Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro quarto/Capo quarto
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CAPO QUARTO
(Dall’anno 1302 al 1357)
I. Pace fra Federigo e Carlo II. Regalo ricade agli Angioini. Morte di Carlo II, a cui succede Roberto. Si torna alla guerra, e Reggio è rioccupata da Federigo. Nuovi fatti d’arme in Calabria. Tregua. II. Nuove ostilità; nuova tregua. Reggio è consegnata a’ Legati Pontificii, i quali la danno in potere a re Roberto. Condizioni di Reggio. III. È fortificata da Roberto; tumulto della città. Indulto a’ ribelli. Gli Angioini in Sicilia, e gli Aragonesi in Calabria. Il Duca di Calabria in Reggio; suoi benefizii alla città. IV. Università. Sindaco, e sua origine ed uffizio. I Giurati. Il Sindaco Giovanni Moleti. V. Nicolò da Reggio. Morte del Duca di Calabria. Nozze di Andrea e Giovanna. Il Sindaco Arrigo Alupo. Giovanni Moleti. VI. Controversie tra i Reggini, ed il Conte di Sinopoli. Notizie di Sicilia. Morte di Roberto; e gli succede Giovanna. Fra Roberto e gli Ungheri in Napoli. Turbolenze di Messina. Blasco d’Alagona va contro Messina. VII. Avventura di Niccola di Lauria. VIII. Giovanna ed Andrea vengono in Reggio. Assalto di Messina. Morte di Andrea: e nuove nozze della regina. I Palizzi e Chiaromonte in Messina. Molti Siciliani fuggono a Reggio. IX. Gli Ungheri in Santagata. Questa terra è assaltata da’ Reggini. I Santagatini si gittano al Conte di Mileto. Il Sindaco Tommaso di Capua. Santagata è riannessa al distretto di Reggio. I Sindaci Andrea di Logoteta, ed Andrea de Riso. Privilegi della città. X. Lodovico e Giovanna in Reggio; poi vanno a Messina caduta al loro dominio. Tornano in Reggio. XI. Favori ottenuti da’ Reggini. Fiera di Agosto.
I. Dopo varie battaglie, e molto sangue versato, e molte rovine recate alle popolazioni, finalmente si venne alla pace tra Carlo II e Federigo (1302). E fu condizione della medesima che la Sicilia rimanesse a Federigo, e la parte di Calabria occupata da lui fosse ceduta a Carlo. A suggello di tal pace la figliuola di Carlo II, Eleonora, prendeva a marito re Federigo. Così Reggio si trasferiva di nuovo dall’aragonese dominio all’angioino. E pareva ormai che, accomodate le faccende politiche, potessero queste regioni cominciare a prender fiato, e rimarginar le dolorose piaghe, che la guerra vi aveva tenute vive ed aperte. Roberto, ch’era Vicario generale del Regno, per dare a’ Reggini argomento della sua benevolenza loro accordava varii privilegi (1303); e fra questi, che non potesse esser introdotto nella città e suo tenimento vino forestiero, bastando il lor proprio per l’interno consumo. E solo n’eccettuava il caso, in cui venisse in Reggio la regia Corte ed il suo seguito, restando alla medesima la facoltà d’introdurvi da fuori quella quantità di vino che le facesse bisogno. Sgravò pure nell’anno appresso i Reggini del pagamento del diritto della marinaria, per cinque anni.
Ma lo stato pacifico non durò, che poco tempo; e quando le genti de’ due Reami tornavano a gustare i preziosi frutti della pace, e della pubblica e privata prosperità, un nuovo incendio di guerra si suscitava a comun danno. Carlo II moriva nel mille trecento nove, e dopo varie opposizioni vinte da papa Clemente V, gli succedeva il figliuolo Roberto Duca di Calabria. Al quale Federigo, per private ingiurie, moveva guerra; ed in prima vista si gittava alla ricuperazione di Reggio. Ma i cittadini, così miseramente saettati dalle diuturne guerre tra l’Angioino e l’Aragonese, si mostrarono duri al tentativo di Federigo, e serbarono fede a Roberto. Di che volendo costui mostrar loro la regia gratitudine, li ricambiava coll’esentarli per cinque anni del pagamento de’ diritti del legname, e della marinarìa. Ma appresso, confortato Federico da Arrigo VII Imperator di Germania, (che gli si alleava, e calava personalmente in Italia, per accrescergli forza colle sue armi) usciva nuovamente con un’armata dal porto di Messina, e ritornando all’impresa di Reggio, vi poneva l’assedio. E come nei Reggini non era ancora estinto l’amore che portavano a Federigo, così tornò a lui facile guadagnarsi un grosso partito, che contribuì grandemente alla dedizione della città, ed alla espulsione de’ Francesi. I quali ciononostante si chiusero, e fortificarono nel castello, ove resistettero lunga pezza alla tempesta degli arieti, e delle saette nemiche. Ma quando (1313) il videro conquassato per modo che poco andava ad esser preso di assalto, i Francesi calarono agli accordi, e lo resero.
Da Reggio Federigo mosse per le terre prossimane, ed ebbe prima San Niceto, Calanna, Molta de’ Mori, e poi Scilla e Bagnara. A Calanna fu dato il sacco, perchè tenuta in ostinata difesa da Damiano de Palizio, aveva dato molto che fare agli Aragonesi. Ma in questo giunse notizia al Re che Arrigo VII già sceso in Italia, ed avviantesi a gran giornate per il Regno, moriva in Buonconvento di morte repentina e violenta. Per la qualcosa Federigo soprassedè dalla guerra; e fattosi d’altra opinione, ritornò spedito in Sicilia. Roberto all’incontro, preso animo, e Iena dalla morte di Arrigo, converse ogni sua forza contro Sicilia, e serrò di duro assedio Messina. Ma dopo si posarono le armi, e tra i due re si conchiuse una tregua di quattordici mesi; trattandola per Roberto il Conte di Squillace Tommaso di Marzano, e Riccardo da Passaneto per Federigo (1315). Durante la tregua però non si fecero che nuovi apprestamenti di guerra; e Roberto messa in punto una flotta considerevole, ne diede il comando al conte Tommaso di Marzano, uomo di gran consiglio e coraggio.
II. Come prima volse al suo termine il mese quattordicesimo (1316), Tommaso di Marzano si condusse a tentare le coste di Sicilia, e cercò sulle prime di espugnar Marsala, ma trovò l’osso assai duro. Poi rasentandone il litorale, travagliò molto paese, e spianò i casamenti ed i colti de’ contorni di Messina. Federigo, a render colpo per colpo, ordinò che quella parte di armata, che stava nel porto di Messina sotto il comando di Rosso Doria, prendesse subito il largo, e mettendosi a’ fianchi della nemica, la stringesse a battaglia. Ma Tommaso di Marzano, non bastandogli la vista di misurarsi coll’Aragonese, rimosse le sue navi dalla Sicilia, e gittatosi da canto per Calabria, declinò verso Reggio. Donde, preso il tempo, mise alla vela per Napoli. Federigo pertanto, risoluto di cavarne le mani, anch’egli mosse per Napoli con un’armata assai gagliarda. Ma moriva poi (1317) papa Clemente, che non restò mai di rinfocolare gli animi alla guerra; ed il suo successore Giovanni XXII amico di pace e di concordia, non che Giacomo re d’Aragona mandarono oratori in Messina (1317) perchè si adoperassero a volgere Federigo aduna nuova tregua; la quale darebbe agio a ripigliar le pratiche di una pace solida e diffinitiva. Propose il papa che la tregua tirasse in tre anni; nel qual tempo Federigo conserverebbe intera la Sicilia, e le isole che ne dipendevano, e deporrebbe Reggio, e gli altri luoghi da lui tenuti in Calabria, ne’ Legati Apostolici. I quali temporaneamente riterrebbero ed amministrerebbero questa regione calabrese, sinchè le trattative di pace non ultimassero la controversia, e determinassero a qual de’ due sovrani dovrebbe spettarne il dominio. Federigo, riposando nella santità della promessa pontificia, aderì senza difficoltà a tali proposte. E di Reggio e degli altri luoghi di Calabria fu fatto effettivo deposito nelle mani de’ Legati Apostolici. Dopo ciò si ritirarono in Sicilia le milizie aragonesi.
Ma poi forti ragioni imponevano a questi Legati che dopo la consegna, che Federigo avrebbe loro fatta di Reggio, vi ammettessero ancora gli uffiziali di Roberto, ed amministrassero promiscuamente i detti luoghi di Calabria in nome del papa, e del re angioino. Pertanto il papa faceva sembiante di esserne egli solo il temporaneo signore; mentre il dominio effettivo era quasi tutto in Roberto. Tempi veramente di massima calamità per l’affaticata Reggio, la quale sguazzata e risguazzata dall’angioino all’aragonese, e da questo a quello con dolorosa vicenda, era divenuta campo alle pugne delle due nemiche dinastie, le cui genti, or tornando vincitrici, or fuggendo sgarate, sfogavano le loro vendette su queste popolazioni sventuratissime.
III. Di questa manifesta tendenza del Pontefice a favor di Roberto, Federigo sentì in se massimo fastidio; ma non credendo per allora farne caso e rumore, tenne fitta in mente l’ingiuria. Ed osservando la tregua, e mostrandosi desideroso della proposta pace, mandò al papa l’Arcivescovo di Palermo ed il conte di Gerace, per menarla a conclusione. Ma Roberto se ne schermiva, e faceva del sordo. Non perdeva tempo però a fortificar Reggio sottomano con opere formidabili, e ad introdurvi milizie. E varii altri luoghi di Calabria, che potevano essere attaccati dal nemico, munì come richiedeva il bisogno.
Ma in Reggio v’era del marcio sotto; o perchè Federigo non cessasse dalla vicina Sicilia di stimolar queste città a tornar alla sua signoria; o perchè un partito di cittadini, ricordevole ed amorevole della casa di Aragona, si brigasse di restituirle Reggio, togliendola all’effettivo dominio di Roberto, ed a quello apparente del Papa. Certo è che i Reggini fecero tumulto verso il mille trecento diciannove, e vi soffiavano entro i Messinesi; a’ quali i primi erano legati per vicinanza, commercio, ed antiche reminiscenze. Ma la sedizione non fu nè generale, nè calda, nè approvata dalla maggiorità de’ cittadini. Quindi fu agevolmente compressa dal presidio angioino; ed i ribelli o uccisi, o perseguitati, o imprigionati. Ed a quanti tra essi erano possidenti, furono per regio comando confiscati gli averi, e conceduti a parecchi altri che si erano dimostrati devoti alla casa d’Angiò. Ma Carlo Duca di Calabria, primogenito di Roberto, e Vicario generale del Regno, dopo tre anni (1322) ottenne perdono a’ ribelli, e dimenticando i loro falli li rintegrò nella pristina libertà, e nel possesso de’ beni.
Roberto poi collegatosi colla Repubblica di Genova, e fatto un formidabile apparecchio di navi e di armi, spinse il Duca di Calabria con centotredici galee, tremila cavalieri, e maggior copia di fanteria a piombar sulla Sicilia. Ed egli medesimo si accelerò contro Palermo, dove giunto vi sbarcava fuori l’esercito senza opposizione alcuna. Ma questa città era così gagliardamente fortificata e difesa, che a malgrado di un assedio durissimo, pettoreggiava a meraviglia l’insistenza del nemico. E Federigo similmente, per dar buon saggio di sè all’avversario, non solo gli faceva contrasto nell’isola, ma avviava molte migliaja di soldati in Calabria sotto la condotta di Blasco d’Alagona. Il quale venuto da Palermo, e sbarcatovi, fece prede e guasti sterminati, minacciando insieme il tenimento di Reggio. Per la qual cosa Roberto, vedendo assai arrischiata e di non facil successo l’impresa di Palermo, ordinò al Duca di Calabria che di là si togliesse, e facesse vela per Reggio a guardar questa città e le marine calabresi dalle offese dell’Alagona. Carlo rimbarcatosi, dopo aver distrutte a ferro e fuoco le campagne di Palermo, venne a Reggio senza ritardo; ed accresciuto il presidio della città e delle altre castella di Calabria, come portava il bisogno, fece una corsa sino a Mileto. Quindi rimontato da Reggio sulle navi prese cammino per Napoli (1325). In questa sua venuta il Duca Carlo confermò a Reggio i suoi privilegi; ed ordinò che tutti gli abitanti della città e del suo territorio fossero, durante la guerra, liberi ed esenti della soluzione delle collette e de’ doni fiscali. E che per ogni salma di vino da introdursi in città avesse a pagarsi dagl’immittenti il dazio di due tareni d’oro. Provvide altresì all’imposizione della gabella del settimo, la cui riscossione servir dovesse da indi innanzi alla restaurazione delle mura della città.
La spedizione di Roberto, mentre gli costava più che assai, ed indotte aveva infinite rovine alle genti litorane dell’isola, non gli acquistava nessun nuovo palmo di terra, nè fama, nè gloria.
IV. Ma è tempo ormai che, sospendendo per poco la trista ed uniforme narrazione delle battaglie, ci rivolgiamo alla storia del nostro municipio, la quale da re Roberto in qua comincia a svolgersi da quella caligine, in cui la veggiamo ne’ tempi anteriori. E siccome sovente c’incontrerà di parlare delle vicende del Comune Reggino, è utile premettere in questo luogo alcune nozioni, che ce ne indichino con lucidità la sua origine. A quel che oggi diciamo Comune, i nostri vecchi davano il nome di Università; e chiamavano Sindico ossia Procuratore, chi era preposto alla trattazione delle cose dell’Università. Questo nome ed uffizio di Sindico (che alla nostra pronunzia è Sindaco) fu a noi senza dubbio tramandato dagli Italioti; i quali, alla guisa degli Ateniesi, nomavano Sindici cinque oratori eletti dal popolo per la difesa delle antiche leggi presso il Consiglio de’ Nomoteti, quando si mettesse in proposta l’abrogazione o derogazione di alcuna fra esse. Questo magistrato, perdutosi come pare sotto il lungo dominio de’ Romani e de’ Goti, ci fu restituito da’ Bizantini; e da costoro, come avvenne di altri nomi di pubblici uffizii, passò ai Normanni senz’alterazione di sorta. Cosicchè ne’ primi secoli della monarchia siciliana erano dinotati col nome di Sindici que’ cittadini che le Università mandavano oratori al Sovrano per la difesa e conferma de’ loro privilegi, o eleggevano temporaneamente per qualche altro lor grave negozio, che richiedesse la direzione ed il consiglio di cittadini sperimentati ed integri.
Quindi questo uffizio non fu allora un magistrato annuo, ordinario, o periodico comechessia, ma temporaneo ed eventuale. Laonde spesso avveniva che nel corso di uno stesso anno fossero eletti più Sindici, secondo che si stimavano necessarii all’avviamento e conchiusione di faccende pubbliche di varia natura. E qualche volta ancora il Sindico era scelto fuori del seno della cittadinanza reggina, come tra i cittadini di Messina, o altrove. Ne’ tempi anteriori a re Roberto l’ordinario ed annuo magistrato municipale della città di Reggio risedeva in quattro nobili e probi uomini detti Giurati, perchè giuravano sopra i Santi Evangelii di trattare con rettitudine e fedeltà tutte le cose appartenenti all’Università. Costoro erano eletti annualmente dall’Università medesima; e del loro uffizio abbiamo chiara notizia in una Lettera Patente di Re Roberto; il quale confermando a’ Reggini tal magistrato (1326), concedè che ne facessero l’elezione giusta il consueto.
I primi Sindaci o Procuratori dell’Università di Reggio che siano a nostra memoria, sono Arrigo Alupo e Giovanni Moleti. Quest’ultimo si presentò a Carlo Duca di Calabria, Vicario generale del Regno (1327), a manifestargli che la condizione di essa Università era così fatta, che doveva patir continuo il difetto delle vettovaglie, qualora non se ne promovesse e proteggesse l’introduzione dalle altre parti del Ducato di Calabria. E Carlo, conosciuta la verità di quanto esponeva il Moleti, diede con alacrità i provvedimenti che all’uopo potevano esser più fruttuosi: ordinando che da allora innanzi potesse ogni anno l’Università di Reggio estrarre da qualunque parte del Ducato di Calabria mille salme di frumento, di tumoli otto per salma, giusta la general misura del Regno. E ciò liberamente, con franchigia di qualunque diritto della regia dogana; qualora tali provviste si recassero in Reggio in barche di portata non maggiore di cento salme.
V. Re Roberto era amantissimo della greca letteratura, ed egli stesso era nobile alunno della filosofia e ben avviato nella fisica. Cercava ogni modo di render familiari a’ suoi sudditi le opere greche; ed a Nicolò da Reggio, medico di molta dottrina e fama, commise di recare in latino le opere di Galeno, di Nicola d’Alessandria, e di altri greci scrittori. E l’imperatore d’Oriente Andronico secondando il lodevole scopo di Roberto, gl’inviò esemplari di molti pregiati e rarissimi libri greci, che giunsero al re graditissimi.
Intanto il Duca di Calabria, unico figliuolo ed erede di Roberto moriva immaturamente (1328), e prevedevasi che alla morte del Re si solleverebbero gravi controversie per la successione del Reame. Ma Roberto prese avviso di antivenire al possibile le future perturbazioni. Aveva avuta il Duca di Calabria una figliuola, chiamata Giovanna, dalla moglie Maria di Valois, ed un’altra gliene nasceva postuma, che prendeva il nome della madre. Roberto per non lasciar luogo a contesa circa la successione, si adoperò che queste due fanciulle si ammogliassero a due figliuoli del re d’Ungheria Carluberto. Ed in effetto il costui secondogenito Andrea di sette anni fu sposato alla Giovanna (1332), la quale tanti pur ne aveva. Il Re d’Ungheria era venuto a Napoli ad assistere alle sponsalizie del figliuolo; e quando se ne parti gli lasciò per familiari alcuni suoi Ungheri, ed un Fra Roberto che lo ammaestrasse di lettere e di buona creanza. Maria però non prese a marito Lodovico, primogenito del re d’Ungheria, com’era stato primo desiderio di Roberto; ma poi fece nozze con Carlo Duca di Durazzo, figlio di Carlo di Artois, Principe di Acaja; il qual Principe era natural figliuolo di re Roberto. Queste poche notizie generali bastino a chiarezza della storia nostra: or torniamo a materia.
Nel mille trecento trenta l’Università di Reggio mandava a Roberto il Sindaco Arrigo Alupo; alle cui istanze porgendosi il Re, gli concedeva che i Reggini non potessero esser convenuti in giudizio presso alcuna Corte che non fosse quella del loro Capitanio. Ed al reggino Giovanni Moleti conferiva Roberto in questo stesso anno l’uffizio di Maestro Razionale della Magna Curia, e di regio Consigliere.
VI. Si suscitò a questi dì tra i Reggini ed il Conte di Sinopoli Guglielmo Ruffo una calda controversia per ragion di confine, giacchè il distretto di Reggio terminava colle terre del Conte. Ed essendosi trascorso dalle ingiurie a’ fatti, i Reggini corsero armata mano i dominii del Ruffo, e molte gravi offese e danni recarono ai suoi vassalli. Di che il Conte fu assai irritato, e si accingeva a render loro buona ragione. Ma tramezzatisi i regii Uffiziali composero gli alterni dissidii, e ricondussero a concordia i contendenti, il Ruffo, perdonò a’ Reggini gli affronti da loro ricevuti, e la pace fu ultimata e firmata da’ suoi figliuoli Carlo ed Arrigo, e da Giacomo Messana, a ciò da lui delegati, co’ nobili reggini Niccola de Geria, e Guglielmo de Musolino, Sindaci dell’università di Reggio (1339).
Correndo il mille trecento trentasette era morto in Sicilia il Re Federigo, e la corona passava al figliuolo Pietro II; ma a questi non durava la vita che pochi anni, nè rimaneva a succedergli che il giovanissimo Lodovico sotto il baliato del zio Duca Giovanni. Questo Duca poi s’infermò di mala maniera; ed andò fama non vera che fosse morto. Dalla qual notizia cavando vantaggio i Palizzi, famiglia potentissima di Sicilia, unironsi con molti parenti loro, co’ Da Lentini, co’ Ventimiglia e cogli Abati, e s’impadronirono di Messina. E siccome la casa di Aragona era venuta loro in odio ed a sazietà, mandarono oratori, di parte loro e dell’Università di Messina, a Re Roberto in Napoli per giurargli ubbidienza ed omaggio. Ma quando i loro messi vi giunsero, trovarono che il re, travagliato dal mal di morte, dava gli ultimi tratti. Roberto testò (1343) che avesse il retaggio dei suoi Stati Giovanna sua nipote, figliuola primogenita del morto Duca di Calabria, e moglie di Andrea di Ungheria. E dispose che durante la costei minorità tenesse il baliato del Regno la regina Sancia d’Aragona sua moglie; e le fossero Consiglieri il gran Cancelliere del Regno Filippo Vescovo Cavillocense, e tre altri signori regnicoli, di conosciuta prudenza, probità e fedeltà.
Dopo la morte del Re la città di Napoli fece subito gridar per tutto il nome di Giovanna e di Andrea. Ma si vide in breve quanta gran differenza fosse dal governo di Roberto a quello de’ suoi successori. L’unghero Fra Roberto, messo da banda l’assunto di maestro di lettere del giovine Andrea, si era gittato di peso nelle ghiotte brighe governative, e lasciava trarsi alla smania di fare in Corte il soprastante. Costui era anima e capo degli Ungheri, i quali da lui favoriti e diretti, si trassero in mano la somma delle cose; e vennero a poco a poco scostando dal regio Consiglio tutti i più fidati ed onesti familiari di re Roberto. In questo mentre la Sicilia, dove tornati i messi de’ Palizzi annunziato avevano la morte di Roberto, andava tutta in fiamme e sottosopra. In Messina specialmente la sedizione era al colmo; perchè i Palizzi, cui il Duca Giovanni aveva cacciati, vi ritornarono dopo la sua morte ardenti di rabbia e di vendetta. Stava allora il governo dell’isola nelle deboli ed inesperte mani di re Lodovico e della regina Elisabetta. Nè a comprimer la rivoluzione messinese bastò l’opera di Blasco d’Alagona, che vi si era condotto col Re: imperciocchè i Palizzi a questi ed a quello vietarono l’entrata in Messina. Dopo di che l’Alagona, per fare un colpo sopra questa città, si prese a stipendio otto galee genovesi; ma queste, tentate a tempo da’ Messinesi, non giunsero appena a Messina che si accordarono co’ Palizzi. Questa disdetta, quantunque fosse tornata a Blasco assai fastidiosa, nol fece però cader d’animo; anzi egli colle sole navi aragonesi si preparò ad oppugnar Messina. Ma non sì tosto gli Aragonesi furono a vista della città, che i Messinesi, congiunte con due loro galee le otto genovesi, si ordinarono a battaglia fuori del porto. Nè l’Alagona schivò di venir alle armi, e si gittò impetuoso contro i nemici; ma non gli fu favorevole il successo, e potette a gran pena traversar lo stretto, e trovar salvezza in Reggio.
VII. Quando le navi aragonesi, facendo via da Catania per Messina (1348), erano presso questa città, una di esse cangiò direzione, ed imboccò nel porto di Reggio. Veniva sulle stesse un Niccola di Lauria in compagnia del Conte Guglielmo di Montecatino, di Goffredo Finetta, e di altri nobili catanesi. Niccola di Lauria aveva fidanzata una sua figliuola al nobile reggino Nicola Abati, ed or veniva in Reggio a farne le nozze; le quali furono e belle ed allegre. Or accadde che nel tempo medesimo si trovasse in Messina sulle galee genovesi il nobil Costantino Doria, il quale stando in Catania si era perdutamente innamorato della figlia del Lauria. Egli avevala richiesta per moglie, ma non vi fu modo che il padre prestasse il suo assenso a questa unione. Nè solo questo; ma perchè il Doria teneva la fantasia di far sua ad ogni costo l’amata giovanetta, il Lauria ottenne che il giovine fosse allontanato da Catania, e chiuso nel castello di Lentini, ove stette per un buon pezzo. Quando n’uscì il Doria tenne forte nell’animo l’oltraggio del Lauria, ed aspettava paziente che gli si offerisse tempo e luogo alla vendetta: e questo venne.
Da Messina mandò Costantino sue spie in Reggio per aver lingua del giorno, che il Lauria sarebbe ripartito per Catania. S’indettò ancora il Doria col messinese Bartolo Mollica, che con una sua feluca si trattenesse in Reggio, e brigasse di far che il Lauria a ritornare in suo paese prendesse a nolo quel legno. Il Mollica eseguì per l’appunto la commissione, e quando la sua feluca, che conduceva il Lauria e gli altri suoi amici, prese dell’alto, Costantino Doria, che stava sull’avviso con due navi, si diede a darle la caccia, impaziente di aver nelle sue mani l’odiato catanese. E questi, che già avea veduto quelle navi correr così alla distesa verso la feluca, esortava il Mollica che desse forte de’ remi in acqua per trarsi da parte sulla costa di Calabria. Ma il furbo faceva spallucce ed orecchie di mercante. In questo uno de’ legni persecutori si fece così da presso alia feluca, che il Lauria potè scorgervi ritto in piè il suo implacabile nemico, la cui faccia si era fatta di fuoco. A tal vista il povero catenese diventò di terra, e gli venne il sudor della morte. Comprese in quel momento il fiero disegno del Doria, e tratto da subita disperazione si precipitò di peso nel mare, volendo piuttosto morirvi annegato, che cader vivo nelle costui mani.
VIII. Non è del nostro assunto il discorrer le sventure patite dalla Sicilia sotto l’oppressione delle potenti famiglie Palizzi e Chiaromonte, che divenute tra loro nemiche, ed aspramente guerreggiandosi, affogarono quella bellissima isola nelle rabbiose sedizioni civili. Nè erano da meno in Napoli i travagli che gli Ungheri davano a quel popolo colle loro inaudite prepotenze, tuttochè Giovanna si affaticasse a temperarne gli scandali, ed i terribili eccessi. Ma costoro avevano ad usbergo la protezione di Andrea, la cui prava indole era mutata in pessima da’ malvagi ammaestramenti dell’unghero Fra Roberto; al quale l’ingordezza del potere occupava tanto la mente, che ogni maggiore infamia che al potere l’assodasse, gli pareva un gran fatto.
Giovanna ed Andrea avevano cercato (1345)di trar partito delle perturbazioni di Sicilia per operarvi qualche forte diversione in lor prò; e per questo tenevano intelligenza in Messina con un grosso numero di loro aderenti. E quando fu il tempo di scendere a’ fatti, Giovanna ed Andrea vennero in Reggio con un’armata; ed in quel subito fecero dar l’assalto a Messina. Ma il loro tentativo andò in fallo, tra perchè i loro partigiani in quella città non avevano gran seguito, e perchè i Siciliani conoscevano assai bene come sapesse di sale il governo di Andrea. Dalla venuta di Giovanna in Reggio ritrassero i Reggini molti alleviamenti. Ella ordinò che per tutta la durata della guerra fossero i medesimi immuni di ogni soluzione delle Collette fiscali, e confermò le esenzioni già loro accordate da re Roberto.
In questo stesso anno Giovanna si sgravava di un figliuolo, che in mezzo alle regie esultanze prendeva battesimo col nome dell’avo Carluberto. Ma alla festa seguì la tragedia. Andrea, prima che l’anno si chiudesse, finiva strangolato nel proprio palagio. La regina dopo due anni (3347) si pigliava a secondo marito Lodovico Principe di Taranto, figlio di Filippo d’Angiò, che fu fratello di Roberto. Questo maritaggio fu conchiuso a premura di Caterina madre di Lodovico, la quale dopo la morte di Andrea ebbe molto potere sull’animo di Giovanna. L’unico figliuolo di Andrea, Carluberto, moriva pargoletto nell’anno appresso.
In Sicilia i Palizzi si accostavano a Lodovico d’Aragona; mentre i Chiaromonte, che gli si erano nimicati apertamente, aderivano alla regina di Napoli, ed invocavano allo spesso l’ajuto delle armi di lei. E Giovanna che si struggeva di far sua la Sicilia, non solo vi fomentava e favoriva per ogni guisa la sollevazione de’ Chiaromonte, ma anche operava continue spedizioni in quell’isola, guastandone in ispecialtà le contrade litorane. A qual uopo era permanente un’armata napolitana nelle acque di Reggio. Mercecchè molti paesi di là dello stretto cominciavano ad esser occupati dalle armi della regina. Dal che spesso seguitava che gl’infelici isolani, sbattuti e dissipati dalle interne ed esterne guerre, fuggivano in gran numero in Calabria colle loro famiglie, e soprattutto in Reggio, ch’era la città più vicina.
IX. Lodovico e Giovanna intesero a riordinar l’interna economia dello Stato, già sconvolta ed assassinata dalle oppressioni degli Ungheri, che come morbo pestilente avevano invaso tutto il reame. La terra di Santagata, parte integrale del lenimento di Reggio, rimaneva tuttavia nelle mani degli Ungheri, i quali essendovisi fortificati, l’avevano sottratta non solo dalla giurisdizione del Capitano di Reggio, ma bensì dalle appartenenze del regio demanio. Il Vicario del Ducato di Calabria, secondato ed ajutato da’ Reggini, che vi fornivano tutte le spese, aveva più volte dato l’assalto a quella terra per ricuperarla; ma i Santagatini resistettero sempre con incredibile ostinatezza. Finalmente i Reggini posero Santagata (1351) ad un regolare assedio e prolungato; ma quando i difensori del luogo videro che dal manco de’ viveri e delle munizioni sarebbero stretti inevitabilmente alla resa, inviarono messaggi al Vicario del Conte di Mileto per accatto di ajuti; ed amarono meglio di sottomettersi a lui che ricascare nella soggezione de’ Reggini. Come di ciò ebbe notizia l’Università di Reggio creò suo Sindaco il nobil cittadino Tommaso di Capua, perchè recandosi a Giovanna esponesse la cosa, e provocasse le provvidenze necessarie a far che Santagata si restituisse al tenimento di Reggio, ed al mero demanio reale, donde si era scorporata per violenza. Nè le rimostranze de’ Reggini andarono fallite; imperciocchè la regina dichiarò che Santagata, come per il passato, dovesse restar membro dell’Università di Reggio, annessa alla città come il membro al corpo, e suddita della stessa; e fosse riputata in perpetuo di pertinenza del suo distretto, e parte indivisibile del dominio e del demanio reale. Così Santagata tornò ad esser parte del territorio reggino.
Nell’anno appresso (1352) volle la regina che suo marito Lodovico fosse partecipe del governo, e n’avesse il titolo ed il potere; onde in Napoli prese la corona di Re. Era allora costumanza che ad ogni nuovo Sovrano le città del Reame inviavano in Napoli i loro Sindaci per domandargli la conferma de’ privilegi, e spesso la concessione di nuovi. L’università di Reggio spedì in questa occasione a re Lodovico per suoi Sindaci il Giudice Andrea de Logoteta ed Andrea de Riso, perchè non solo ottenessero la ricognizione degli antichi privilegi, ma nuovi ne chiedessero, conformi a’ nuovi bisogni. E con real diploma ottennero:
1.° Che i regii Uffiziali non potessero abusare di letti, legna o altro che fosse appartenente alla città e distretto di Reggio; ma avessero prima a farne il prezzo conveniente.
2.° Che nessun diritto fosse riscosso dagli stessi per qualunque petizione presentata alla lor Corte.
3.° Che niuno, tranne i vagabondi, potesse esser imprigionato, prima di averne cognizione di causa; purchè però fosse pronto a dar di sè cauzione fidejussoria.
4.° Che i Notai degli atti e loro scrivani non potessero esigere più di cinque grani d’oro per qualunque atto di fidejussione o citazione di testimoni fuori dell’ambito della città.
5.° Che niun pubblico Uffiziale, non escluso il Capitanio, potesse occupar le case de’ privati cittadini, quando non vi concorresse il costoro assenso, nè fosse pattuita la pigione.
6.° Che ogni pubblico Uffiziale al termine della sua gestione, dovesse stare a sindacato personalmente, e non per procuratore.
7.° Che nessun Conte o Barone potesse entrare in città con più di dodici uomini, nè dimorarvi più che un giorno ed una notte.
8.° Che a cagione delle infinite estorsioni di pecunia che si facevano da’ regii Uffiziali col pretesto del mantenimento delle scolte e guardie della città, dando molto fastidio e pena a’ poveri cittadini, fossero tolte tali guardie, che il tempo di pace non faceva più necessarie. Si conservassero solo le scolte, ma di ciò fosse lasciato l’assunto al Maestro Giurato, ed a’ cittadini medesimi.
9.° Finalmente che, essendo tempo di pace, restasse abolito ogni balzello, nè altro si pagasse che le solite collette fiscali.
X. Ma la guerra contro Sicilia, attutata per pochi anni, non già estinta, scoppiava con maggiore intensità, e gli aderenti di Ludovico e di Giovanna crescevano in Messina a meraviglia, per opera e briga de’ Chiaromonte. Ed in questo travaglio di cose il re di Sicilia Lodovico di Aragona usciva di vita, e gli succedeva il fratello Federigo, il quale poi menava in moglie Costanza figlia del Re di Aragona.
Tutto era pronto (1356) perchè Messina facesse tumulto; e Lodovico e Giovanna con molta copia di truppe si recarono in Reggio per confortarne il successo. Intanto che il loro gran Siniscalco Niccolò Acciajuoli, passato in Messina, era stato segretamente introdotto da’ congiurati nel castello del Salvatore. Nicola Cesareo, governatore di Messina era consapevole e partecipe della congiura, della quale non si aspettava che il segno; nè questo fu tardi. Levarsi a rumore, abbatter le insegne aragonesi ed alzar le angioine, correr per le vie gridando Viva lu Re Aloisi di Napoli, e cui autru dichi, mora, fu tutt’uno in Messina. Uscito in sul buono dal castello del Salvatore il gran Siniscalco, faceva animo a’ sollevati, i quali traevano a fine l’opera loro consegnandogli le chiavi della città. Come la cosa fu consumata, Lodovico e Giovanna, che stavano in Reggio aspettandone l’effetto, si affrettaron di passare in Messina. Mostratisi ivi alla moltitudine, questa li salutò suoi Sovrani con applausi clamorosi. Ed eglino, ringraziati vivamente i Messinesi di tanta devozione, vi si trattennero parecchi mesi, e poi ritornarono a Reggio in dicembre. Dove la vigilia del Natale venne a festeggiare e complire la real coppia una gran quantità di nobili donne messinesi, a cui facevano compagnia molti de’ loro più illustri cittadini. Nicola Cesareo, che tanto avea contribuito al buon successo dell’impresa, fu fatto dal Re di Napoli Conte di Montalbano; e parecchi de’ principali Messinesi furono decorati del cingolo militare. Simone e Manfredi Chiaromonte fecero omaggio a’ Sovrani angioini; ma i Palizzi ed Artale d’Alagona, che rimanevano fedeli a Federigo re di Sicilia, erano usciti di Messina, quando videro non poter più impedire che questa città andasse a nuova signoria.
XI. Mentre erano dimorati in Messina Lodovico e Giovanna, i Reggini non avevano tralasciato occasione di conseguirne nuovi favorì. I Conti e Baroni, che avevano feudi a’ termini del distretto di Reggio, vi commettevano continue escursioni e violenze, arrecando gran detrimento alle possidenze de’ cittadini. I quali, di ciò richiamandosi al regio governo, ottennero che fosse adoperata una forza bastante a reprimere tali prepotenze, ed a far che in avvenire non avessero più a rinnovarsi. Ottennero ancora che de’ danni fosse loro fatta indennità da que’ Conti e Baroni, i cui vassalli li aveano commessi. Ed è da tener mente che tra costoro fu sempre il più insolente e pertinace il Conte di Sinopoli, come sarà manifesto dal corso della storia nostra. Da Lodovico e Giovanna fu concessa altresì a’ Reggini (1357) una Fiera franca di quindici giorni nel mese di agosto; la quale in seguito contribuì grandemente all’incremento dell’industria e del commercio tra i cittadini, e gli abitanti delle contermine regioni di Calabria e di Sicilia.
Lamentaronsi anche allora i Reggini, che i loro Capitanii si valessero impunemente, come di cosa propria, delle derrate del territorio, quali orzo, lupino, ferrana ed altro simile. Nè si tenevano da lasciar correre alla pastura i loro cavalli nelle vigne, e nelle altre svariate piantagioni con incomportabile nocumento delle private proprietà. E Lodovico e Giovanna, riprendendo acremente i regii Uffiziali di tal procedere indegno, disposero che in futuro niun di loro ardisse di prevaricare a tali eccedenze, se avevano cara la real grazia. Dolevansi in ultimo i cittadini essere i loro privilegi frequentemente frantesi e violati da’ regii Uffiziali; e fu perciò provveduto che tutti i trasgressori e prevaricatori dovessero incorrere nell’ammenda di trecento ducati.