Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro ottavo/Capo quarto

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CAPO QUARTO

(Dall’anno 1757 al 1792)

I. Morto il Re di Spagna, è chiamato a quel trono il Re di Napoli. Trattato coll’Austria. Ferdinando è dichiarato Re di Napoli. Reggenza. Carestia di Reggio nel 1763. Espulsione de’ Gesuiti. Rifazione della strada principale di Calabria. II. Tremuoti del 1783, e loro effetti spaventevoli in Calabria. III. Fato di Palmi, Seminara, Bagnara e Scilla. IV. Effetti del tremuoto in Reggio. Opere pietose dell’Arcivescovo Capobianco. V. Nuova pianta della città. Giunta di riedificazione. Soppressione de’ Luoghi pii: Cassa sagra. VI. Quistioni per l’elezione de’ sindaci. Giuseppe Logotela ottiene la conferma della sua elezione; e poi rinunzia. Il governo civile di Reggio è separato dal politico e militare. Girolamo de Gregorio, primo Governatore politico, e militare. Notizie delle gravezze fiscali. VII. Primi effetti in Italia della rivoluzione francese. Inquietezze nel Reame delle Due Sicilie. Brighe del sindacato in Reggio. Disturbi interni della città. Pietro Musitano e Giuseppe Logoteta. VIII. Contrasto tra l’Assessore ed il Governatore. Abolizione dell’assisa. Il Governatore de Gregorio è richiamato in Napoli; e viene in suo luogo il brigadiere Giuseppe Dusmet. Real dispaccio del sette luglio 1792.


I. Per la morte di Ferdinando VI Re di Spagna avvenuta nell’agosto del 1759, il dominio di quella monarchia cadeva in suo fratello Carlo di Napoli. Il quale prima di lasciar questo Regno conchiuse un trattato coll’Austria, per cui la corona di Spagna e quella delle Due Sicilie non dovevano mai riunirsi sullo stesso capo; tranne solo l’eventualità che non sopravvivesse di questa branca borbonica che un solo discendente maschio: ed in tal caso fu patto che la riunione avesse a durare soltanto sino alla nascita di un altro principe, oltre l’erede presuntivo di Spagna. Essendo il primonato del re di Napoli scemo di senno ed inetto al Regno, fu dichiarato principe ereditario di Spagna il secondogenito Carlo; ed al terzo figlio Ferdinando fu dato il nostro Reame. Questi non aveva che la tenera età di nove anni; onde gli fu dal padre costituita una Reggenza che governasse lo Stato sino a compiuto il suo sedicesimo anno. Fatta questa trasmissione della dignità reale, Carlo Borbone s’imbarcò per la Spagna. Gli affari, come sotto il regno di lui, furono diretti, durante la reggenza, dal Marchese Tanucci, il quale da Professore di diritto pubblico in Pisa, venuto dalla Toscana a Napoli con Re Carlo, era salito per i suoi meriti alla dignità di Ministro.

L’anno 1763 restò memorabile per una carestia, che non solo condusse alle ultime necessità questo Reame, ma presso che tutta Italia. Questa carestia già si presentiva dal precedente anno, in cui [p. 104 modifica]l’inverno e la primavera non ebbero alcun benefizio di pioggia, e le campagne restarono arsicce. A ciò concorsero altre malefiche influenze dell’aria, che fecero inferma la vegetazione, ed intristirono il maturarsi delle biade, e de’ legumi: onde provenne un ricolto assai scarso, e non sufficiente al consumo necessario. Con questi infausti preludii entrò il nuovo anno, negativo totalmente non solo di frumenti, ma e di ogni sorta di commestibili e di frutti. Il che fu cagione di una penuria così grande, che molta parte di Europa ne fu travagliatissima. Della qual condizione furono inevitabil conseguenza popolari turbolenze, usure insopportabili, furti a man salva. Reggio ebbe anch’essa a provare le sue angustie, rese maggiori dalla totale infecondità del suo territorio per difetto di piogge. Nè poco conferirono ad accrescerle guai le discordie de’ cittadini per l’elezione de’ sindaci; perciocchè gli amministratori provvisionali non posero mente alle necessità annonarie, e tutto andò alla peggiore. Il numero de’ poverelli divenne infinito; tutta la gente delle nostre borgate e de’ casali, cacciata dalla fame si versò nella città; dove a tant’uopo mal potevano sopperire gli sforzi della publica e privata beneficenza. Ed era veramente compassionevol cosa a vedere essersi gittate fameliche all’elemosina, e brulicar per le vie tante oneste donne e giovinette, a cui ne’ tempi ordinarii non era mai mancato il bisognevole. Non deve qui tacersi però con quanta lodevole misericordia abbiano i possidenti sovvenuto di largizioni generose alla miseria publica. Dava incitamento a tali opere il virtuoso Arcivescovo Testa Piccolomini, il quale oltre le limosine che fece profuse e continue a’ nostri, non dimenticò i mendici forestieri, ma li soccorse egualmente con paterna sollecitudine.

A gran quantità di persone dava ricetto ed alimento il civico Ospedale; altri erano accolti e cibati ne’ conventi; altri avevano il loro pane cotidiano dalla carità privata. Le case di moltissimi cittadini, e sacerdoti e laici, si erano mutate in ospizii de’ poveri. Altri cittadini al contrario, traendo a lor proprio utile il publico infortunio, trasricchivano di subiti guadagni con usure insolite e dispietate. In questi travagli giunse alle reggine piagge una tartana con caricato di grano. Di questo arrivo, tanto più caro quanto meno aspettato, venne letizia alla esinanita Reggio, e parvele un evidente soccorso del pietoso Iddio. Proveniva da Trieste, e n’era capitano un Martino Michoz, il quale commosso alle angustie in cui Reggio versava, fece dovizia di tutta la sua mercanzia a buoni patti. Con questo di più che non avendo il nostro Magistrato pronto tutto il danaro a pagare quel frumento, che sommava a tumoli settemila set[p. 105 modifica]tecento trentacinque, il virtuoso capitano (con umanità più singolare che rara) fece credito dell’avanzo a’ sindaci, non pretendendo che una semplice dichiarazione da loro scritta e firmata.

L’anno 1764 però, venuto abbondevole di ogni cosa, rimarginò in molta parte le piaghe aperte da’ due anni che il precedettero, e diede nuova impulsione alla publica prosperità.

Il vigesimo giorno di novembre del 1767 i Gesuiti furono espulsi dal nostro regno, e ciò a premura di Carlo III, che già dall’aprile li avea mandati via di Spagna. L’esempio di Napoli fu tosto imitato da Parma, e dalle altre Corti borboniche. E le energiche rimostranze ed istanze collettive di Francia, Spagna, Portogallo e Napoli indussero finalmente il Pontefice Clemente XIV ad ordinare nel 1773 la soppressione della Compagnia di Gesù in tutti gli Stati cattolici.

Negli anni sussecutivi fu principal cura del governo di facilitare le interne comunicazioni da provincia a provincia, nuove vie aprendo, e le vecchie rifacendo più larghe ed agevoli. Laonde fuvvi ordine nel 1778, che la strada, la quale mena da Reggio al confine settentrionale di Calabria, avesse a ridursi piana e carrozzabile. L’ingegnere Pasquale Landi ebbe carico di levarne il disegno; e la spesa fu computata in ducati annui centomila per cinque anni. Su tal somma lo Stato contribuì in detto spazio trentamila ducati l’anno: ed il rimanente fu gravato, parte su’ baroni di quattro Provincie il dieci per cento annuale sull’importo de’ loro rispettivi rilevii, e parte a grani venti per fuoco sulle Università che superavano i cinquanta fuochi. Reggio non fu compresa tra queste; ma solo tra quelle che avevano il peso, ciascuna nel suo ambito, della riattazione e manutenzione di tale strada. I grani venti per fuoco non furono imposti alla nostra Università che dentro l’anno 1787.

II. Nulla è avvenuto dopo ciò in Reggio che sia degno di essere ricordato in queste storie sino al memorando anno 1783, il quale in quanta ruina e sconvolgimento abbia precipitate le contrade calabresi, è cosa nota pur troppo. Carlo Botta narrò stupendamente la terribile e pietosa catastrofe nel libro quarantanovesimo della storia sua. Ed io non sapendo dir meglio di lui, mi varrò delle sue medesime parole, per tutto quello che più strettamente si attiene alla materia del mio libro.

«Alla state fervidissima dell’anno 1782 era succeduto nelle Calabrie un autunno piovosissimo, nè cessò lo smisurato acquazzone nel susseguente gennajo; chè anzi vie più per questo conto imperversando il cielo, caddero nell’anzidetto mese piogge così disoneste e [p. 106 modifica]dirotte e precipitose che la terra calabra, massime quella della Piana, restò altamente danneggiata, non solamente per gli allagamenti de’ fiumi, ma ancora per esserne stati i terreni vie maggiormente ammelmati e fatti capaci di dissoluzione. Cotale perturbazione della natura presagiva calamità ancor maggiori, ma niuno si dava a temere ch’esse fossero per arrivare al totale discioglimento della contrada. Avevano altre volte quei popoli simili piogge e simili inondazioni vedute, ma dal guasto de’ superficiali terreni e dal danno delle ricolte in fuori, da altri maggiori disastri non restarono afflitti.

«Intanto era il nuovo anno 1783 giunto al principio di febbrajo, mese per fatal destino funesto alla Magna Grecia, e specialmente alle Calabrie; imperciocchè in esso piombò la fatale rovina sopra i distretti Ercolanese e Pompejano sotto il consolalo di Regolo e dì Virginio; in esso fu conturbata alcuni secoli avanti la Sicilia, e distrutta Catania; in esso nel duodecimo secolo sommosse da’ tremuoti non solamente la Sicilia, ma eziandio le Calabrie. Il principio più fatale che la fine, poichè al quarto od al quinto giorno di lui accaddero quegli strabocchevoli scrosci della natura.

«Correva appunto il quinto giorno di febbrajo dell’anno di cui scriviamo la storia, ed il giorno era giunto alle diciannove ore italiane, vale a dire in quella stagione un poco più oltre del mezzodì. Nell’aria non appariva alcun segno straordinario. Rare e quiete nubi a luogo a luogo il cielo velavano. Nè il Vesuvio, nè l’Etna buttavano; Stromboli non più del solito. Sentivasi il freddo, ma non oltre l’usato: il consueto aspetto stava sopra tutte le calabresi cose. Eppure la terra in sè medesima chiudeva un insolito furore. O fossero acque, o fossero fuochi o fossero vapori potentissimi che scarcerare si volessero, quella ordinaria calma dovea fra brevi momenti turbarsi, per dar luogo ad un romore e ad uno scompiglio orrendo. Gli uomini nol presentivano, e senza tema le ore fra i soliti diletti e fra le solite fatiche andavano passando. Ma non gli animali bruti che inquieti, fastidiosi, spaventali, col correre, col tremare, col gridare mostravano che alcuna terribil cosa si andava avvicinando, ed aspettavano. Eppure ancora l’uomo non si destava, nè in se medesimo le memorie degli antichi tempi riandando, quanto fosse imminente la sua ultima fine non pensava. Un giudizio universale l’aspettava, ma brutale e cieco, poichè era per ravvolgere nel medesimo abisso indistintamente e chi era bianco d’innocenza e chi era nero di delitti.

«Trascorso era il giorno cinque di febbrajo di pochi minuti oltre il mezzodì, quando udissi improvvisamente nelle più profonde [p. 107 modifica]viscere della terra un orrendo fragore; un momento dopo la terra stessa orribilmente si scosse e tremò. In quel momento medesimo cento città o non furono più, o dalla primiera forma svolte, quasi informi ammassi di spaventevoli mine, giacquero. In quel sempre orribile, e sempre lacrimevole, e sempre di funesta rimembranza momento, più di trentamila umane creature rimasero ad un tratto morte e sepolte. Quale passo da tanta quiete a tanto spavento! Quale conversione da tanta allegrezza a tanto pianto! Quale differenza da tante vite a tante morti!

«Le raccontate scosse squassarono con violentissime urtate la terra. Di quando in quaudo alcune scosse minori si sentivano, e fra di loro un perpetuo ondeggiamento, un andare e venire più o meno manifesto della terra, come se ella divenuta fosse fiottosa; e per cui non pochi travagliavano di quel molesto male che affligge ne’ viaggi marittimi coloro che non vi sono avvezzi.

III. «Or chi potrebbe ridire la varietà degli accidenti in tanto conquasso? Voltandoci verso il Faro diremo il fato di Palmi, Seminara, Bagnara e Scilla. Case, edifizii, manifatture, palmenti, fattoi, conserve da uva e da olio, quanto la natura avea prodotto di più grazioso, quanto l’arte di più utile, tutto distrusse in Palmi il giorno de’ cinque di febbrajo. Milaquattrocento persone vi perirono. I barili e le anfore contenenti l’olio, fracassati e spezzati, tanta quantità ne sparsero, che per lo spazio di alcune ore ne scorse un rivo al mare. Quest’olio misto alle biade che si corruppero, ed ai cadaveri che si cancrenavano, contaminò l’aria di maniera che si destò una febbre di estrema ferocia, la quale tolse di vita la più gran parte di quelli che avanzati erano dalla furia del terremoto.

«Doloroso fato oppresse Seminara, città bella pel sito e per la industria degli uomini. Dalle più umili alle più magnifiche case, dai luoghi più profani a’ più sacri non s’incontrarono più, dopo il terremoto de’ cinque febbrajo, in quel desolato soggiorno che o ruine compiute, o fabbriche rovinevoli, ridotte in miserando rottame e disperse da quell’irresistibil turbine sotterraneo. Dai cupi abissi sorse un soqquadro tale che quello che bellissimo era a vedersi, orrido divenne e spaventosissimo. Bagnara fu distrutta; tutte le sue fontane nel fatale insulto del terremoto in un sol momento si disseccarono. Scilla, nelle antiche favole terribile a’ naviganti, bene diè materia di real terrore a chi vi fu ed a chi non vi fu, nel sovvertimento delle Calabrie. Scilla non è altro che un alto scoglio che, posto a rincontro della vorticosa Cariddi, s’inoltra a guisa di punta nel mare, e lo fende formando su’ due suoi lati due curvi seni, l’uno volto [p. 108 modifica]ad oriente, l’altro ad occidente. Sulla punta e sullo spazio compreso fra i due lati resta edificata la città; sulla punta stessa s’innalzava il castello di solidissima costruzione. Nello stesso dì de’ cinque febbrajo, che tanto fu fatale alla Piana di Calabria, Scilla fu dal medesimo flagello percossa. Quantunque la ruina delle case non fosse quivi così grande come negli altri luoghi della Calabria, fu ciò non ostante di così minaccioso aspetto che i Scilleni spaventali, da’ loro abituri precipitosamente sbalzando, cercarono scampo contro il rovinoso furore della tremante terra o ne’ luoghi aperti o sulle barche, le quali allora nelle vicine acque soggiornavano.

«Una parte del monte Bacì, di costa posto alla sinistra curvatura di Scilla, staccatosi da’ suoi cardini per la forza del tremuoto, precipitando con orribile fragore, nel mare cadde e s’affondò, non senza di aver cacciato avanti a sè violentemente le onde frementi. Immenso accidente fu questo, eppure picciolo a comparazione di quello che ora siamo per raccontare. Nell’ora fatale di sopra accennata, in quella parte di mare che bagna le sponde di Messina, di Reggio, di Scilla, del Cenide e del Faro avvenne un fenomeno stupendo e spaventoso. Il mare primieramente si avvallò nel mezzo, come se una forza potentissima ne avesse percosso il centro, e quindi con rapidissimi vortici nabissandosi respinse per gli opposti lati l’onda inarcata, la quale sugli opposti lidi d’Italia e di Sicilia oltre gli usati termini trascorrendo ed accavallandosi, ogni cosa con una portentosa inondazione disertò ed afflisse. Lascio al lettore il pensare quale aggiramento, quale slogamento, quale rapina, quale distruzione nelle cose inanimate abbia partorito un turbine così improvviso, in luoghi su’ quali mai penetrato il mare aveva, e su di cui per conseguenza non si aspettava. Pietà, spavento ed orrore con estreme ruine afflissero e sconvolsero Scilla non degenere da se medesima.

IV. «Disastri orrendi io racconto, ma non per la prima volta avvenuti in paesi che bugiardi ed insidiosi si potrebbero chiamare, posciachè per la bellezza ed amenità loro allettano a spiagge infide e piene di mortali pericoli: un sole benefico, chiari rivi scendenti da’ poco lontani Apennini, freschezza di siti all’ombra degli aranci, de’ gelsi, de’ limoni, de’ fichi, de’ cedri, de’ granati, e della pampinosissima vite, fanno che quivi sieno i luoghi forse più dilettevoli della terra. Ma sono giardini di Alcina; la natura vi fu ad un tempo madre e madrigna. Chi mi legge forse già si è accorto ch’io della calabrese Reggio favello. Più a questa famosa ed antica città l’uomo si avvicina, e più fra gli agrumi, il fresco e l’ombra viaggiando, si [p. 109 modifica]figura ed alla mente sua pinge, che qua entro vive un popolo tanto felice quanto il paese è bello; ma grazia con infortunii orrendi in queste amene sponde si congiungono.

«Funestissime cose sparse la fama di Reggio, al tempo di cui andiamo descrivendo gli accidenti. Veramente a funeste cose soggiacque, ma non tanto quanto il grido ne corse. Il tremuoto del dì cinque febbrajo ne cominciò il guasto, quello del dì sette il continuò, finalmente quello de’ ventotto di marzo gli diè l’ultimo scrollo. Non vi fu chiesa, non casa, non edifizio pubblico o privato che non sia stato o ridotto in frantumi, o di tal sorta scassinato e scommesso, che parte si rovesciò rovinando, parte, avvegnachè ancora in piè si reggesse, divenne inabitabile per chiunque da mala imprudenza sospinto non fosse. Ma in questa ultima città delle Calabrie, oltrechè la più gran parte degli edifizii rimase ritta sulle fondamenta, quantunque screpolata e rovinevole fosse, non vi si osservarono nè voragini aperte, toltene alcune poche e leggiere crepature, nè turbini di venti irresistibili, nè inondazioni di acque più irresistibili ancora, nè eruttamenti di arena cretacea; o ciò sia proceduto da minor forza nel fomite scrollante, o dalla maggiore larghezza che in quel luogo ha lo Stretto, a comparazione di quello che Scilla dal capo Peloro, chiamato oggidì Torre di Faro, divide. Pochi abitanti perirono, poco più di cento fra più di diecimila; imperocchè avvertiti dalla prima scossa de’ cinque che fe’ traballare non ruinare le case, si erano, i pericolosi abituri abbandonando, riparati alla campagna sotto le baracche, cui per un tale bisogno subitamente avevano erette. Gran disagio, gran disgrazia era pur quella, poichè abbandonate le bisogne della vita comune e sospesi gli artifizii, una universale miseria tormentava gli spaventati Reggini. A tanto strazio, prima che il governo accorresse, soccorso diede il buon Arcivescovo Capobianco, prelato pieno così di umanità come di religione. Per procurar sollievo al suo misero gregge, dispose in suo pro degli ornamenti superflui della chiesa, ed i suoi cavalli e le carrozze e il mobile più prezioso, oltre il denaro che in pronto aveva, nella pia operazione usò.» Il giorno sei di febbrajo distribuì ai più bisognosi ducati mille che fece prestarsi dal canonico Candeloro Malacrinò, ed altri ducati ottocento dispensò il giorno otto, anticipatigli dal ricco canonico Lorenzo Giuffrè, cui diede in pegno un calice di oro.» Un caso sopramodo lagrimevole trovò una pietà condegna.

«Tremarono e rovinarono le Calabrie. Il profondo mare non interruppe la mortale causa: tanto essa era entro le più cupe e più [p. 110 modifica]profonde viscere della terra nascosta! Successero nell’infelice Messina cose tali, che Scilla e Carridi non ne starebbono al paragone. Il terremoto che Messina guastò, percosse anche il Valdemone, ma con minor furore; per modo che, da Rometta in fuori, che fu molto danneggiata e quasi distrutta, le altre parti della Sicilia o non furono tocche, o leggermente patirono.

«Terminati i crudeli e fieri disastri, rimase lungo tempo ne’ popoli stupore, terrore ed orrore. Chi per gl’infelici luoghi viaggiava, vedeva uomini che a manifesti segni dimostravano essere stati tocchi da uno straordinario furore di elementi, e da un immenso infortunio. Oltre a ciò ad ogni tratto si temeva che la potente e rabbiosa natura delle Due Sicilie di nuovo si mettesse in travaglio, e quanto aveva lasciato intero, o non interamente distrutto, rompesse e disciogliesse. Una densa e fetente nebbia ingombrò per parecchi mesi non solamente il teatro di tante tragedie, ma ancora tutta l’Italia con parte della Francia e della Germania.»

V. Da’ guasti arrecati a Reggio da tremuoti si sarebbe pure potuto trarre qualche pro, se il governo o locale o supremo avesse voluto attendervi. Era quella di certo una congiuntura opportuna a tentare scavamenti che avrebbero potuto disotterrarci i desiderabili avanzi dell’antica Reggio, la quale sotterra tutta giace. Ma la città tornò ad esser rifatta sopra le sue vecchie e nuove ruine; nè ad altro si pensò che ad ammodernare la forma topografica, ornandola di ampie piazze e di strade agiate e rettilinee. Autore della nuova pianta fu l’ingegnere direttore Giambattista Mori; ad attuar la quale bisognò atterrare molte case che il tremuoto aveva rispettate.

Una commissione edilizia, appellata Giunta di riedificazione fu costituita con assenso sovrano, ed ebbe larghissimi poteri; posciachè oltre di aver cura in generale dell’esecuzione del disegno del Mori, giudicava sommariamente e senza appello tutte le materie di proprietà e distribuzione di suoli, di muri divisorii, e di altre simili attenenze. Dalla sua indole adunque nobilissima ed insieme delicatissima, non costretta da lunga e dispendiosa procedura, non soggetta a revisione alcuna di tribunale superiore, nacque occasione di molte deliberazioni, o giuste e lodate, o mezzane e tollerabili, o arbitrarie e pessime; secondo che dava la buona o rea scelta delle persone, che ne’ varii tempi erano chiamate a seder giudici in questa magistratura speciale. Onde provenne, nè so con quanto buon giudizio ed effetto, che si sia andato sempre variando l’originale disegno del Mori; nè so se in modo più lodevole o in peggio. Questo so bene che il farnetico di costringere ed adeguare ad uno stesso decli[p. 111 modifica]vio e livello tutta la superficie della città fece sgradevole violenza al natural digradarsi del terreno, in vece di temperarne le disuguaglianze con convenienza misurata. Il che obbligò i cittadini a fondare i loro nuovi fabbricati o sopra sterramenti assai bruschi, o su suolo sovrappositiccio e mal sodo. Non dico quante case furon sotterrate a metà, quante altre indebolite nelle loro fondamenta, per rialzare o ribassare il livello di strade già fatte. Questa Giunta di riedificazione fu finalmente soppressa con superiore disposizione dentro l’anno 1855.

Nell’anno 1784 il maresciallo Francesco Pignatelli venne Vicario generale di Calabria. Soppresse chiostri di donne, e di frati, anche mendicanti, fra i quali quello de’ nostri Cappuccini della Madonna della Consolazione. E per la gestione de’ beni di queste case religiose istituì una Ispezione speciale, che si denominò della Cassa Sagra.

VI. Ora ricominciano i rovelli per l’elezione de’ Sindaci. Al venir del nuovo anno ebbesi ordine da Napoli che, a’ termini del generale real dispaccio pe’ governanti del Regno, l’elezione dei sindaci avesse a farsi il giorno sedici maggio. Fattasi in Reggio nell’anno 1784, risultarono eletti Giuseppe Mari Logoteta, Pasquale Spinella, e Paolo Fulco. Ma il nome del Logoteta fu poco accetto al governatore Giovanni Battista Elia, il quale aveva desiderato che l’elezione cadesse in Pietro Musitano: onde l’Elia stimolò Gaetano Piconiero ed altri che dessero le nullità a’ nuovi eletti. Del quale sgarbo prese siffatto sdegno il Logoteta, che partì di lancio per Napoli, dove impetrò che fosse fatta alacremente la discussione delle nullità prodotte. Le quali furono rigettate; ed il Soprintendente marchese Diodato Targianni ingiunse che i nuovi sindaci fossero immessi in uffizio. Il governatore per altro, non volendo piegarsi così di bello, fecene relazione contraria al Vicario generale Pignatelli, che dimorava allora in Reggio. Ma questi non volle che il possesso de’ sindaci patisse ulteriore impedimento o ritardo. Il Logoteta intanto, superato quel punto, rinunziò subito il sindacato, dicendo ch’egli avea voluto sostenersi solo per onor proprio e dell’uffizio, non per ambizione di sedere al magistrato della città, e togliere quel grado alla voglia altrui. Ed avvegnachè il Pignatelli avesse fatto di tutto per indurlo a ritirar la rinunzia, non fu possibile che il Logoteta si mutasse. Per la qual cosa il Vicario generale dispose che durassero in uffizio i vecchi sindaci, sinchè una nuova elezione non provvedesse a’ futuri.

Dall’anno 1745 l’uffizio civile e giudiziario di Governatore e di Giudice o Assessore era cominciato a riunirsi in una sola persona, [p. 112 modifica]che domandavasi Regio Governatore e Giudice, e tale durò sino al 1785. A’ diciotto marzo dell’anno appresso un dispaccio sovrano destinava per la città di Reggio un Governatore politico e militare e redintegrava l’Assessore in uffizio appartato come prima del detto anno 1745. Di questa migliorata condizione del governo locale si dee render merito a Pietro Musitano, il quale con altri cittadini vi si adoperò a tutto potere appo il Re, che finalmente condiscese benigno alle iterate istanze. Questa notizia mosse i Reggini a prenderne festa straordinaria; e le grazie riferite a Dio ed al Sovrano furono publiche e solenni. Altro real dispaccio notificò all’Arcivescovo (1786) che al Governatore politico e militare di Reggio dovessero farsi in chiesa quegli onori medesimi, cui aveva diritto il Governator di Messina. Primo nostro Governatore politico e militare fu il maresciallo Girolamo de Gregorio, che prese possesso nello stesso anno 1786. Giuseppe Paragallo, che nel precedente anno era regio Governatore e Giudice, rimase Assessore.

Niun fatto da storia intervenne ne’ seguenti anni; solo abbiamo a dare qualche notizia delle gravezze fiscali. Sin dal 1753, per esecuzione di real rescritto concernente le gravezze fiscali di tutte le Provincie era stato imposto alla Università di Reggio e suoi casali l’annuo carico di ducati tredicimila seicento cinquantadue e grani cinquanta, de’ quali ducati seimila trentasette e grani cinquantuno per i fuochi della città agguagliati a quarantadue grani per ciascuno. Ma l’Università nostra oppose che in forza de’ suoi privilegi non doveva pagare che per fuochi seicento sessantasei e due terzi. Ed era vero; ma i suoi Sindaci o non seppero o non poterono farne la difesa come si richiedeva, e non esibirono al governo i documenti necessarii a giustificare la loro rimostranza ed a sostenere i diritti della città. Contuttociò l’Università reggina sutterfugì alla nuova gravezza, e pagò sempre giusta il suo privilegio sino all’anno 1790. Ma in questo vi fu costretta, nè valse più a sottrarnela alcun pretesto o differimento. Le fu conceduto solo, se avesse ragioni ad opporre, di farle valere al tribunale della Regia Camera, mediante legittimo procuratore. Ma la città non ne fe’ più nulla, perchè si persuase che doveva pagare, e che la ragione de’ suoi privilegi non sarebbe più valutata; quindi pagò.

VII. Ma già in Italia, e prima in Piemonte, (1791) cominciavano a saporirsi i bozzacchi dell’albero della scienza del male piantato nel vicino regno di Francia. Nello Sciablese il popolo già rumoreggiava, e la Savoia in generale si veniva sordamente agitando. In Torino la scolaresca si levò, e tenne perturbato il paese parecchi dì: già i semi della [p. 113 modifica]sedizione venivano fecondandosi da per tutto. Sentì il governo come sotto gli traballasse il terreno, e pigliò tempo e modo di persuadere alle altre Corti italiane la necessità ed utilità di premunirsi contro il contagio della rivoluzione straniera con una forte e comune alleanza. Ma queste Corti, da Napoli in fuori, che diede buone parole, tennero esagerate le apprensioni della Corte di Torino, e se ne stettero da parte. Nessuno pensava che col fato del Piemonte fosse strettamente congiunto quello d’Italia tutta. Nell’anno 1792 il pericolo si fece più incalzante e vicino; ed il Re di Napoli, che il presentì, propose agli altri governi italiani la conclusione di una lega militare difensiva; ma non si venne mai a capo di nulla. Perchè questi virili consigli parvero arditi, e tali, se si effettuassero mezzanamente, da dare appiglio a’ Francesi di travasarsi in Italia. Ma senza questo i focosi democratici avevano già preso il loro partito, ed in settembre di quello stesso anno rompevano guerra al Piemonte sotto pretesto che quel re perseguitasse gli amici della libertà ne’ suoi Stati. Detto fatto, i Francesi scesero ad occupar la Savoia. Ed a’ sedici di dicembre il contrammiraglio Latouche conduceva a vista di Napoli un navilio francese di nove vascelli di linea, e quattro fregate, e minacciando di bombardar la città, costringeva questo governo a riconoscere la repubblica francese, ed a restarsi neutrale.

In tutto il reame gli animi, dove più dove meno, divennero variamente inquieti, ed effervescenti. Niuno non prevedeva che gravi rivolgimenti avrebbero a precipitare ogni cosa: e non tardi. Ma quanto gli uni temevano le novità, tanto gli altri le desideravano, ed aspettavano. Anche nei domestici dissidii e nelle dispute cittadinesche vedevi i principii delle opposte tendenze delle passioni politiche. E queste cose si videro in Reggio nel medesimo anno 1792.

Uno de’ nostri sindaci era allora Pasquale Musitano, il quale stando da più mesi in Napoli per sue faccende aveva affidata a Pietro suo padre l’amministrazione della città. Questo Pietro Musitano era così voglioso di tener le mani ne’ pubblici affari, e di fare il soprastante, che mise ogn’impegno perchè i passati sindaci fossero raffermi nella nuova elezione. Al suo caldo desiderio parve crescer favore una circostanza che gli venne opportuna. Il Consiglio delle reali finanze di Napoli, consentendo all’avviso favorevole dell’Ispettore della Cassa sagra in Reggio, ed alle ragioni propugnate da Giuseppe Logoteta in un suo scritto stampato, aveva deliberato di abolirsi l’assisa del vino, del pesce, delle frutta, e del pastume forestiere. La posta recò questa notizia qualche giorno prima della tratta de’ nuovi sindaci: ed il Musitano, cercando di prendere [p. 114 modifica]il tempo a suo vantaggio, andò seminando nel popolo minato che l’abolizione dell’assisa avrebbe prodotto senza dubbio l’incarimento de’ prezzi. E questo, diceva, volevano l’Ispettore ed il Logoteta, i quali, già imbevuti delle pestifere dottrine francesi, lavoravano di mettere il popolo in mal talento, e disporlo a desiderare cose nuove e mutazioni radicali. Le suggestioni del Musitano erano destramente avvalorate da un Domenico Billa, avverso al Logoteta perchè questi era stato cagione che il Billa nel passato anno fosse rivocato da sindaco. In queste mene contro il Logoteta aveva il Billa aiutatori taluni popolani da lui prezzolati, i quali nella credula plebaglia insinuandosi, davano mala voce al Logoteta, e mettevano in cielo il Musitano. Bucinavano che l’eleggere a sindaco il Logoteta avrebbe provocato a tumulto il popolo; il quale già, dicevano, era presto a dare il fuoco alle case del Logoteta, e dell’ispettore Francesco de Bonis. Non passava notte che a’ cantoni delle case sulle principali vie non si affiggessero cartelli ingiuriosi al nome del Logoteta con minacce di peggio. Di essi era autore o promotore il Musitano a cui (notisi) il Logoteta era genero. Il governatore politico Girolamo de Gregorio, che deferiva assai al Musitano, non vedeva a male questi trapazzi che davansi al Logoteta, anzi vi soffiava su, e nelle sue relazioni al governo, travisando a suo modo le cose, aggravava sul Logoteta la causa della pubblica commozione, descrivendolo inchinevole ai politici rivolgimenti che la Francia dentro e fuori di lei propugnava. Così stavano gli animi reggini quando venne il giorno della nuova elezione che fu il dì ventiquattro di giugno.

Il de Gregorio, facendo vista di temere qualche dimostrazione tumultuosa, duplicò la guardia che soleva fornirsi in tali convocazioni municipali. E quando si venne a’ voti egli suggerì a’ Reggimentarii la convenienza di raffermare i sindaci che stavano in seggio. Ciò diede incentivo a lunghi dibattiti, ed in fine Santonio Gatto, Antonio Morabito, e Stefano Cundò consigliarono di votarsi sulla proposta conferma. Mentre dentro così si quistionava, di fuori alcuni popolani maneggiati dal Musitano gridavano forte che volevano raffermi i vecchi sindaci, non l’elezione di nuovi. Il governatore, ch’era a parte del giuoco, affrettava che si votasse subito subito, perchè altrimenti avrebbe sciolto il Consiglio, e fattane relazione al Sovrano. Ma l’assessore de Bonis, capito il raggiro, si oppose; e malgrado le contrarie premure, l’elezione ebbe effetto. Si evitò nondimeno con avvisata prudenza di nominare il Logoteta per non dar presa a collisioni; e furono nuovi sindaci Paolo Bosurgi, Franco Putortì, e Paolo Fulco. Di che quanto dispetto abbia sentito il de Gre[p. 115 modifica]gorio, è facile a pensarlo. Costui, non potendone altro, all’uscir del Parlamento sfogò la sua stizza contro Antonio Morabito, sotto colore che essendo chirurgo del reggimento e perciò militare, doveva presentarsi in quel luogo innanzi al suo superiore, non in abito civile, ma in uniforme.

VIII. Questi sindaci però non presero possesso, dacchè il Bosurgi rinunziò, e ad istigazione del Musitano furono date le nullità a’ nuovi eletti. Ciononostante l’assessore aveva decretato ut compellantur ad suscipiendum onus; ma il governatore non volle darvi esecuzione, e lasciò in uffizio i sindaci precedenti. Furono tosto avviate per Napoli relazioni pro e contro l’elezione de’ sindaci, ed istanze di privati cittadini del medesimo tenore. Fra questi tafferugli giunse il dispaccio uffiziale per l’abolizione dell’assisa; ma il de Gregorio non gli diede effetto, e si giustificò col governo che gli animi de’ cittadini erano in fermento, e potrebbe seguitarne qualche tumulto. Così grave era stata descritta la condizione di Reggio che a’ dodici di luglio vi fu ordine al brigadiere Giuseppe Dusmet che da Messina, ove era Ispettore de’ Reali eserciti, passasse a Governatore provvisionale di Reggio. Annesso al detto ordine erane un altro, che il Dusmet venuto appena in Reggio partecipò al de Gregorio, e conteneva che questi dovesse il più presto possibile presentarsi in Napoli al Re. Il Dusmet costituì in Reggio un sindacato interino, chiamandovi Antonino de Biasio, Paolo Surace, e Giuseppe Musolino. E ciò fece per provvisioni della suprema Giunta ottenute ed esibite da Giuseppe Logoteta.

Come documento storico di quel tempo piacemi di riferir qui da parola a parola il dispaccio, che affidava al Dusmet il governo della città nostra: ed è questo: —

«Da tre relazioni del governatore della piazza di Reggio Maresciallo de Gregorio de’ trenta del caduto giugno ha rilevato il Re, che in quella città vi sia qualche sorta di fermento nel popolo a motivo dell’abolizione delle assise sopra varii generi di commestibili; che siensi affissi de’ cartelli sediziosi; che l’origine di tali torbidi viene attribuita all’Ispettore della Cassa sacra D. Francesco de Bonis, a D. Giuseppe Logoteta Mari, e ad altri; e che costoro, alcuni militari, ed altri ancora sono nel numero de’ Masoni, e lodatori delle novelle massime francesi; con aver inoltre il Logoteta Mari pubblicato colle stampe un libretto per l’abolizione delle assise, ed un invito contenente idee pericolose e democratiche. Nondimeno, poichè nelle citate carte non si trova bene sviluppato il motivo degli accennati inconvenienti; particolarmente considerando che l’Ispet[p. 116 modifica]tore de Bonis, indiziato dal governatore come uno dei capi, passa per soggetto onesto ed attento, e sembra autorizzato ad agire nelle sue incombenze di real servizio, dal supremo Consiglio delle Finanze per mezzo della Giunta di corrispondenza; nè si rilieva il chiaro senso dell’accaduto, delle disposizioni di quel popolo, nè di altre necessarie circostanze. E poichè per ottenersi le dovute dilucidazioni per via di lettere dal sudetto governatore si perderebbe molto tempo; perciò ha risoluto e vuole Sua Maestà che lo stesso governatore si porti sollecitamente in Napoli per rischiarare il tutto a voce; mentre molto intanto si rileverà pure dall’Assessore politico di Reggio D. Nicola Pellegrini, attualmente in Napoli, e dal Marchese Palmieri sugli ordini dati dalla Giunta di corrispondenza, e sulle notizie avute circa le pendenze di Reggio, che hanno motivato l’abolizione delle assise. Dovendo adunque partir subito da Reggio il detto governatore de Gregorio, e non convenendo lasciar quella piazza e città senza il corrispondente superiore, ha ordinato Sua Maestà che vossignoria illustrissima subito si porti in detta città e piazza ad assumerne interinamente il governo politico e militare in luogo del de Gregorio, con rimanervi sino a nuov’ordine; ed ivi col lume delle citate relazioni del de Gregorio (descritte nelle annesse copie) esamini il valore dell’esposto, e la sussistenza delle varie lagnanze e de’ ricorsi con prenderne il giusto e preciso senso; e stimando cosa opportuna e prudente l’allontanare da quella città i capi denunziati in dette relazioni, lo esegua con darne conto. Vuole inoltre Sua Maestà che qualora V. S. Illustrissima dalle diligenze da praticarsi rilevasse vera effettivamente l’unione de’ sediziosi, o la mira, di persone di qualunque ceto, di fomentare disturbi, seminar massime di nuovo genere di governi, rappresentanze ed imitazioni qualsisiano di ciò che si pratica in altri paesi, abbia in tal caso a procedere con fermezza e vigore, specialmente per separare i soggetti, e distruggere ogni seme tendente al disturbo ed alla insubordinazione, o al riscaldamento della fantasia. Ma quando rilevasse di esservi in alcuni ceti, e massimamente nel popolo, alcun motivo di lagnanza in materia di annona ed in ogni altro assunto, abbia V. S. Illustrissima a procurarne il riparo, venendo Ella a tutto ciò sovranamente autorizzata colle facoltà opportune, nella intelligenza di dover Ella render conto sollecito di ogni sua disposizione al Real Trono. Ma affinchè V. S. Illustrissima abbia i mezzi convenienti per disimpegnare l’accennata importante commissione, ha comandato S. M. che da Napoli sul vascello Tancredi parta subito un distaccamento di trecento teste del Reggimento Real Macedonia, co’ cor[p. 117 modifica]rispondenti uffiziali e bassi uffiziali, alla volta della piazza di Messina, provveduti tutti dell’anticipazione di due mesi de’ rispettivi averi, e scelti fra la gente più sicura e disciplinata; ed ivi venga alloggiato da quel governatore, e tenuto a disposizione di V. S. Illustrissima, la quale potrà farlo passare in Reggio, quand’Ella lo stimerà a proposito, ed unirvi anche, se fosse necessario, due compagnie di granatieri, ed un battaglione della guarnigione di Messina, onde avvalersene in Reggio, in caso di esservi positivo fermento nel popolo, per frenarlo, e per inviare a Messina le persone sospette, rimanendo alla cura di S. M. di mandare subito da Napoli il supplemento di altre forze, ed anche de’ reali Legni, se occorrerà. Nel tempo istesso che Sua Maestà ha date le sudette disposizioni, si è degnata di dichiarare di essere ben sicura della somma prudenza, giusta veduta e fermezza di V. S. Illustrissima, e di esser sovrano volere che Ella facendo uso di questa qualità si applichi personalmente in Reggio ad osservare e rischiarare i veri oggetti accennati nelle sudette relazioni, prima di venire ad alcuna disposizione di rigore e severità, e di far uso della forza ed autorità concedutale; non trascurando per altro di sedare e di quietare il tutto con prontezza e precisione, unita a quella dignità che conviene al Real servizio, ed alla causa che si agiterebbe se si verificasse procedere l’origine de’ narrati disordini da’ Masoni, o da estere insinuazioni, o da qualche straniero assistente in Messina, o finalmente dai protervi esempii di ciò che accade altrove, i quali anche senza esterna influenza avessero potuto accendere alcune fantasie. Finalmente S. M. inculca a V. S. Illustrissima la possibile riserva ed oculatezza nel disimpegno della enunciata incombenza; e Le avverte che il governatore di Messina, a cui si avvisa soltanto la spedizione del distaccamento di Real Macedonia, e la unione delle altre forze di Messina da tenersi a disposizione di V. S. Illustrissima per l’indicato oggetto, è incaricato di provvedere tal truppa di tende, di letti, e di ogni altro bisognevole, e di ricevere e far custodire in quella piazza tutti i presi che V. S. Illustrissima vi manderà; e che al governatore di Reggio non dovrà Ella partecipare il presente dispaccio, ma dovrà partecipargli soltanto il separato ordine ostensibile qui annesso. Nel Real Nome comunico tutto ciò a V. S. Illustrissima per l’esatto e pronto adempimento. Napoli, 7 luglio 1792 — Giovanni Acton. Al Brigadiere D. Giuseppe Dusmet. — Messina.

Il Dusmet così venne in Reggio, e tosto il de Gregorio partì per Napoli.