Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro quarto/Capo terzo

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CAPO TERZO

(Dall’anno 1283 al 1296.)

I. Partito aragonese in Reggio. Pietro Pelliccione. Il Principe Carlo pone il campo in San Martino. Re Pietro passa in Reggio, e vi è accolto con festa. Altre terre e città di Calabria seguono l’esempio di Reggio. Fatti di Pietro in Calabria. Gli Almogaveri assaltano e prendono Solano. II. Seminara cede agli Aragonesi. Re Pietro passa in Aragona. Giacomo soggiorna in Reggio, e fa molti benefizii a’ cittadini. Parlamento di San Martino, convocato dal Principe di Salerno. III. Ruggiero Lauria disperde l’armata di Giovanni Cornerio. Piglia porto in Reggio. Poi esce, ed insegue in mare il Principe di Salerno. Si viene a battaglia, il Lauria vince, e fa suo prigioniero il Principe. Re Carlo torna di Francia in Italia, e vola all’assedio di Reggio. Ma questa città resiste ad ogni suo sforzo. Quindi il re leva l’assedio, e si ritira alla Catona. IV. Poi passa in Puglia. Ruggiero Lauria assalta Nicotera, ove stava il Conte di Catanzaro. Tra i prigionieri che fa il Lauria, vi è Pietro Pelliccione, cui consegna ai Reggini. V. Morte di re Carlo. Conquiste del Lauria in Calabria. Giacomo d’Aragona allevia i Reggini di molte gravezze fiscali. Morte di re Pietro. Giacomo suo figliuolo è Re di Sicilia. Proposta di pace tra Aragonesi ed Angioini; ma papa Onorio IV la impedisce. VI. Pace di Campofranco, per la quale al Principe Carlo è ridonata la libertà. Riceve da Nicolò IV la corona di Re di Sicilia, e di Puglia. Giacomo si gitta alla guerra contro Carlo II. Prende possesso del Regno d’Aragona. I Siciliani alzano a lor Re Federigo fratello di Giacomo. VII. Non voglion sentire di ritorno al dominio angioino. Carlo II minaccia d’invadere la Sicilia. Federigo, prevenendolo, passa in Reggio, e comincia la guerra in Calabria contro gli Angioini. Fatti d’armi. Blasco d’Alagona. Condizioni civili e religiose della Sicilia e della Calabria. VIII. Disgusti di re Federigo con Ruggiero Lauria, il quale si abbraccia a Carlo II d’Angiò. IX. Gli Angioini assediano Messina; ma son costretti a togliersi dall’impresa. Passano all’oppugnazione di Reggio, nè fanno frutto, e si piegano alla Catona. Privilegi da Federigo accordati a’ Reggini.


I. A’ principii del mille duecento ottantatrè vennero dall’Aragona a riunirsi a Pietro in Messina la regina Costanza con Federigo e Violante (Giolanda) altri suoi figli, rimanendo solo in Aragona il primogenito Alfonso. Nella primavera Pietro fece proposito di passar con grandi forze in Calabria, e stringere il principe Carlo a far delle due cose l’una, o venire a battaglia, o nettare da quei dintorni; era tempo ormai che gli Aragonesi mettessero un piè fermo nel continente. E prima che ogni altra cosa Pietro si struggeva di farsi padrone di Reggio, città allora di gran momento, e chiave della Calabria. Ma avanti di buttarsi alla guerra aperta, mandò suoi confidenti a tentare i Reggini. I quali oppressi dal gravoso governo del francese Pietro Pelliccione, che comandava e guardava la città per Carlo, e d’altra parte vedendo che la potenza angioina in Calabria si veniva ogni dì assottigliando, risposero al re Pietro che non sarebbero alieni a darglisi. Con questo però ch’egli passasse a Reg[p. 174 modifica]gio in persona, e con tale esercito che potesse far petto alle non lontane forze del Principe angioino, e guarentir la città dal costui ritorno.

Grande appresto di guerra fece Pietro per l’impresa di Reggio, del che entrò grandissima impressione nell’animo del principe angioino. Questi già vedeva che l’umore della cittadinanza si era alterato; e ciò soprattutto perchè il Pelliccione, che sapeva inchinevole a Pietro la nobiltà, aveva eccitato i popolani a rivoltarsele contro, sino ad uccidere alcuni magnati di maggior nome e credito. Vedeva eziandio mancargli al maggior uopo il soccorso dell’armata che quasi tutta era partita con re Carlo. Laonde raccolte quante sue milizie stavano sparse in que’ luoghi, si partì da quella riviera, e diede ordine che tutto il suo esercito facesse la massa sul piano di San Martino. Quivi diceva il Principe voler mettersi in forte, e batter poi l’esercito nemico quando osasse porre il campo in Calabria. Come i Reggini videro l’assentarsi dall’Angioino, si affrettarono di spedire a Pietro in Messina dodici de’ loro più nominati cittadini, a pregarlo di sollecitarsi al passaggio. E Pietro, che non vedeva l’ora d’entrar in possesso di Reggio, (la quale per esser vicino e rimpetto Messina era piazza importantissima per lui) vi passò in un batter d’occhio sopra una galea, non portando seco che Alaimo da Lentini, Bernardo da Pietratagliata, e Beltrano di Cannella. I Reggini, non più contenuti dalla presenza degli Angioini, avevano già atterrato i segni del dominio di Carlo, e serrato nel castello quell’odiato Pietro Pelliccione, che durava governatore della città. Quindi con quali feste accogliessero re Pietro, ciascun se l’imagini. Giungeva intanto da Messina in Reggio l’armata aragonese sulla quale erano trecento cavalli, e cinquemila Almogaveri.

La nuova, che Reggio avesse aperte di buon grado le porte a re Pietro, fece sì che a mano a mano gli si rendessero senza difficoltà le prossime castella di Sant’Aniceto, Motta San Giovanni, Santagata, Pentidatlilo, e somiglianti. Ed appresso anche Gerace fece spontanea la sua dedizione. Ivi a pochi giorni, uscito re Pietro da Reggio con trenta Almogaveri, ed un sol cavaliere, fecesi alla ricognizione del sito e delle fortezze di Sinopoli e di Seminara, dove stava distribuita una gran parte delle truppe angioine. A non molta pezza però il seguivano altre schiere di Almogaveri pronte ad ogni bisogno. Da quei luoghi passò a Solano, avuto sentore che nella terra di Grassana stavano un cinquecento cavalieri provenzali, guidati da Raimondo del Balzo, fratello di Beltrando Conte di Avellino. E spiccate a batter quel punto alcune brigate di Almogaveri, questi di [p. 175 modifica]notte tempo vi diedero l’assalto, e presolo, vi scannarono il più dei Francesi, che ivi dimoravano, e fecer prigione Raimondo. Ma non riconosciutolo per quel ch’era, fu ucciso cogli altri alla rinfusa: e quelli ch’ebbero spazio alla fuga, non trovarono salvezza che nei boschi di quella montagna.

II. La maggior parte dell’esercito aragonese si era già raccolta a Solano, quando il re uscitone al dechinar del sole, andò diritto a combatter Seminara. Questa città aveva in presidio circa ottocento cavalli tra provenzali e francesi; e per andarvi aveasi a far cammino per la montagna di Solano, passo assai scosceso, e reso impraticabile dalla foltezza de’ boschi. Pietro pose a vigilanza di tal passo alcune schiere di Almogaveri, e partendosi con tutta la sua gente quando già era un’ora di notte, guadagnò la montagna senza alcun riscontro di nemici. Quaranta cavalieri, e duemila Almogaveri, giungendo improvvisi a Seminara, nè dando spazio a quegli abitanti di porsi alla difesa, s’impadronirono di una porta, e delle torri del mezzodì. Vennero lor contra i Francesi; ma in quella prima furia essendosi disordinati e rinfusi, non bastarono all’urto degli assalitori. I quali vi entrarono irresistibilmente, e furon primi colle lor compagnie Bernardo da Pietratagliata, e Pierarnaldo di Bottouac. Quest’ultimo, avviandosi verso la piazza, si prese con un grosso drappello di Francesi, che ivi si erano attestati, mentre per l’altra parte Bernardo andava scorrazzando qua e là, ed affliggendo i nemici. I quali si traevano in fuga alla distesa, e lasciavano che il lor capitano Raimondo da Villanova cadesse prigioniero. Fu dato il sacco alla città: poi re Pietro volle che fosse rifatta di mura, e che vi si collocasse un forte presidio. Ed a fine che il principe di Salerno non si brigasse di far qualche mal giuoco, Pietro pose ne’ convicini luoghi una guardia di cinquecento cavalli, e duemila Almogaveri.

Dopo essergli risultata così bene l’impresa di Calabria, il re aragonese ritornò a Messina; e fatto riconoscere dal Parlamento Siciliano in suo successore ed erede il figliuolo Giacomo, lo costituì a Luogotenente del Regno di Sicilia, creandone Vicario Guglielmo Galzerano, Gran Giustiziere Alaimo da Lentini, e Gran Cancelliere Giovanni da Procida. Il che fatto si trasferì ne’ suoi Stati dell’Aragona. Giacomo continuò la sua dimora in Messina, e Ruggiero Lauria colla flotta restava nel mare che bagna Sicilia e Calabria per guardar queste regioni da qualsivoglia tentativo nemico. Ebbe allora Reggio non pochi favori da Giacomo. Egli dispose che quanti Reggini possedevano beni mobili e stabili ne’ tenimenti di Santagata [p. 176 modifica]San Noceto, Mesa, ed oltre Mesa, fossero immuni di qualunque fiscale imposizione. Tutti i dazii, gravati da re Carlo, annullò; e li ridusse giusta il pubblico voto a quelli che i Siciliani pagavano sotto Guglielmo II.

Il Principe di Salerno, che col suo esercito continuava a stare sul piano di San Martino, per gratificarsi i suoi sudditi, e legarli con un vincolo morale, convocò ivi stesso un Parlamento di Prelati, Baroni e Deputati di tutte le città di terraferma, ove furono proposte, discusse ed approvate le nuove Costituzioni della monarchia. Queste erano una specie di Magna Carta, e sminuivano più che assai le regie prerogative; ma contuttociò il Principe Carlo, facendo virtù della necessità, dava sembianti di concederle di buona voglia. E ciò tanto ammorbidì la pubblica irritazione contro la Casa d’Angiò che la rivoluzione a favor di Pietro non si allargò mai di là dai termini della Calabria.

III. Mentre per tal modo le cose si travagliavano, il Prefetto di Napoli Giovanni Cornerio con diciannove galee andava di lungo per Malta, a far nuove opere di difesa in quella rocca, già per se stessa fortissima. Ruggiero Lauria che stava colla sua armata in Messina, gli tenne la posta con molte navi, e caricandolo poi nelle acque di Malta, lo sfidò a giornata: e vintolo, gli predò dieci legni, e ritornandosi verso lo Stretto, imboccò nella rada di Reggio. Saputo ivi che il Principe di Salerno, non più stimandosi sicuro in Calabria, era testè entrato in mare, e navigava per la volta di Napoli, raccolse senza far sosta un’armata di quarantacinque galee, e spintala a tutte vele, raggiunse il Principe a vista di Napoli, e lo strinse a prender battaglia. Impegnata la zuffa, il Lauria fece finta di tirarsi indietro come vinto da subito timore, e trasse Carlo a seguirlo incautamente nel largo. Allora Ruggiero, serrandoglisi addosso in un attimo, gli prese le navi, e lui stesso ed i suoi fece prigionieri. Fiero di questo prezioso pegno ritornò in Messina, e dispose che lo sventurato Principe fosse chiuso in Mattagrifone, e gli altri in altre castella. Questo grave avvenimento, che si maturava mentre Carlo I era in Francia e Pietro in Aragona, fu novella tanto al primo dolorosa, quanto lieta al secondo.


Re Carlo, divorandosi di rabbia a sentir nelle unghie del nemico il suo figliuolo, si precipitò di Francia in Italia (1284): e fu in Napoli. Aveva cruccio così intenso che più non vedeva nè se stesso, nè l’ora di vendicar l’alta ingiuria, e di risollevar la sua fortuna. Allestiti, detto fatto, un’armata di quarantotto galee e duecento altri legni di varia grandezza, ed un esercito di quarantamila fanti [p. 177 modifica]e diecimila cavalli, quella e questo avviò a Reggio con meravigliosa rapidità. Ed e’ medesimo, venendovi di persona, mise a questa città un durissimo assedio per terra e per mare. Nè avvi forse esempio che altra città per l’innanzi sia stata mai investita e tempestata da tante forze, e con tanto accanimento come allora fu Reggio. Ma Pietro l’aveva già attorniata di nuove e validissime mura, e fornitala di tutto quel che richiedeva lo stato della guerra. I Reggini d’altra parte, che s’indovinavano qual dura sorte sarebbe loro toccata se ricadessero sotto la vendetta di re Carlo, facevano petto a costui con rara fermezza; e con quanta strenuità difendessero i loro baluardi, non mi è facile il dirlo. Nè ingenti spese, nè diuturne fatiche e privazioni, nè ostinato assalto valsero a smuovere la combattuta città. Era allora Governatore e Capitanio di Reggio Giovanni da Ponsa, e comandava il presidio aragonese. A questo si era congiunta una valorosa schiera di Messinesi; poichè ben si prevedeva di là dallo stretto che la caduta di Reggio metterebbe in presentaneo rischio la stessa Messina. Con quelle di Carlo operavano ai danni di Reggio alcune navi veneziane a lui collegate, delle quali una, che si era troppo avvicinata al lido, fu aggrappata da’ cittadini, e bruciata; e la sua ciurma miseramente sterminata. Ma vedendo Carlo già affaticato e stracco il suo esercito, e disperatosi di poter trarre a fine il partito, tolse l’assedio. E trattosi alla Catona, rioccupò quella terra non facilmente difendibile da assalti nemici; e vi si pose alle stanze colle navi, e colle forze terrestri.

IV. Re Pietro non aveva saputo appena che Carlo erasi messo per lo Stretto con armata così formidabile, quando dall’Aragona diede l’assunto a Raimondo Marchetto, che recasse di tutta fretta un rinforzo di quattordici galee al suo Ammiraglio Ruggiero Lauria; le quali giuntevi presero stazione in Milazzo. E perchè già i rigori della stagione rendevano gravissime le operazioni della guerra, ed il mare si faceva grosso e fortunoso, vide re Carlo non poter più durarla in campagna. Partì quindi coll’esercito dalla Catona, e fece via per la Puglia, ordinando del pari che la sua flotta parte veleggiasse per quel verso, parte dimorasse in quelle acque. Giusto allora il navilio aragonese, governato dal Lauria, salpava dal porto di Messina, e s’imbatteva con quello di Carlo a dodici miglia da Reggio; ma il primo tirò il suo cammino a ponente rasentando la Sicilia, e l’altro si cansava al lato opposto di Calabria senza darsi alcuna briga tra loro.

Ruggiero Lauria nondimeno, aspettato il tramonto del sole, scelse dieci galee delle sue, e con esse si accostò verso mezzanotte a Ni[p. 178 modifica]cotera. Era quivi il Conte di Catanzaro Pietro Ruffo con duemila fanti e cinquecento cavalli francesi. Il quale credendosi a bastanza francheggiato dalla prossimità della flotta angioina, stava troppo alla sicura, nè gli capiva in testa la possibilità di un assalto nemico. Onde il Lauria, senza che persona vi badasse, sbarcò chiotto chiotto, e data la scalata alla terra la ottenne agevolmente. E correndo le vie a suon di trombetta, cominciò a menar tempesta per tutto, dando ogni cosa a roba e ad incendio, e tagliando quanti incontrava, francesi o paesani che fossero. Il conte Ruffo a stento ebbe tempo di serrarsi nella fortezza, dove tuttavia non sapeva capacitarsi da che diavol fosse proceduta tutta questa maledizione di cose. Ma dopo tanta baruffa, il Lauria credette prudente consiglio rimbarcarsi co’ suoi, affinchè non fosse messo in male acque o dalla flotta nemica che poteva accorgersene, o da’ terrazzani, che tratti alle grida tumultuarie e rivenuti del subito spavento, cominciavano ad ingrossarsi di gran modo. Fra gli altri prigionieri fatti in Nicotera si vedeva quel Pietro Pelliccione, che i Reggini all’entrata degli Aragonesi avevano detenuto nel loro castello. Costui, venutogli poi fatto di fuggir dai carcere di Reggio, si era nicchiato in Nicotera, che Pietro Ruffo teneva per l’Angioino. Questo Pelliccione da persona che il conosceva fu rinsegnato al Lauria, il quale per far cosa accetta a’ Reggini, lo rimandò preso in Reggio, ed il pose nell’arbitrio di sette di que’ cittadini ch’erano stati da lui più maltrattati, perchè ne facessero quella vendetta che meglio volevano. E quelli se ne pagarono col tagliargli la gola.

V. All’entrar del nuovo anno (1285) si ebbe lingua che re Carlo era morto in Foggia; e tosto il Lauria, preso maggior animo dalla morte del nemico, proseguì le sue imprese in Calabria, e costeggiandone il litorale, occupò con egual fortuna Castelvetere, Castrovillari, Cotrone, Catanzaro, ed altre ventidue terre incastellate di quella regione ridusse in picciol tempo alla devozione dell’Aragonese (1286): e ricuperò insieme le avite castella, di cui l’aveva privato Carlo d’Angiò. Giacomo che si continuava in Messina, dava mente ed opera a rifermar l’ordine delle cose, che la passata guerra aveva sconvolte. E presi in considerazione i molti danni arrecati alla città di Reggio e suo tenimento, ed alle sue industrie e commerci dalla diuturna vessazione degli Angioini, ordinò con sua Lettera Patente (1285) che in futuro non fosse più imposta a’ Reggini la gravezza fiscale della marinaria, e che le regie collette, che avevano tuttavia a riscuotersi per il passato anno, restassero condonate. E provvide altresì che i medesimi cittadini non potessero esser costretti [p. 179 modifica]dalla regia Corte a commissione veruna fuori della città e suo tenimento.

In capo ad un anno (1286) re Pietro passò egli pure di questa vita; e testato avea che il regno d’Aragona rimanesse al suo primogenito Alfonso, ed a Giacomo la monarchia di Sicilia. Con questo però che alla morte eventuale di Alfonso anche l’Aragona scadesse a Giacomo. Dopo la morte di Pietro, il prigioniero Carlo fu traslatato dalla Sicilia in Aragona, intanto che tra Aragonesi ed Angioini avevano avviamento proposte di pace. Giacomo d’Aragona, che di ciò veniva pregato strettamente, mandò suoi oratori a Bordò, dov’erano convenuti que’ dell’Aragona, della Castiglia, della Francia, e del Papa; e metteva avanti che si confermasse a lui la Sicilia, Reggio e suo tenimento in Calabria, ed il tributo di Tunisi: e che Carlo di Valois risegnasse le sue pretensioni sull’Aragona. Sin lo stesso Eduardo I Re d’Inghilterra, spinto da Maria d’Ungheria moglie del prigioniero Principe di Salerno, erasi condotto in Catalogna per aggiustar le faccende, trattar della liberazione di Carlo, ed appoggiar dall’altro canto le domande di Giacomo. E già si era venuto alla chiusura delle trattative; ma papa Onorio IV riprovò e cassò tale accordo; e la Francia non volle declinar per niente dalle sue ragioni sul Reame aragonese.

VI. Nel Rossiglione intanto luccicavano le armi francesi a minaccia dell’ Aragona; di che Alfonso spaventato istava presso il fratello Giacomo che le sue pretensioni temperasse. Ma questi non se ne stornava; ed Alfonso finalmente, trattando in Campofranco senza l’intervenzione di Giacomo, assentiva alla libertà del prigioniero, purchè però desse in ostaggio i tre suoi figliuoli, ed altri sessanta nobili provenzali, e gli sborsasse trentamila marchi di argento. Carlo nell’aver libertà giurò che tornerebbe volontario in prigione, se dentro un anno non facesse conchiuder la pace tra Francia ed Aragona. In contradizione di ciò il Valois tenne fermi i suoi diritti sull’Aragona, e quando Carlo, tornato libero in Italia, capitò a Benevento per trovarvi il pontefice Nicolò IV, questi lo sciolse dall’osservanza de’ patti giurati, e gli diede in solenne forma l’investitura di Re di Sicilia e di Puglia. Il trattato di Campofranco fu definito nullo ed irrito; e Carlo II ricevette dal papa un buon conto di moneta per aprir la guerra contro l’Aragonese in Sicilia.

Giacomo a ragione inviperito (1287) che tra Alfonso e Carlo si fosse ultimata una convenzione senza darsi pensiero nè della Sicilia, nè di lui, con quaranta galee, e copiosa oste di cavalieri e fanti siciliani, nel maggio del seguente anno mosse a dissipare i dominii [p. 180 modifica]dell’Angioino in Calabria; ed al primo espugnò Seminara, e non poche altre terre e castella, tra cui Sinopoli e Motta Bovalina. Moriva intanto senza figliuoli Alfonso Re d’Aragona; e Giacomo, giusta il paterno testamento, passava in quel Reame a prendervi possesso: e lasciava il fratello Federigo a suo Vicario di Sicilia. Ma poi papa Bonifazio VIII tanto si affaticò che le cose tra Giacomo e Carlo II furono composte alla buona (1289). E si convenne che dovesse cedersi la Sicilia a Carlo, e questi per contrario rinunziasse a qualunque diritto sul regno di Aragona.

I Siciliani nondimeno, a’ quali il nome e dominio Angioino era venuto in un odio invincibile, fecero il diavolo e peggio, nè vollero per cosa del mondo assoggettarsi al trattato. E più tarti (1296) diedero la corona di Sicilia a Federigo fratello di Giacomo, protestando che sosterrebbero qualsivoglia jattura ed esizio della patria loro e di se medesimi, prima di lasciarsi tirare sotto il dominio de’ Francesi.

VII. In questo mentre Carlo II andava diritto ad Anagni, dove soggiornava il papa, a supplicarlo che spedisse un Legato apostolico cogli oratori di re Giacomo a’ Siciliani, per indurli alla sua ubbidienza. Ma giunta questa imbasciata in Messina fu fatto capire con tanto di gola, i Siciliani non aver altro re che Federigo, nè altro volerne: vana esser quindi qualunque pratica del Legato apostolico, vane le pratiche di chi veniva con lui. Questa risposta riferita a Carlo II, gli fece salir la bile; e tosto si rivolse a Giacomo istigandolo a metter opera e forza, perchè a tutto partito gli fosse data la pattuita signoria della Sicilia. Nè Giacomo potè negarsi a tal richiesta; e primamente avviò Pietro Comaglia al fratello per recarlo all’accettazione de’ patti, e ad ubbidire al Papa. Ma tutto era niente; chè Federigo teneva pur detto ch’egli era Re dell’Isola per volontaria elezione de’ Siciliani; e perciò nè poteva, nè voleva menomare, come che fosse, l’indipendenza della sua sovranità.

Ed avvalorato com’era dal generoso slancio de’ Siciliani a suo prò, non lasciò impaurirsi dalle minacce di guerra; anzi vi si gittò con calore prima che i suoi avversarii venissero a tentar l’impresa di Sicilia. Da Palermo passò speditamente a Messina, e fatti gagliardi apparecchi, si recò di qua dallo stretto, e si fortificò in Reggio, che seguendo il proposito de’ Siciliani, gli si era mantenuta fedele. Per più aggraduirsi i Reggini, Federigo in questa occasione confermò loro le immunità già ottenute da Giacomo. Blasco d’Alagona ch’era passato in Calabria prima del Re, avea già stretto di assedio Squillace; e Federigo correndovi in ajuto da Reggio, toglieva alla città le vie del mare, e l’assetava, deviando il corso de’ due fiumi che le [p. 181 modifica]davano le acque. Così Squillace fu necessitata alla resa. Poscia assaltava con tutto lo sforzo Catanzaro, ch’era già stata ricuperata da Pietro Ruffo, ed ora da questi difesa. Il quale però vedendosi tratto alle ultime angustie, pattuì una tregua di quaranta giorni, dopo i quali, se non avesse mezzo alla resistenza, si obbligava di consegnar la città, e tutta la Terra Giordana, fuor solamente Santa Severina, che non dipendeva da lui, ma dall’Arcivescovo Lucifero, che non voleva sentirne.

In questo mezzo Federico andava a campo a Cotrone, e commetteva al Lauria che menasse ajuti e provvigioni a Rocca Imperiale, la quale era duramente battuta dal Monforte, che stava per Carlo II. Durante la tregua di Catanzaro, Federigo sommise a se tutto il paese sino a Rossano; ed al termine di quella il Ruffo cedette Catanzaro, ed il resto della Terra Giordana giusta il trattato. E l’Arcivescovo Lucifero, non potendone altro, risegnò alla fine Santa Severina. Dopo di che Federigo ritornò in Sicilia, costituendo in Calabria per suo general Vicario Blasco di Alagona, il quale pose in Reggio la sua ordinaria residenza.

A questi tempi la Sicilia, ed i paesi di Calabria signoreggiati da Federigo erano divenuti la stanza di tutti i Ghibellini e Paterini d’Italia, che non trovavano in altri Stati ricovero sicuro. Oltre di questo la vita religiosa nelle dette contrade era allora di varie credenze. Un gran numero di Saracini e di Ebrei avevano tuttavia dimora fra noi; per i quali tanta era la tolleranza che bisognarono leggi speciali, e spesso severissime, per vietar loro l’abuso abominevole degli schiavi e delle concubine cristiane. Abuso che gli stessi Cristiani non avevano avuto ritrosia di adottare, e di continuar per buona pezza ne’ tempi posteriori. Tutti questi infedeli però dovevano portare, per discernersi da’ cristiani, una nappa rossa sull’abito allo sparato del petto. Agli Ebrei poi era particolarmente inibito l’esercitare alcun pubblico uffizio, e la medicina.

VIII. Giacomo nondimeno, prima di buttarsi alla guerra contro il fratello, volle tentare un’ultima volta i mezzi di un onorevole temperamento. E propose a Federigo che entrambi convenissero a conferenza nell’isola di Procida o d’Ischia, ove si sarebbe preso alcun buon ordine alle cose loro. Ruggiero Lauria era di parere che Federigo vi andasse; ma i Baroni di Sicilia, co’ quali volle consigliarsi, il distoglievano, e giunsero a tassare il Lauria di connivenza con Carlo. Della qual cosa prese tanto sdegno l’Ammiraglio, e parlò con tal risentimento in faccia del Re, che fu sostenuto in palazzo. Ma poi, per intercessione di Manfredi Chiaromonte e di Vinciguerra [p. 182 modifica]Palizzi ottenne l’uscirvi. Ma si licenziò pure dal servizio del Re, ed indi a poco persuase la regina Costanza, e la principessa Violante che con lui si partissero, e navigò a Roma per la diritta. Gli fece pur compagnia Giovanni da Procida; e pervenuti in Roma, ov’era Giacomo e Carlo, si conchiuse alla presenza del papa, non restare altro spediente, che prepararsi senza dimora all’impresa di Sicilia. Ruggiero Lauria divenne Ammiraglio di Carlo II d’Angiò.

IX. Grandi forze navali con numerose truppe partivano da Napoli a far guerra alla Sicilia; la quale tutta concorde ed unita sotto il suo re Federigo, era pronta, e risoluta di bravar la tempesta, che già le crosciava vicina. Messina fu posta segno al primo urto nemico. Avevano la condotta della spedizione Ruggiero Lauria, ed il Duca di Calabria Roberto, primogenito di Carlo II. Federico fece ogni sua possa perchè Messina tenesse la puntaglia contro i nemici. Chiamò da Reggio Blasco d’Alagona, e deputò in suo luogo al comando di Calabria Ugo d’Empurio. Messina fu impetuosamente investita e stretta dalle combinate forze del Lauria e di Roberto. Ma il fermo coraggio de’ Messinesi, i soccorsi continui, che Federigo loro inviava, la copia dei viveri di ogni fatta, che Blasco d’Alagona, andandovi con cinquecento uomini, riusciva d’immettere nella città, la quale già pativane difetto, sostennero saldamente i colpi vigorosi dell’assalto nemico. E gli Angioini, accorgendosi alfine, che ogni loro prova tornava a niente, si levarono dall’assedio di Messina, e fecer furia contro Reggio. Ma questa città era stata preparata a gagliarda difesa da Ugo d’Empurio, che allora governava in Calabria le possessioni di Federigo; e quindi l’attacco fu respinto con somma energia. Allora il Lauria ed il Duca di Calabria declinarono alla rada della Catona, dove fermatisi coll’armata, stavano pronti a quel che aveva a farsi. Intanto Blasco d’Alagona restaurava le fortificazioni di Messina; e la riforniva a sufficienza di munizioni e di vettovaglie.

Mentre Federigo stava in Messina concesse a’ Reggini il privilegio di potere estrarre dalla città per il Regno, o da questo immettere in essa, per mare e per terra, qualunque cosa volesser comprare o vendere, senza esser tenuti al pagamento di alcun diritto della regia Dogana. Ed inoltre accordò che i cittadini, convenuti innanzi alla Corte del Bajulo, o de’ Giudici della città non dovesser pagare alcuno de’ diritti dovuti per ordinario a tal Corte.