Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro ottavo/Capo quinto
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CAPO QUINTO
(Dall’anno 1792 al 1797)
I. Giuseppe Logoteta è arrestato, e mandato nella cittadella di Messina. Atti del Dusmet: sue lodi. Denunzie di masoneria. Pietro Musitano, Girolamo de Gregorio, ed il Padre Barbuto. II. Gregorio Musitano è preso, e mandato in Messina nel Castel Gonzaga. Influenza de’ principii francesi nel Regno. Milizia de’ volontarii. Speranza e paura. Reggio è messa in assetto di difesa. Al Logoteta è restituita la libertà. III. Incidente tra uno sciabecco francese ed una scialuppa savojarda. Fermezza del Dusmet. Altro incidente dello stesso sciabecco nella rada di Pentimele. Dimostrazioni ostili de’ nostri. Rimostranze del Dusmet al Console francese in Messina. IV. Morte del Dusmet, le cui esequie danno occasione a contesa tra il sindaco, e l’assessore. Decisione sovrana sfavorevole a’ sindaci. Domenico Suppa va in Napoli a sostenere i diritti del Comune reggino. Giovanni Pinelli governatore politico di Reggio. Entra in uffizio senza piegarsi alle consuete formalità. V. In Reggio sono ripristinati i Luoghi pii, ed abolita l’Ispezione della Cassa sagra. Le idee democratiche s’invigoriscono. Viene in Reggio il Preside della Provincia Antonio Winspeare. Denunzie al governo. Esortazioni del Pinelli a Diego Spanò e Francesco Trapani. VI. Il governatore Pinelli è ucciso. Il Preside Winspeare torna a Reggio. Persecuzioni ed arresti. Stabilimenti pubblici. Uomini illustri reggini del XVIII secolo. Conclusione dell’opera.
I. Tra i primi cittadini che cercarono di mettersi nella grazia del Dusmet fu Pietro Musitano (1792). Ma il Dusmet volle amici tutti, familiare nessuno. Nè in alcun paesano volle confidarsi, e perciò fece che suo nipote ch’era in Agosta gli mandasse un avvocato siciliano, perchè potesse giovarlo di consigli con maturità e senza passione. Il Musitano, non vedendo materia a’ suoi ferri, si astenne da qualunque altra prova; ed aspettava tempo. Primo pensiero del governatore fu di leggere attesamente le relazioni del de Gregorio, le accusazioni private, ed il dispaccio. La sera del dì ventiquattro di luglio mandò per Giuseppe Logoteta, e mostratogli un manifesto stampato gli domandò s’era suo: il Logoteta, senza titubanza, rispose che sì. Allora il Dusmet gl’impose di costituirsi prigioniero nel corpo di guardia del Quartiere; ed il dimane fece condurlo con buona scorta nella cittadella di Messina. Fu poi senza ritardo cominciata l’istruzione sugli elementi, che offrivano i documenti prodotti. Ma tosto il Dusmet si accorse che l’avvocato siciliano era un pessimo arnese, ed il mandò via. Dell’assessore della regia corte, ch’era lo stesso Ispettore de Bonis sospetto d’intelligenza col Logoteta, non poteva valersi. Fece adunque venirsi da Messina un Giacomo Mazas Maggiore del Reggimento Real Campagna, uomo integro, di benigna indole, ed assai esperto di lettere. Col costui ajuto compilò con operosa assennatezza e circospezione le informazioni sopra tutti i ricorsi. Nè penò molto il Dusmet ad accorgersi che Reggio era in profonda quiete, e che solo le calunnie dei tristi cercavano far valere il contrario. Si affrettò quindi di esporre al Sovrano che non poteva desiderarsi più plausibile lo stato della città; nè abbisognava di alcuno straordinario spediente. Di che l’animo del Re, turbato già tanto dalle fosche relazioni del de Gregorio, ebbe a rimanere assai soddisfatto. E sarebbesi sospesa la partenza de’ trecento soldati, se non fossero già partiti da Napoli sul Tancredi; ma giunti in Messina, trovarono ordine del Dusmet che ivi dovessero trattenersi, perchè la loro presenza in Reggio non era punto necessaria.
Intanto questo fare del Dusmet, che andava diritto a trovare il bandolo della matassa, non tornava bene al Musitano il quale già si accorgeva che i bei tempi del de Gregorio andavano a mutarsi in burrascosi; vedeva che forse anelerebbe a cadere e’ proprio in quella rete, che con tante coperte insidie aveva altrui tesa. E come chi sentendosi già addosso i brividi della morte, pur si dibatte, e spreca ogni sua estrema forza per afferrarsi alla vita che fugge, così il Musitano di posta in posta avviava denunzie velenose al Re, quali in suo proprio nome, quali in nome della città, e quali anonime. Tutti i cittadini di maggior credito erano da lui tassati (come allora dicevasi con brutto gallicismo) di masoneria; gli illibati, gli onesti, gli amici dell’ordine erano chi a lui somigliavano. A tutti questi carichi cercava dare maggior peso il de Gregorio, recandosi ogni giorno a grattar la pazienza al Ministro della guerra. Il quale non solo non davagli buona cera, ma rimetteva via via al Dusmet tutte le carte che circa questa materia gli pervenivano da Reggio. Fra queste si trovò uno scritto firmato dal Padre Barbuto frate Paolotto, uomo già stolido per decrepitezza, e che avrebbe dovuto pensare più all’altro mondo che a questo. Denunziava al Re molti nomi di cospicui Reggini, ch’e’ diceva masoni; al che era stato indotto, forse contro sua voglia, dalla fazione gregoriana e musitanesca. Chiamato a disaminarsi non sapeva provar nulla, si contraddiceva, si ripigliava, negava: onde fu tenuto per matto e mandato in malora.
II. Ma gli avversarii d’ogni bene continuavano nella loro opera infernale. Pietro Musitano aveva un figlio che valeva tant’oro: si chiamava Gregorio, ed era tenente dei Miliziotti, ed aiutante interino del comandante della piazza. Di forme personali e di costumi era il ritratto del padre, sputato e pretto. Anch’egli aveva consarcinata una goffa diceria contro i masoni; ed empiutala di firme o accattate, o estorte, o false, la diresse al Ministro, da cui fu rimandata in Reggio al Dusmet. Questi fece di presente chiamare innanzi a sè taluni di quelli che l’avevano sottoscritta, i quali confessarono averveli persuasi, o spinti con minacce il tenente Musitano. Ordinò allora il Dusmet che Gregorio fosse preso, e mandato prigione nel Castel Gonzaga di Messina, e chiuder fece nel castello di Reggio il notaio Filippo Siclari, che si era prestato ad autenticare quel ricorso. A’ primi giorni di ottobre il Dusmet fu in grado di spedire in Napoli tutto il processo degli affari di Reggio; donde emerse l’innocenza degli accusati, ed i tenebrosi raggiri del de Gregorio e compagni.
Ma i casi di Francia ben presto attirarono a sè tutta l’attenzione de’ principi e de’ popoli italiani. Apparecchi di guerra, mutazioni politiche o avvenute o prossime, tenevano gli animi parte concitati, parte paurosi. Napoli e le provincie stavano in apprensione di turbolenze non lontane forse, e gravissime. I Reggini con varie manifestazioni dell’ordine de’ tre ceti, e della magistratura municipale offerirono al Dusmet il loro concorso, qualora fosse richiesto alla tutela dell’ordine pubblico, e de regii diritti. Ma poi si credette che la tempesta fosse ancor lungi, nè bisognasse aggravare la condizione delle cose con affrettate precauzioni.
Precursore di più gravi eventi entrava il nuovo anno 1793. Napoleone Buonaparte era già venuto come capitano di artiglieria nell’esercito francese d’Italia. Nel Regno napolitano già apparivano manifeste le agitazioni degli animi, ed i liberali mostravansi assai operosi a seminare nelle popolazioni le opinioni francesi. Si era costituita ivi da per tutto la setta masonica che propugnava dottrine sovversive, e cercava farle comuni. Mentre le sue conventicole, divenute meno segrete e più ardite, prendevano sotto l’influenza francese un’attitudine rivoluzionaria che faceva spavento. Queste cose seppesi il governo, ed ove trovò inefficace la mitezza usò il rigore e le carceri; ma in vece di correggere il male, lo irritò. Per provvedere alla difesa dello Stato si ebbe mente ad una milizia volontaria di nobili e possidenti per tutte le provincie, che fu formata nel seguente anno, e distribuita in sessanta battaglioni, ognuno di ottocento uomini. Nuove leve di soldati si fecero, truppe furon mandate a custodir le frontiere, e tre reggimenti, comandati dal principe di Cutò, mossero per la Lombardia. Ma le armi francesi avanzavano irresistibilmente, ed i popoli italiani si ubbriacavano di speranze smisurate; e promettendosi il secolo dell’oro, applaudivano senza ritegno alle strepitose vittorie del giovine Buonaparte. I principi d’Italia, vedendosi poco amici i popoli, ed il temuto nemico addosso, non sapevano pigliar partito alcuno, ed aspettavano consiglio dallo stesso succedersi degli avvenimenti.
Le principali piazze del Regno furono accomodate di tutto il bisognevole a difendersi contro i nemici interni ed esterni. Ed in Reggio nel giugno del 1794 venne da Napoli il capitano d’artiglieria Giuseppe Fonseca con incarico sovrano di porre a sesto le batterie della città, e di ricostituire la compagnia degli artiglieri quanto più prontamente si potesse.
Sin dal cinque di luglio del 1793 era venuto dispaccio che il Logoteta fosse scarcerato: di che ebbe obbligo soprattutto a sua moglie Ignazia Musitano, la quale condottasi in Napoli, e presentatasi al Monarca, non solo ottenne al marito la libertà, ma ebbe ancora dalla regia mano, a compensarle il viaggio, un dono di trecento ducati. Uscì anche di prigionia il Siclari, ma vi restò Gregorio Musitano, cognato del Logoteta.
Reggio era cominciata anch’ella a mettersi in umore; ma una nuova carestia, che le durò per tutto l’anno 1793, aspramente la tormentò, e la distolse da’ pensieri delle cose politiche.
III. Ora mi viene da raccontare un incidente, che avrebbe potuto finir brutto. Una piccola scialuppa di corsali savoiardi piegatasi sulla riviera di Pellaro, si approssimò, come per dir qualche cosa, ad una martingana francese carica di olio, la quale non aveva altro di ciurma che otto uomini. Ma in un subito la investì a tradimento, e presala, se la trasse al lido di Reggio presso la punta de’ Giunchi. Di questo fatto ebbe avviso uno sciabecco francese che stava nel porto di Messina, donde uscito rattamente fece vela per Reggio, deliberato di ritorre la preda a’ corsali, e d’impadronirsi della loro scialuppa. Il governatore Dusmet, conosciuta l’intenzione dello sciabecco, e mal tollerando che in luogo di sua giurisdizione il francese avesse a farsi diritto colla forza propria, in dispregio dell’autorità locale, impose che contro quel legno fosse diretta la batteria del forte Amalfitano, e mandò un drappello di soldati a’ Giunchi per rintuzzare a un bisogno quella straniera insolenza. Il capitano dello sciabecco, mostrando rincrescimento di quel piglio ostile de’ nostri, disse che voleva parlare col governatore della città. E venuto ad abboccamento col Dusmet presso il forte Amalfitano, gli dichiarò non avere altro disegno che di ritogliersi la martingana predata. Al che rispose con molta fermezza il governatore non poter mai tollerare che tal disegno fosse messo in esecuzione, perchè era offensivo all’indipendenza del suo Re. Essere miglior partito, aggiungeva, che lo sciabecco si riconducesse in Messina, e che la scialuppa e la sua preda restassero sotto buona guardia dove si trovavano; mentre ch’egli si darebbe premura di riferire il caso al Sovrano per sapere quel che avesse a farsi. Il capitano francese amò meglio di adagiarsi al savio consiglio del Dusmet, che venire alle brutte per cosa di sì poco momento; e rifece quindi la via di Messina. Ma il Dusmet volle che gli facesse scorta una feluca, con cui scrisse al governatore di Messina Maresciallo Giovanni Danero, che avesse l’occhio a quello sciabecco, e facessene prevenzione al Console di Francia. Ogni cosa poi fu sopita con consegnare nel porto di Messina al detto Console la martingana, e la scialuppa savoiarda.
Ma dopo alcuni giorni ritornò quello sciabecco alla marina di Calabria per un nuovo accidente che non voglio tenere in silenzio. Un bastimento raguseo che aveva preso carico in Trieste per conto di alcuni Austriaci, e portava fra gli altri oggetti due cassoni diretti alla regina di Spagna, approdò a Pentimele; donde, temendo di essere sorpreso da’ legni francesi che incrociavano nelle nostre acque, non si fidava di uscire. Agli otto di maggio lo sciabecco francese uscendo di Messina, venne difilato a gittar l’ancora a Pentimele, imponendo al capitano del legno raguseo che presentasse le sue spedizioni. Lettele e vedutele in regola, lasciò detto a costui che avrebbero avuto occasione, e non tarda, di rivedersi. Il Raguseo inteso questo, scese a terra, e riferì la minaccia del francese al tenente Carelli, comandante del forte di Pentimele. Questi fecene immediato rapporto al Dusmet, il quale tenuto consiglio cogli uffiziali della guarnigione, coll’assessore Nicola Pellegrini e l’Ispettore de Bonis, dispose che ove lo sciabecco volesse far forza al bastimento raguseo, la batteria di Pentimele dovesse far fuoco per colarlo a fondo. Laonde furono spediti a quel forte un capitano e due tenenti con sessantaquattro uomini per esser presti all’evento. Intanto il Dusmet aveva con apposita barca fatto palese in Messina a’ Consoli di Francia e di Ragusa quel molesto incidente. Ed il Console di Francia rispose che l’attentato dello sciabecco era contrario alle istruzioni del suo governo, e che perciò lo avrebbe fatto stare a ragione. In effetto il giorno appresso il legno francese si allontanò da Reggio, e più non vi tornò.
IV. Intanto la notte della vigilia del Natale dell’anno 1794 il virtuoso Giuseppe Dusmet, dopo un’infermità di otto giorni usciva di questa vita. Ebbe esequie decorose e meritate nella chiesa di S. Agostino, ove con eletta orazione ne disse le lodi e le opere nobilissime Girolamo Politi. Fu proseguito alla tomba dalle benedizioni e dal compianto de’ Reggini, i quali ricordavano (e ricordano tuttora) con che amore e rettitudine, in tempi difficili e rotti, li avesse governati. La funebre cerimonia fu nondimeno turbata da una contenzione che parve a tutti irriverente, ed assai biasimevole. Nella sala del defunto si presentò il sindaco Antonino Morisano col bastone del comando, e con tal bastone parimenti si presentò il regio assessore Gregorio Lamanna. Nacque fra loro fervida disputa giurisdizionale, la quale fece che i sindaci bruscamente si ritirassero, e lasciassero solo l’assessore. Questi di rimando impose loro la prigionia nel castello; ma non ne fu ubbidito, anzi il sindaco Morisano fece sapergli di uffizio che giusta i privilegi della città anderebbe ad assumerne il governo provvisionale. Ma s’interpose il Maggiore della piazza Antonio Diez Emanuele (che sottentrava per legge al Dusmet nel governo militare) e dichiarò che in tal controversia egli non avrebbe prestata a nessuno la publica forza, e rifiutato di consegnare nelle carceri del castello chiunque vi fosse mandato, sia per ordine dell’assessore, o de’ sindaci. Aspetterebbe una sovrana decisione per sapere chi di loro avesse a prendere il luogo del governatore politico, e tale essere da lui riconosciuto. Tanto i sindaci che l’assessore si affrettarono di farne relazione al Ministro, gli uni per sostenere il privilegio e l’antica consuetudine della città, l’altro per sostenere che i sindaci avessero prevaricato, in disprezzo di quanto veniva inculcato dalla decima Prammatica del Regno al quindicesimo paragrafo de officio judicum. Fece ancor la sua relazione il Maggiore della piazza: ed intanto, con grave perturbazione de’ publici poteri, gli uni e l’altro reggevano corte in disparte, facendo atti ordinatorii, e spesso tra loro ripugnanti: di maniera che le parti mal sapevano a chi avessero ad ubbidire. Ma la risposta di Napoli non fece aspettarsi a lungo: nella quale il Re a’ dieci di gennaio 1795 rispondendo per Segreteria di guerra al Maggiore della piazza Diez Emanuele, ordinò che questi «far dovesse un’acre riprensione a’ sindaci per avere ardito di turbare la pubblica funzione funebre nel trasporto del cadavere di Dusmet con pretesti efimeri, e che egli stesso assumesse interinamente non solo il governo militare, ma ancora il politico, a norma delle reali ordinanze e degli altri sovrani stabilimenti, essendo inseparabili queste due cariche nell’impiego di Governatore militare e politico dì un luogo; con osservarsi la regola medesima in tutti i casi simili.» Per effetto di questo dispaccio il Diez prese il governo politico e mililare di Reggio.
Ciononostante i sindaci non vollero lasciarsela passare così di cheto. E nel parlamento convocato due volte a tale oggetto fu deliberato di eleggersi due abili cittadini a sostenere i diritti della reggina Università; dessi furono Giuseppe Plutino e Domenico Suppa, de’ quali il secondo fu mandato in Napoli ad avviar l’affare speditamente. L’istanza de’ Reggini fu introdotta nella Segreteria di guerra, nella Giunta di corrispondenza, e nella Real Camera. Ma il Suppa dopo di aver gittato via un migliaio di ducati, dovette per ultimo tornarsene a Reggio colle pive nel sacco. Dico che perdette il fiato ed il tempo, perchè l’assessore, appoggiato dal Preside della Provincia Brigadiere Dentice, gli faceva vivissima opposizione, e non lasciava che la controversia fosse discussa e definita. Tra queste cose le condizioni politiche si andavano facendo più fosche; gli animi si commovevano o a speranze più ardenti, o a paure più tormentose, e niuno ebbe a badare a’ privilegi del municipio reggino. A’ quali anzi un nuovo sfregio tentò fare il cavalier Giovanni Pinelli. Costui venuto governatore in settembre in luogo del defunto Dusmet, non volle lasciarsi dare il possesso secondo il solito, ma sel prese di per sè e di fatto, senza più. Di questo suo tratto però si risentirono col governo i sindaci Felice Guerrera ed Agostino Marrara; onde venne al Pinelli un forte rimprovero, ed ordine assoluto che dovesse entrare in uffizio colle consuete forme.
V. Era a questi tempi in Napoli Fra Bernardo Maria Cenicola designato Arcivescovo per succedere al Capobianco, che eletto dal Re a suo Cappellano maggiore, dovette rinunziare l’arcivescovado di Reggio. Il Cenicola cercò far comprendere al Re quanto importerebbe allo stato morale e politico di questa Diocesi il ripristinamento de’ Luoghi pii, delle cui rendite stava facendo tanto sciupinio l’Ispezione della Cassa sacra. Distese a tale uopo una lunga e ragionata scrittura, la quale fu rimessa per consulta a Monsignor Rossi confessore del Re. Ebbe il contento il Cenicola di vedere appagati i suoi voti, perchè il Rossi fu di parere che i Luoghi pii avessero a ripristinarsi, e la Cassa sacra ad abolirsi. Ed il Re nel dì ultimo del 1795 delegò a Visitatore generale di Calabria il Marchese di Fuscaldo Spinelli, colle istruzioni confacenti a commissione tanto delicata. Nel nuovo anno lo Spinelli fu in Reggio, e fece risorgere tutti i Conventi e Monasteri, tranne il Convento de’ Francescani questuanti, ed il Monastero delle Strozzesche, le quali riunì alle Benedettine della Vittoria. L’archivio dell’Ispezione della Cassa sagra di Reggio fu per suo ordine trasferito in Catanzaro.
Ma già le idee democratiche facevano uscir di cervello la gioventù del Reame napolitano, la quale aspettava dalle armi forestiere non so che insolita foggia di libertà. In Reggio nella casa di Carlo Plutino facevasi la sera una brigata de’ più notabili cittadini, fra i quali noveravansi Diego Spanò, Giacomo Prato, Domenico Suppa, Marcello Laboccetta, Giuseppe Plutino, Francesco e Vincenzo Trapani, Bernardo Gatto, Giuseppe Battaglia, Giuseppe Morabito, Anton Maria Genoese, Canonico Demetrio Nava, Domenico Pontari, Giuseppe Maria Piconiero, Giuseppe Capialbi, Giuseppe Logoteta, Paolo Minardi, Federico Bosurgi, Girolamo Politi, Francesco Caracciolo, e parecchi altri. Il governo, a cui non era ignota la straordinaria effervescenza degli animi, non pretermise alcuna delle precauzioni che credette valevoli a comprimere i bollori interni, e le straniere istigazioni. Oltre della leva forzosa già effettuita, un’altra se ne fece di volontarii. Al qual fine venne in Reggio il Preside della Provincia Antonio Winspeare, a cui fu agevole di radunare non solo un grosso numero di volontarii popolani, ma anche un buon nodo di nobili volontarii a cavallo, spesati dal loro ceto medesimo, che si obbligò, un tanto per famiglia, a fornirli di tutto il bisognevole.
Domenico Billa denunziò a bocca al governatore Pinelli che quanti si radunavano in casa Plutino erano masoni tutti. Il Pinelli gli rispose che ne facesse una denunzia scritta e firmata, la qual cosa il Billa non volle fare. Ma quando poi venne assessore Angelo di Fiore, il Billa andò a lui, e tornò a ripetergli quel che aveva detto al Pinelli, notando come più ardenti di quella setta repubblicana Francesco e Vincenzo Trapani, l’alfiere Diego Spanò, Domenico Suppa, Bernardo Gatto, il Sacerdote Giuseppe Battaglia, Giuseppe Morabito, ed il padrone di casa Carlo Plutino. Il di Fiore senza punto d’indugio fece tutto noto al governo: per la qual cosa vennero da Napoli sollecite istruzioni al governatore che tenesse l’occhio alle indicate persone, usando le esortazioni, il carcere, e qualunque altro castigo fosse ricercato dalla gravezza delle circostanze. Il Pinelli molti riprese, consigliò a molti di non più accomunarsi, e di pigliar la campagna. Allo Spanò, ch’era de più avventati, tolse il grado di alfiere: a Francesco Trapani impose non uscisse di casa, se no, il farebbe chiavare in castello. Questa rimenata del Pinelli fece arguire a’ più compromessi che la cosa andava male e seguiterebbe peggio: onde reputandosi perduti si ristrinsero, e giurarono la morte di lui. Erano tra costoro i più decisi lo Spanò ed il Trapani, cui la personale nimicizia contro il Pinelli li faceva rabbiosi di vendetta e di sangue.
VI. Veniva il settembre del 1797, e celebravasi in Reggio la solenne festa della Madonna della Consolazione. La sera dell’ultimo giorno il Pinelli, il magistrato municipale, ed altri riguardevoli cittadini recavansi in casa del cavalier Domenico Megali a prendersi diletto del fuoco artifiziale, che dovea accendersi sullo spianato di San Filippo. Quando il governatore, al termine di quel divertimento popolare, usciva di casa Megali col suo segretario, tutto ad un tratto si sentì colpito da un archibugiata nella sinistra spalla. Il piombo micidiale riuscitogli al cuore, lo fece cadere stramazzoni, e senza sentimento. Non valse alcun rimedio a richiamarlo all’uffizio de sensi; era morto. Nè il segretario, nè il servo potettero accorgersi di chi trasse il colpo; solo notarono ch’era partito dall’angolo inferiore dello stesso palagio del Megali. Il dimane ebbe onore di esequie sontuose, alle quali intervenne anche il Capitolo della Metropolitana, non solito mai per l’innanzi di assistere a tali funerali apparati: ebbe sepoltura nella chiesa di S. Agostino. Essendo allora in Messina il maggiore Diez per curarsi di una dissuria (della quale poi morì) prese il governo di Reggio l’aiutante maggiore della piazza Giovanni Spina.
Come prima il Preside Winspeare ebbe avviso dell’uccisione del Pinelli mosse da Catanzaro coll’uditore Gioacchino Sandilio, e giunse in Reggio a’ ventitrè di settembre scortato da sei soldati a cavallo, e da un drappello di quelli della Scorrerìa. Raccolse con somma diligenza tutti gl’indizii possibili; esaminò un’infinità di testimoni; ordinò persecuzioni, perquisizioni domestiche, arresti molti. Ma gl’indizii avevano poca consistenza; contradittorie ed incerte trovaronsi le testimonianze; ed in vece di cogliersi alcun filo di verità, fu smarrito interamente. Laonde addì ventitrè di novembre se ne tornò in Catanzaro traendosi dietro ammanettati diciotto de’ principali testimoni, che furono ivi detenuti con massima asperità. Nuova vicenda di persecuzioni, nuovi imprigionamenti successero; assai cittadini innocenti furono per altrui cagione sventuratissimi. Dicono però alcuni che Francesco Trapani, venuto poi in caso di morte nella prigione, avesse confessato se medesimo uccisore del Pinelli: altri sostengono restar tuttavia sconosciuto.
Eppure Reggio, tanto da Dio castigata, ed aspreggiata tanto dagli uomini, non patì difetto di stabilimenti di civile e religiosa educazione nel decimottavo secolo, quali furono l’oratorio de’ Padri Filippini, l’educandato delle Salesiane, il risorgimento del Seminario de’ chierici, il Consolato del commercio. Ed ebbe uomini egregi nelle armi, nelle lettere, e nelle arti; tra cui passarono ai posteri con fama duratura e desiderabile Giuseppe Morisani, Domenico Giuseppe Barilla, il decano Antonio Cannizzone, Francesco Ferrante, Antonio Spizzicagigli, Antonio Oliva, Gregorio Palestino, Pietro Roscitano, Giovanni Battista Panagìa, Girolamo Politi, , Domenico e Federico Musitano, Giacomo Gullì, Vincenzo Cannizzaro, il generale Agamennone Spanò, Giuseppe Logoteta, ed il P. Gesualdo.
Qui pongo termine a queste pagine, le quali dandomi per sei anni conforto di amabili ed utili studii, mi resero meno increscevole la vita; e faranno, spero, che io non abbia a perir tutto, ma che di me sopravviva qualche memoria onorata; unica mercede che io mi desidero dalla benevolenza de’ miei concittadini. Altri con più ingegno ed arte di me (non con più amore e pazienza) noterà ed emenderà i falli ch’io non potei schivare: e mi rivestirà di forme più schiette; e mi continuerà forse. Quanto a me, non seppi far meglio; e fuggo di mettermi dentro alla storia di tempi che sono nostri, dalla cui narrazione, comunque io volessi scriverla, non potrebbe seguirmi che amarezza o pentimento.