Storia di Torino (vol 1)/Libro II/Capo I

Libro II - Capo I

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Libro Secondo


Capo Primo


De’ Duchi, Conti e Marchesi


L’impero Romano, eminentemente civile, era ordi­nato in guisa, che le più lontane province, senza essere aggravate di soverchia dipendenza in tutto ciò che concerneva interessi puramente locali, rispon­dessero nelle cose gravi e negli affari di Stato, pronta obbedienza al centro comune di tutti i poteri. Tutt’altro accadde quando perirono le forme politiche dei Romani, e i Longobardi occuparono l’Italia. I capi dell’esercito vittorioso si divisero tra loro con titolo di duchi le città conquistate.

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Una parte, anche notabile, della conquista fu bensì riservata al re, ma a questo re si lasciò d’ordinario, dai casi di guerra in fuori, poca o ninna ingerenza nel governo dei ducati. Onde il vero signore del du­cato era il duca. E questo titolo acquistò tanto mag­gior importanza e valore, in quanto che dal ducato si faceva agevolmente passaggio al regno.

Il ducato Longobardo in Italia era ad un tempo e personale e territoriale. Il duca conservava le clien­tele Longobarde che comandava come capo militare, avea cioè sempre a’ suoi ordini una frazione dell’e­sercito nazionale. Aveva inoltre il governo de’ vinti assegnati in dote a ciascun soldato longobardo, dei pochi non ridotti a condizione servile, di quelli che le manumissioni andavano esimendo dal giogo.

Nè solo in Italia avea il titolo di duca acquistato sì gran valore. Pipino, che in qualità di maestro del palazzo dei re poltroni, aveva avuto sempre il vero esercizio della regale podestà, prima di scavalcare i suoi signori, e di chiamarsi re de’ Franchi, s’era chiamato duca de’ Franchi affine di salir per gradi al sommo onore.

Carlomagno, figliuol di Pipino, poiché fu padrone d’una vasta monarchia, volle rimuovere il pericolo che un vasso troppo potente cercasse d’imitare la felice usurpazione di Pipino; onde non solo spogliò della massima parte delle sue prerogative la carica di maire (maggiordomo) del palazzo, stata così [p. 103 modifica]fatale ai re poltroni, ma, procedendo a nuova division dell’imperio, lo spartì non in ducali, ma in comitati; essendo il titolo di conte di minor dignità, e aper­tamente indicativo di dipendenza. E fu provveduto anche alla minor estensione dei comitati. Certo quella nuova circoscrizione universal dell’imperio fu opera civilizzatrice e prova di grande scienza di governo. Ma in uno Stato così vasto, e composto d’elementi eterogenei, non poteano osservarsi ordini stretti, non potea la vigilanza del principe porgersi ad ogni emergente che necessitasse il suo intervento, con­veniva per minor male lasciar molto all’arbitrio, molto alla discrezione del delegato locale. Finché tenne lo scettro un gran principe, come Carlomagno, il suo nome fatto reverendo da tante vittorie, dall’unzion pontificia, dal nuovo titolo imperiale, dall’efficacia de’ suoi voleri, da molte prove d’un giusto rigore e d’una straordinaria attività, dalle buone leggi pro­mulgate, lo rendea si può dire presente in ogni luogo. Ma di fatto poi, mancato ch’ei fu di vita, diviso lo Stato tra più successori di piccola mente o di picciol cuore, si toccò presto con mano che Carlomagno non avea quasi fatt’ altro che mutar i nomi delle cose e ritardar l’usurpazione, ma che non avea potuto im­pedirla. Si chiamassero conti, o si chiamassero duchi, eran pur sempre capitani e giudici ne’ loro distretti. Vero è che due sorta di giudici mostravansi sopra di loro. Il conte del sacro palazzo, il quale sentenziava [p. 104 modifica]nelle cause che si recavano alla sacra udienza del re; ed i messi regali i quali recavansi nei comitati, ossia nelle giudiciarie (vocabolo per ogni verso equivalente) a ricevere ed a definir le appellazioni. Ma non tutti potevano od osavan ciò fare, e i placiti de’ messi regii non erano frequenti; e men frequenti ancora erano i giudizii palatini.

A ciò s’aggiunga che nelle Marche, ossia ne’ con­fini del regno, conveniva tener vivo, e, come ora si direbbe, organizzato un sistema di difesa. Il conte d’un piccolo comitato non avea sufficiente potenza. Convenne pertanto o dar più comitati ad un solo, od attribuir ad un conte più potente superiorità sui comitati vicini. Questi conti, distinti e potenti sopra gli altri, chiamaronsi conti dei confini (marck-graf) o marchesi. Dopo la metà del secolo ix si ordinò questo sistema de’ marchesati. I marchesi ebbero in realtà la medesima preponderanza de’ duchi, e taluno ne ripigliò anche il titolo; e come i duchi agevol­mente di marchesi diventarono re, od occupando il trono antico, o creandosi uno Stato nello Stato, come i re della Borgogna cis e transiurana. Al qual tempo anche l’onore di conte si rese di fatto ereditario, finché assai più tardi il diritto consacrò la felice usurpazione; ma in Francia prima assai che in Italia i comitati si riconobbero ereditarii per legge. In Bor­gogna, dove il titolo di marchese non si vede quasi usalo, niuno, dice Ditmaro, si chiama conte se non [p. 105 modifica]possiede l’onore di duca. Il che vuol dire se non possiede più comitati. Adelaide, signora del mar­chesato di Torino, era da S. Pier Damiano chiamata duchessa. Infine soprabbondano le prove delle cose fin qui discorse, le quali abbiam dovuto notare a più chiara intelligenza di quel che diremo del co­mitato e de’ conti di Torino, che furono i veri prin­cipi di questa città, sotto la dipendenza, più nominale che efficace, dei re d’Italia.