Storie fiorentine dal 1378 al 1509/VI
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VI.
La cittá in questo mezzo, benché doppo la rotta dal Poggio avessi avuto qualche soccorso da Vinegia, nondimeno veduto Colle in modo stretto che era da credere si potessi poco tenere, e benché el tempo dello ire alle stanze si appressassi; pure considerando in quanti pericoli avessino a essere lo anno futuro, e massime perché si dubitava lo stato di Milano non seguitassi le parte del re o saltem si stessi neutrale, e vedendo bisognare pigliare modo alla salute sua o coll’avere altri soccorsi da’ collegati che pel passato o col pigliare la pace con piú tollerabili condizione si potessi, mandorono imbasciadore a Vinegia messer Luigi Guicciardini a fare intendere a quella signoria, come etiam si era fatto l’anno passato mediante messer Tommaso Soderini, in che condizione si trovava lo stato nostro, e che ci era uno unico rimedio, di transferire la guerra in su’ terreni degli inimici, el quale, rispetto alla debolezza nostra e la mutazione del governo di Milano, era fondato in gran parte in quella signoria. Le quali cose sendo mostre per lo oratore, non feciono quello frutto che meritamente dovevono fare. Di che sendo a Firenze per lettere di messer Luigi certificati, e come da loro non si poteva sperare piú che pel passato, Lorenzo de’ Medici, considerando in che pericolo si trovava lo stato suo e dubitando che questa guerra lunga e pericolosa non straccassi in modo la cittá, che e’ cittadini, per levarsi questa febre da dosso, non gli togliessino lo stato, voltosi tutto a’ pensieri della pace, né gli parendo altro modo che di placare lo animo del re, massime disperandosi del pontefice, e conferito questo suo pensiero con pochi o con nessuno, fatto una sera a dì 6 di dicembre chiamare da’ dieci una pratica di circa quaranta cittadini de’ principali, disse: avergli fatto chiamare per conferire loro una sua deliberazione, nella quale non ricercava lo consigliassino, ma solo lo sapessino; avere considerato quanto la cittá avessi bisogno di pace, non potendo difendersi per se medesima da sì potenti inimici, né volendo e’ collegati fare el debito loro; e perché gli avversari pretendevano lo odio essere piú tosto seco che colla cittá, ed el re in particolare aveva detto non essere inimico della cittá, ma amarla e desiderare la amicizia sua e cercare di ottenerla colle battiture, poi che altro modo non gli era giovato, però essere disposto transferirsi personalmente a Napoli; la quale andata gli pareva utilissima, perché, se gli inimici desideravano lui solo, l’arebbono nelle mani e per saziarsi di lui non bisognerebbe perseguitassino piú la cittá; se e’ desideravano non lui, ma la amicizia publica, questo essere modo a intendergli presto ed a potere ancora migliorare le condizioni della pace; se e’ volevano altro, questa andata lo dimostrerebbe, e intendendosi quello che e’ volessino, e’ cittadini si sforzerebbono con qualche modo piú vivo difendere la libertá e lo imperio; cognoscere in quanto pericolo si mettessi, ma essere disposto preporre la salute publica al bene privato, e pel debito universale di tutti e’ cittadini verso la patria e pel particulare suo, rispetto a avere avuti dalla cittá piú benefici e piú condizione che alcuno altro; sperare che quegli cittadini che erano presenti non mancherebbono in conservare lo stato e essere suo, e cosí raccomandare loro sé, la sua casa e famiglia; e sopratutto sperare che Dio, risguardando alla iustizia publica ed alla sua buona intenzione privata, aiuterebbe questo pensiero; e quella guerra che si era principiata col sangue del suo fratello e suo, si poserebbe e quieterebbe per le sue mani.
Dette questo parlare ammirazione a tutti quegli che non avevano prima notizia, ed e’ pareri furono in sé vari come si fa nelle cose grande; nondimeno, perché gli aveva detto non ci ricercare drento consiglio, nessuno la contradisse. E così lui, raccomandata la cittá ed el governo agli amici dello stato, si partì la notte medesima; ed el dì sequente giunto a San Miniato al Tedesco, scrisse una lettera alla signoria, scusandosi non gli avere prima communicato questo suo disegno, perché gli pareva che el tempo ricercassi piú tosto fatti che parole, ed allegando le cagione della andata sua, quasi in quel medesimo modo aveva viva voce fatto co’ dieci e colla pratica. Giunto di poi a Livorno e trovatovi due o tre galee mandate dal re Ferrando per levarlo, come ebbe avuto da Firenze el mandato di potere conchiudere quanto el popolo fiorentino, se ne andò per acqua alla volta di Napoli. Aveva el re Ferrando, avisato di tale deliberazione, credo dagli oratori milanesi che praticavano a Napoli la pace, mandato a sua richiesta le galee in Porto Pisano, e per dare uno saggio di pace innanzi che Lorenzo partissi, fatto che el duca di Calavria aveva richiesta la cittá di levare le offese a disdetta di dieci dì, e cosí si era consentito.
Questa andata di Lorenzo alterò assai e’ viniziani per essere fatta sanza saputa loro, e feciono concetto la pace essere conchiusa, e Lorenzo essere ito a cosa fatta, e loro essere lasciati a discrezione; e nondimeno per impedirla se la non fussi pure conchiusa, o veramente sendo conchiusa, per accertarsene, ed in ogni evento per trovarsi forti ed armati, subito feciono tornare in Romagna le gente loro che erano in Toscana in aiuto de’ fiorentini; richiesono lo stato di Milano e fiorentini di rinnovare la lega, allegando che per qualche accidente si era divulgato a Roma ed in piú luoghi che la era rotta per non si essere osservata secondo e’ capitoli, e però essere bene per tôrre ogni ombra potessi nascere, rinnovarla; e concorrendovi lo stato di Milano, la cittá, per non perturbare le pratiche di Napoli, la negò. Tolsono per loro capitano el magnifico Ruberto Malatesta; e perché gli era capitano de’ fiorentini, e durava la condotta sua qualche anno, e non voleva obligarsi a’ viniziani se non in caso avessi licenzia da’ fiorentini, feciono tanta instanzia si dessi questa licenzia, che la cittá, per non alienategli in tutto, se pure seguissi guerra, lo fece, benché molto male volentieri. Levate le offese, messer Lodovico e messer Agostino da Campofregoso ci tolsono furtivamente Serezzana; e querelandosene la cittá al duca di Calavria e di Urbino che fussi stata tolta sotto la fede loro dagli uomini loro, dimostrorno averlo per male e fare ogni instanzia con lettere ed imbasciadori ci fussi restituita; il che non ebbe effetto, o per la ostinazione de’ Fregosi, o perché egli operassino in fatto el contrario.
La cittá in quel tempo si trovava molto inferma, e diminuita assai la virtú, sí per la lunga guerra, sí etiam perché assai avevano preso animo di sparlare del governo e cercare novitá e gridare che gli era bene che gli onori e le gravezze non si distribuissino a arbitrio di pochi, ma de’ consigli. Nasceva questa audacia, perché molti facevano giudicio che el re avessi a tenere Lorenzo, dicendo che lui, disperato potere sostenere questo, si era gittato nelle braccia di quel re suo inimico temerariamente e sanza avere da lui fede o sicurtá alcuna: e se pure l’aveva avuta, che el re non la osserverebbe, sendo uomo sanza fede, come aveva mostro la esperienzia passata nel conte Iacopo ed in altri. E multiplicando ogni di questo omore nella citta, non si poteva pensare a fare provedimenti alla guerra; e massime che molti delle case dello stato, o perché dispiacessi loro el governo presente, o per credere che Lorenzo non avessi a tornare, cercavano cose nuove e volgevano credito a Girolamo Morelli; el quale, sendo di riputazione grandissima e forse cosí savio come altri che fussi nella cittá, avendo forse la medesima opinione di Lorenzo, era in qualche sospetto collo stato, nata forse non meno della autoritá che egli aveva, che da alcuno suo sinistro portamento. Gli amici del reggimento pareva loro assai conservare lo stato sanza mutazione, tanto che Lorenzo tornassi, ed ingegnavansi creare signorie di qualitá da potersene fidare.
Lorenzo, giunto a Napoli, fu ricevuto dal re con onore grandissimo, e sforzossi persuadergli che se gli dava la pace e conservavaio nello stato, si varrebbe molto piú della cittá a suo proposito che se lo spacciassi; perché se si mutassi a Firenze governo, potrebbe venire in mano di tali, che el re non ne disporrebbe come di lui solo. Stette el re molti di dubio, sendo da un canto molto stimolato dal papa di spacciarlo, da altro parendogli vere le sue ragione, ed aspettava vedere se questa suspensione facessi in Firenze novitá alcuna. Finalmente non si alterando nulla a Firenze, si risolvè alla pace ed a conservare Lorenzo, el quale vedendosi menare in lunga si ritrovava in gran paura; e nondimeno si soprasedé molti di la conclusione, perché el re voleva farlo con meno alterazione del papa fussi possibile; e non venendo da Roma la licenzia, fu contento che Lorenzo si partissi, avendolo certificato di quello voleva fare in ogni modo. Di che Lorenzo tornò per acqua, e subito ritornato a Firenze, dove fu ricevuto con grandissimi segni di letizia e benivolenzia, venne la nuova della pace, cosa molto desiderata e che gli recò grandissima riputazione; in modo che quanto la sua deliberazione fu pericolosa e forse troppo animosa, tanto gli fu lieto e glorioso el fine.
La pace dal canto nostro ebbe quelle condizione in qualche parte che sogliono avere e’ vinti; perché non vi furono inclusi e’ signori di Romagna che erano sotto la protezione della nostra lega, ma ne fu fatto compromesso nei re, el quale aveva a parole dato speranza di salvargli; non ci fu promessa la restituzione delle terre perdute, ma rimesse in arbitrio del re, el quale di poi nello 1481, alla fine di marzo, restituí Vico, Certaldo, Poggibonizi, Colle ed el Monte a San Sovino: la Castellina e le altre rimasono a’ sanesi secondo le convenzione avevano col re; pagossi certa somma di danari: e nondimeno fu pace con meno disavantaggio non ricercavano le condizioni nostre. Aggiunsesi una lega universale di Italia, non riservando la particulare; e si dispose che perché e’ viniziani avessino cagione di acconsentirla, avessino tutti e’ principi di Italia a mandare loro imbasciadori, come altra volta si era fatto nel 54, al re Alfonso. Fu ratificato ogni cosa dal re, Milano, Ferrara e noi; el papa ratificò la pace; e’ viniziani, non piacendo loro nuova lega, non ratificorono, anzi feciono, fuora della opinione di tutti, una nuova lega col pontefice. A Firenze si elesse imbasciadori al papa e re ed a rallegrarsi messer Antonio Ridolfi e Piero di Lutozzo Nasi; di poi si deputò undici imbasciadori a Roma a chiedere la assoluzione dalle censure, messer Francesco Soderini vescovo di Volterra, messer Luigi Guicciardini, messer Bongianni Gianfigliazzi, messer Piero Minerbetti, messer Guidantonio Vespucei, Gino Capponi, Domenico Pandolfini, Antonio de’ Medici, Iacopo Lanfredini, Piero Mellini..... e’ quali usate molte cerimonie e supplicazione la ottennono.
Quietate le cose della cittá di fuori, parendo agli uomini del reggimento le cose drento essere disordinate, attesono a ristrignere lo stato e dettono pegli oportuni consigli balia a trenta cittadini per piú mesi, e di poi a dugentodieei, e’ quali feciono squittino nuovo, ordinorono nuova gravezza, dettono a que’ trenta arroti quaranta, e’ quali per cinque anni avessino molte autoritá, e di creare la signoria ed altro e circa le provisioni della cittá, che si chiamorono el consiglio de’ settanta; el quale si continuò poi di tempo in tempo, in modo che fu un consiglio a vita. E perché el magistrato de’ dieci vacava, finita la guerra, ordinorono si eleggessi di sei mesi in sei mesi, del numero de’ settanta, otto cittadini chiamati otto di pratica, e’ quali avessino a vegghiare le cose importante dello stato di fuora ed a tenerne quella cura nella pace, che tenevano e’ dieci nella guerra; e cosí rilegorono e riformorono lo stato con piú grandezza e stabilitá di Lorenzo.