Romagna e di Piombino, ambizioso ed inimico nostro e che aveva occasione di nuocerci per non avere noi osservatagli quella condotta che si era fatta per necessitá; e con lui in condotte ed intelligenzia stretta e’ Vitelli, gli Orsini, Giampaolo Baglioni, lo stato di Siena e tutta quella fazione. Aggiugnevasi lo essere fuora e’ Medici, e’ quali intendendo la mala disposizione del papa e del re ed e’ disordini nostri, tenevano strette pratiche con l’uno e con l’altro, promettendo somme grandi di danari se fussino restituiti in casa; ed a questi effetti si trovava Giuliano in Francia.
Le quali cose conosciute molto innanzi da savi cittadini, erano state cagione che loro avevano un pezzo innanzi desiderato che si facessi di nuovo qualche appuntamento col re; ma la moltitudine che era stracca dello spendere ed inoltre male disposta e contenta del re, non conoscendo da se medesima e’ pericoli e non prestando fede a altri, non ne aveva mai voluto udire nulla; pure ora allargandosi e multiplicando tutto di e’ pericoli nostri, conscendeva piú facilmente. E perché si sapeva quanto monsignore di Roano poteva nel re, e che, acconcio lui, era acconcio ogni cosa, però vi fu mandati a trattare seco a Milano e’ sopradetti imbasciadori, e’ quali non feciono conclusione, perché Roano con varie cagioni differí tanto, che ebbe a tornare in Francia, dove lo seguitorono, oratori nuovi per la cittá, monsignore de’ Soderini e Luca d’Antonio degli Albizzi, e’ quali ebbono un maneggio molto difficile per la ingordigia che era in Francia e le contradizione che avavamo di Italia. In modo che dove si credette facessino in prima giunta apuntamento, furono da Lione rimessi a Bles, a Bles dondolati con varie scuse, tanto che vi consumarono in vano circa a otto mesi senza avere mai una buona parola, anzi ributtati sempre con modi villani dal re, dal Roano e da tutta la corte, e fatto in presenzia loro carezze e date lunghe audienze a Giuliano de’ Medici, el quale prometteva loro danari assai, ed aveva per la via di Roma facultá di dare loro sicurtá di banchi. In forma che si ritrasse che la pratica nostra si mandava de industria a lungo e che la intenzione del re non era capitolare con noi, anzi lasciarci correre adosso qualche piena, a fine che o noi stretti dalla necessitá ci gli cacciassimo sotto con qualche suo grande vantaggio, o veramente che fussimo forzati rimettere e’ Medici in casa, sperando in ogni tempo potersi piú valere di loro che del presente stato; il che si vergognava fare colle arme e forze sue, non avendo nessuna giusta causa rispetto a portamenti nostri e la fede osservata colla casa sua. Stavane la cittá molto sospesa ed in ambiguitá grande e sanz.a speranza di alcuno buono effetto; ma successe che, raffreddando lo accordo di Massimiano col re, lui mandò in Italia alcuni imbasciadori, fra’ quali fu Ermes fratello del duca Giovan Galeazzo. F’ermoronsi costoro in Firenze piú di e quivi feciono una capitolazione colla cittá, che in caso che Massimiano passassi in Italia per la corona dello imperio, la cittá pel debito aveva collo imperio, fussi tenuta a sovvenirlo di trentamila ducati in certi tempi. Prese el re per questa stanza degli imbasciadori e poi per la capitolazione qualche sospetto, che se e’ ci stranava troppo, noi non ci alienassimo in tutto da lui e gittassimoci in collo a Massimiano, col quale, come è detto di sopra, cominciava a ingrossare; in forma che o per questa o per altre cagione, fece fuora di ogni opinione lo appuntamento con noi. Lo effetto del quale fu che noi fussimo obligati per tre anni dargli ogni anno ducati quarantamila; e lui per questo tempo si obligò alla protezione nostra contro a qualunque ci offendessi, e di mandare a’ bisogni, quando lo richiedessimo, per difesa nostra quattrocento lancie. E benché questa somma di danari fussi grave alla cittá che era stracca per tante spese, nondimeno fu riputata buona nuova, parendo che rispetto alla riputazione e potenzia del re, ne el Valentino, né e’ Vitelli, né alcuno potentato di Italia ci dovessi molestare.
Fatto questo appuntamento, ed essendo cessato el sospetto di guerre esterne, e non si pensando ancora alle cose di Pisa per la stagione dello anno che non era ancora da fare imprese, si volse el pensiero a due cose importanti della cittá: l’una, perché el comune aveva in queste guerre accattato moltissimi danari da’ suoi cittadini, e però si trovava in molto debito e disagio perché se n’aveva a pagare loro gli interessi, pigliare qualche modo che in uno spazio di tempo si scaricassi questo debito, in forma che vi fussi drento la salvezza de’ cittadini con piú commoditá del comune che fussi possibile; l’altra, perché e’ podestá e capitani che venivano a rendere ragione nella cittá, menavano seco uomini imperiti ed ignoranti, e’ quali o tenevano le lite immortale o le decidevano non in quel modo sarebbe stato giusto, pigliare forma che e’ ci venissi a giudicare uomini valenti e buoni, acciò che la giustizia, che è uno de’ membri principali della cittá, si amministrassi rettamente.
Ed alla prima parte, doppo lunghe consulte, si prese uno disegno secondo el quale el comune veniva a scaricarsi in sei anni di tutto el debito de’ danari prestati, ma per le avversitá e spese che seguitorono nella cittá non si potè osservare; all’altra si ordinò che si eleggessi uno consiglio di giustizia che dovessi cominciare a novembre prossimo 1502, al quale si deputassino cinque dottori forestieri, uomini valenti, eletti da’ signori e collegi, con salario di ducati cinquecento per uno, e’ quali dovessino stare tre anni, ed avessino tutti insieme a giudicare le cause civili; e dalle sentenzie loro non si potessi appellare se non a loro medesimi. E perché gli uomini da bene piú facilmente ci venissino, sendo aggiunto l’onore allo utile, si ordinò che sempre uno di loro fussi podestá, durando ciascuno nella podesteria per sei mesi; il che benché fussi fatto con ragione, nondimeno ha disonorato lo ufficio della podesteria, perché questi dottori sono stati eletti uomini di qualitá che molti uomini nobili che solevano appetire questo uficio per onorarsene, ora non lo desiderano. E questo modo di giudicare che si chiamò consiglio di giustizia o vero Ruota, dura ancora che siáno a di 23 di febraio 1508, benché si sia fatta qualche variazione nello ordine del procedere, nel numero de’ giudici e del salario; e nondimeno non ha fatto el frutto che si sperava e che doveva, perché la malignitá e la ignoranzia nostra è stata tale, che e’ sono stati eletti quasi sempre uomini non idonei, e di poi entrati in uficio sono stati guasti, in modo che sono riusciti cattivi, e noi dapocamente e cattivamente gli abbiamo soportati.