Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro ottavo/Capo terzo
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CAPO TERZO
(Dall’anno 1744 al 1756.)
I. Il Preside, ed il marchese di Billè in Reggio. I sollevati, fidando sulla fede data loro dall’Arcivescovo, depongono le armi. Disarmamento generale. Imprigionamenti, e costernazione pubblica. II. Inutili rimostranze dell’Arcivescovo. Carcerazioni, persecualoni, supplizii. Ordine che le robe e le case del Rodino e del Pileci sieno arse. III. Supplizio di Giovanni Lombardo, Antonio Sarraino, Placido Rappoccio e Giuseppe Paleologo. Le loro teste sono impese alla porta Amalfitana: orrore publico. Francesca Belluso muore di spavento; muore di subita morte Andrea Musco. Dolore profondo dell’Arcivescovo. IV. Fiera persecuzione contro il Rodino, il Pileci, il Musitano, ed il Cilèa. Il Preside ritorna a Scilla. Perquisizioni dirette da Angelo di Simone. Il Canonico Antonio Fava da Scilla. Taglia contro i perseguitati. La peste torna a farsi sentire. Il Preside muore di peste in Scilla. I Padri Anselmo da Reggio, e Basilio da Santagata sono arrestati. V. Eccessi de’ satelliti del Ferri. Il Vicario generale Maony in Reggio. Supplizio atroce di Antonio Bellebuono, e fine compassionevole di Giuseppe Bosurgi. VI. Indulto generale. Morte di Pietro Pollacco. Angelo di Simone è carcerato: sue infamie impunite. Lo spurgo finalmente si compie. Diego Ferri parte da Reggio. La città è dichiarata libera di ogni sospetto di peste. Carlo Landi, nuovo governatore. VII. Discordie tra nobili e civili. Le trentatrè famiglie. Il dottor Carlo Guarna. Nuova legge elettiva. Modificazione recata a questa legge. VIII. Disturbi nati dalle nozze di Cesare Cannizzone.
I. Approdavano intanto presso la porta Amalfitana le feluche che conducevano il Preside da Scilla in Reggio. Veniva con lui il Tenente Maresciallo marchese di Billè, e quaranta soldati. Il governatore, o fosse vero timore, o volesse esagerar lo stato delle cose, non uscì di castello; ma fece che in suo luogo si recasse all’incontro sul lido il Comandante Burgati ed altri uffiziali con parecchi de’ più riguardovoli cittadini. Già i rapporti del governatore avevano messo il Preside in assai mal animo contro i sollevati; ed ora il Comandante glieli rappresentava felloni, facinorosi, assassini, da esser puniti con ogni maggior severità. L’Arcivescovo al contrario era sollecito di raccontare al Preside la verità dei casi di Reggio, temperando l’agrezza delle relazioni del Burgati, e cercando di provare che la gente paesana era stata spinta a tali eccedenze più da disperazione che da mal talento. Ma tanto il Preside che il Maresciallo Billè prima di lasciarsi piegare o al rigore, o alla clemenza, dissero di voler sapere le pretensioni degli ammutinati, e poi prender consiglio. Allora l’Arcivescovo presentò loro que’ capitoli che il dì precedente aveva esibiti al governatore. A questo rispose il Maresciallo deponessero prima le armi, e si traessero pacificamente alle case loro: egli poi concederebbe ogni cosa. Perciocchè, aggiungeva, il Re non patteggia mai co’ suoi sudditi ribelli, nè cede alle minacce ed agli schiamazzi. Questa risposta fu comunicata dall’Arcivescovo a’ capi de’ sollevati Franco Rodino, e Petrillo Musitano; i quali, per aver fumo di quel che si stava meditando contro di loro, eransi avvicinati alla Chiesa di S. Francesco di Paola. Essi rimostrarono che avrebbero deposte le armi, tostochè i detti regii Ministri dessero loro sicurtà non solo di sottrarre il paese alle enormezze del governatore, ma eziandio di pubblicare un plenario indulto, facendolo prima ratificare dal Maony. La quistione dell’indulto difficultava, e mandava in lungo qualunque accomodamento: si conchiuse in ultimo che i sollevati dovessero per quel dì posar le armi; e che medesimamente un generale indulto li garentisse da qualsivoglia molestia; e che avessero facoltà di passare dall’uno all’altro di que’ cordoncelli ch’essi stessi aveano già rotti. Di tutto ciò entrò appo loro mallevadore l’Arcivescovo, avuta parola d’onore dal Preside e dal Maresciallo; i quali promisero altresì che fra breve avrebbero fatto dar principio allo spurgo. Ebbe il Prelato queste promesse, e credendole non manchevoli, fece accettarle a’ capi de’ sollevati, che stavano ad attenderlo non molto lungi dalla città. Li assicurò di non dubitar nè della sua parola, nè di quella del Preside: tornassero tranquilli alle case loro, gli effetti delle date promesse aspettassero. Erano un tre migliaja di giovani vigorosi, risoluti, e provvisti di schioppo; poichè tutti quelli che non ne avevano, e facevano molta somma e poco utile, erano stati mandati via per bella maniera. Fra i quali contavasi molta gente di Santagata, di Valanidi e di altre terre prossimane, che bolliva di cavarsi la fame sugli averi de’ cittadini più doviziosi. Ogni cosa adunque tornò quieta come per incanto: le fiducievoli parole del Prelato avevano mutato in bonaccia la popolar procella. Ciò non pareva vero agli agenti del governo, e ad averne certezza spedirono pattuglie nella Sbarra ed in S. Caterina, ove trovarono i paesani in tale tranquillità, che chi nol sapesse non avrebbe potuto raccogliere alcun indizio d’essere stati pur dianzi in sommossa.
Il dodicesimo giorno di agosto si emanò un bando del conte Maony, con cui s’imponeva a tutti gli abitanti del Comune di Reggio di consegnar le armi dentro dodici ore nella casa della città, dove stavano uffiziali incaricati a riceverle. Su quest’ordine si fece un gran dire, e dapprima la gente se ne mostrava renitente e dubbiosa, specialmente gli Sbarroti; ma poi pensando che la sacra parola dell’Arcivescovo non sarebbe mai per venir meno, si disposero all’ubbidienza. E tutto quel dì ed il seguente quasi ogni arma fu docilmente consegnata: onde le Autorità nostre, non vedendo più cagione di star sull’avviso, fecero ritirar le sentinelle e le guardie svizzere dalle porte e dalle mura della città; e con parole di pace facevano coperta a’ fieri disegni che stavano maturando. Ritornò il fiato a’ birri ed all’assessore Angelo di Simone, e dal castello, ove si erano accovacciati, tornarono allenati al loro mestiere. L’aria cominciava ormai a farsi fosca per gl’incauti paesani, che credevano ogni cosa finita, dimenticato il passato, sereno e riposato l’avvenire. Ma così non era.
Di notte tempo, quando tutti dormivano affidati nelle assicurazioni amorevoli del loro Prelato, eccoti una smannata di birri, guidata da Angelo di Simone, ed affiancata da’ soldati svizzeri, correre improvvisa alle case di quelli ch’eran dinotati capi della sommossa, ed ammanettare Francesco Marra, Giovanni Lombardo, e non pochi altri. Ciò produsse nel paese una costernazione indicibile, e fece travedere un nuovo periodo di sventure e di dolori. Reggio diventò desolata: chi si chiudeva in casa propria, chi si nascondeva nell’altrui, chi fuggiva rattamente dalla città. Tutti si rammaricavano della loro trista sorte, tutti ricorrevano all’Arcivescovo ch’era stato il loro protettore, il loro mallevadore, il padre loro. Lui chiamavano a protestare altamente, con tutta l’indipendenza del suo ministero, contro l’infrazione della data fede, contro il mancatogli rispetto, contro il pubblico oltraggio.
II. Quanto questi vivi lamenti abbiano trafitto il mansueto animo del Polou, lascio altrui pensarlo. Gli pareva esser complice della cattura di que’ cittadini, gli pareva che tutti, ed a ragione, si mettessero in mal animo contro di lui, e lo reputassero autore di nuovi infortunii. Pieno di questi fastidiosi pensieri, andò di persona a farne risentimenlo col Preside e col Maresciallo; ma costoro, dati gli ordini, s’erano ritirati nella torre di Pentimele, ove recatosi il Prelato cercò ogni via di vederli, ma invano. Essi vollero a bel disegno evitare il suo incontro ed i suoi rimproveri, e si stettero invisibili. Mortificato e coll’amarezza in cuore, rientrò in città, e fattosi al castello, ove stava il governatore e la soldatesca, si sfogò con gravi parole contro lo sleale procedere de’ regii Ministri; e poi si trasse al palagio arcivescovile profondamente addolorato. Ah, ma il carro era al chino, e bisognava che corresse precipitoso e rovinevole. Cominciarono gl’imprigionamenti, le persecuzioni, i supplizii: si fecero lunghe liste di chi avea preso parte al tumulto, di chi lo avea favorito, di chi non avealo avversato. Tutti i cittadini tremavano, gli innocenti erano messi a fascio co’ rei, gli onesti e gl’indifferenti co’ faziosi. La sbirraglia era in festa, ed in continuo affacendarsi; gli spioni ed i calunniatori erano nella loro beva. L’Arcivescovo diceva al Preside ed al Billè parole di fuoco, ma indarno; indarno protestava che sarebbe andato a Napoli in persona per far nota al governo tutta la verità delle accadute cose, le loro perfidie, i tradimenti loro. Il buon Polou gittava le parole ed il tempo.
Un nuovo bando fu emanato la mattina del quindici di agosto: dovesse fra ore dodici farsi consegna non solo delle altre armi da fuoco che restavano in mano de’ privati, ma anche di ogni altra sorta di arme, fosse o non fosse proibita: a’ contumaci, pena la testa, e l’arsione delle case. Il disarmamento fu eseguito con rigor massimo; il Ferri ed il suo di Simone non capivano in se della gioja, facendo i bravi ed i soprastanti. La persecuzione continuava fierissima; ma qualunque premura di aver in mano Franco Rodino, e Saverio Pileci, già caporioni del movimento, restò senza frutto. Costoro nè vollero deporre le armi, nè si lasciaron cogliere da’ regii; che quando tutti gli altri tenevan fede nella promessa del Preside, essi, antivedendo il mal giuoco, avevano pigliato modo alla salvezza loro, uscendo quattamente della città, e mettendosi in luogo sicurissimo. Erano risoluti di lasciar prima la vita che farsi prendere a’ berrovieri del Ferri. Ed il Preside ordinò che fosse dato il fuoco alle case di que’ due, ed a quanta roba era dentro di quelle. Esaminare e coartar testimoni, compilar processi fuor de’ modi ordinarii e con quegli elementi che suggeriva un ardente desiderio di vendetta, era tutta materia affidata al Ferri ed al suo attuario. Il Comandante Burgati, per lavarsi dell’imputazione che sordamente gli si dava (di aver dato orecchi a’ malcontenti nel fatto della rottura della porta di S. Filippo) si recò in persona nella contrada Calamizzi per far mettere a fuoco le case del Rodino, le quali caddero arse e frantumate sotto i suoi proprii occhi. Cose da Vandali io narro, non da uomini del decimottavo secolo.
Queste inaudite enormezze erano cognite al Vicario generale Maony, e le approvava, e le secondava. Stando egli nella sua residenza di Catanzaro, niuna cura si prendeva di aver il netto de’ fatti reggini, ma si riposava tutto su quel che gli veniva divisato dal Preside: e lasciava fare. Nè le supplicazioni de’ poveri Reggini potevano farsi via per Catanzaro o per Napoli; giacchè tutte le carte che si mettevano alla posta erano disuggellate: e non aveva corso se non quanto piacesse al Preside ed a’ suoi dipendenti.
III. Erano le tre ore della notte che seguì al decimosesto giorno di agosto, quando due confessori furono chiamati al castello. Non giunsero appena che videro quattro sventurati cittadini, chiusi in una stanza sinistramente rischiarata da tre languide facelle, e contristata dall’infausta presenza di Diego Ferri, di Angelo di Simone, e di parecchi sbirri cosentini. Fu ordinato a sacerdoti di acconciar dell’anima que’ quattro sciagurati: fornirono il loro pio uffizio, e mesti ed accorati ne uscirono. Quella notte medesima que’ quattro furon fatti finir di capestro, e le loro recise teste vennero, a pubblico terrore, appese sulla mezzaluna della porta Amalfitana. Erano le teste degl’infelicissimi Giovanni Lombardo, Antonio Sarraino, Placido Rappoccio, Giuseppe Paleologo. Quest’ultimo era l’uno dei due paesani, che avea toccato una grave ferita nella zuffa del Quartiere, e ch’era stato strappato dalla Chiesa, dove, credendo che gli Svizzeri non avrebbero violato il sacro asilo, attendeva a curarsi. Un cupo brivido di orrore prese tutti i cittadini quando, fattosi giorno, seppero il nefando caso, e videro confitte sulla detta porta quelle quattro teste grondanti ancora di sangue. Ognuno gemeva in cuor suo, ognuno malediceva i malvagi autori di tanti eccessi; ma il dolor premeva angosciosamente, e stavasi nella propria casa raccolto e sbigottito; poichè le vie erano per ogni verso funestate dalla presenza di que’ carnefici.
Una onesta e pietosa donna, Francesca Belluso, che abitava presso la porta Amalfitana, fu vinta di tal dolore e spavento alla vista di quelle teste troncate, che s’infermò di acuta febbre, ed in pochi giorni morì. E di subita morte ancora finì Andrea Musco, a cui dimorando nella contrada dell’Archi, era corsa la falsa voce che uno degli strangolati fosse un suo figlio, che si trovava prigioniero.
Quanto tormento n’abbia sentito l’Arcivescovo non v’è lingua che possa significarlo. Tutto quel giorno fu veduto genuflesso e piangente innanzi ad un Crocifisso, implorando un termine a tante sventare. E sovente coprivasi gli occhi con ambe le mani; chè vedeva nella sua dolorosa fantasia attraversarsi fra la sua vista e la sacrata imagine del Salvatore quelle quattro teste recise, le quali con occhi di sangue gli apponessero la colpa di quel miserando ed orribile spettacolo. Ed il santo uomo piangeva; piangeva a cald’occhi ed offeriva al misericordioso Iddio gli strazii degl’infelici e de’ traditi.
Furono rintegrati il giorno appresso tutti i cordoni e cordoncelli stati rotti nel tumulto, e restituite a’ loro uffizii tutte quelle persone forestiere, che l’odio pubblico aveva rimosse e costrette a fuggire. Ma per calmare il rancore e l’irritazione generale, si diede presto cominciamento allo spurgo del lazzaretto del Castelnuovo.
IV. Ma il Preside ed il Ferri ardevano di acciuffare il Rodino, il Pileci, il Musitano, ed il Cilèa; e ad ottenerne l’intento uscì bando del Preside, a suon di tamburo svizzero, che sotto pena del capo, della confisca de’ beni, e dell’arsione delle case, chi tenesse ascosi i mentovati ribelli, o ne sapesse il rifugio, dovesse tra lo spazio di ore ventiquattro deferirlo alla potestà locale. Scorso il termine posto, darebbesi infallibile effetto alle pene comminate, anche sull’asserzione di un solo testimone: a’ delatori era promessa una taglia di quattrocento ducati. Dopo la promulgazione del bando, il Preside fece ritorno a Scilla, lasciando commissione al Ferri di continuar l’opera incoata delle persecuzioni e de supplizii. Nè poteva aver dubbio che il governatore non fosse per compire il mandato con meravigliosa sollecitudine. La prima cosa, ordinò il Ferri che duecento armigeri de’ casali di Ortì e di Arasì, comandati dal Capitano militare del cordone regio, e da’ Capitani urbani de’ casali medesimi, si tenessero pronti in città. Fu messo a loro guida Angelo di Simone; e quel giorno stesso assaltarono per ogni lato il convento de’ Cappuccini, ed altri luoghi e case delle vicine contrade, ov’era sospetto che il Rodino e gli altri tre avessero potuto buscarsi un rifugio. Ma ogni ricerca ed indagine fu indarno; solo mancò poco che non vi capitasse il Cilèa, il quale stando nascosto nella propria casa, ed essendo questa assalita dal bargello, potette a malo stento accoccolarsi sotto alcune legna in una stanza terrena: la quale fu rovistata per tutto, meno che in quel canto, ove le legna stavano accatastate. Consideri ciascuno come io quel momento dovessero bruciare i panni addosso al povero Cilèa; ma campatosi fuggì tanto che non se ne seppe più nulla del fatto suo. I nomi degl’inquisiti furon pubblicati ne’ domimi del duca di Bagnara e del principe di Roccella, ed ordinato a quei vassalli che si mettessero in armi per dar la caccia a fuggitivi in tutti i luoghi sospetti. E fu notato allora che gli Scillesi erano tra i più caldi persecutori, facendo guida e spalla a’ cagnotti del Ferri. Nè poco valse ad aizzarveli (dico la verità tutta intera) il loro compaesano Antonio Fava, il quale di maestro di grammatica nel Seminario reggino era stato sollevato a Canonico della nostra Metropolitana. Quanti aveva risparmiati la peste erano ora tartassati dalla tristizia degli uomini, che scelleravano le mani contro una città inerme, e tanto estenuata da durissimi flagelli della pestilenza e della fame. Ma i perseguitati frustravano la feroce voglia del Ferri; ed egli si mordeva le mani. E faceva mettere in carcere una ventina di Sbarroti, da cui sperava, o colle buone o colle cattive, cavar qualche importante confessione. Ma tutto era niente; ed egli cambiando guisa bandiva intero perdono ed indulto a chiunque de’ compromessi rivelasse dentro otto giorni l’occulta dimora di alcuno de’ quattro Rodino, Pileci, Cilèa, e Musitano. E più, riconfermava la taglia di ducati quattrocento a chi consegnasse qualcuno de’ medesimi, o vivo o morto, nelle mani della giustizia. Ma tutto era niente; ed il Ferri, cieco d’ira, si dava l’anima al diavolo; ed aumentava la taglia da’ quattrocento ducati a mille duecento.
Tra questi travagli, e mentre i Reggini penavano a figurarsi un ultimo termine alle loro angosce, seppero per giunta che la peste, ripullulando con violenza al primo di settembre, infieriva da principio nella casa Belluso, e poi a sbalzi attaccava varii rioni della città, e si dilatava pe’ borghi. Ma quando venne notizia che il Preside Basta era morto in Scilla con forti sospetti di peste, non seppero i Reggini frenare l’allegrezza loro, e pensarono che forse il pietoso Iddio cominciasse ad aggravare il suo dito sul capo degl’implacabili persecutori. E si pose mente che il Basta uscì di vita appunto in quell’ora che aveva fatto strangolar in Reggio que’ quattro sopradetti. La qual notizia quanto fu a’ Reggini grata, tanto fu amara al Ferri ed al Burgati, che vedevansi privi di un sì valido sostegno delle loro nefandezze. Ma le persecuzioni, le denunzie, i processi, gli arresti, le infami calunnie, contro cui non hanno schermo gli onesti e gl’innocenti, duravano tuttavia. E la sera del giorno ventisette di settembre furono presi i due Cappuccini Anselmo Bosurgi da Reggio, e Basilio da Santagata, a cui si gravava di essere stati tra i primi a predicar la rivolta, ed a farsene complici e promovitori. In questo mezzo veniva il nuovo anno 1745; e comechè non si verificasse che qualche raro caso di peste, i cordoni nonpertanto si mantenevano con molta severità. Bandi a bandi succedevano, ai bandi le prigionie, a queste le fucilazioni, per denunziate rotture di contumacia. Ma lo spurgo, ora ripreso ora sospeso dalla malizia dei tristi, (a cui stava a cuore quel potere straordinario e discrezionale, che li rendeva superiori ad ogni divina ed umana legge) lo spurgo, dico, non veniva mai a conchiusione, perchè mai non terminassero i mali di Reggio.
V. A’ satelliti del Ferri era lecito di violare impunemente i cordoni, era lecito di ripassare a voglia loro dall’una contrada all’altra a far perquisizioni domiciliari, a dir villanie, a stazzonar donne oneste, a procacciar lubrici sollazzi alla foia del loro padrone. Se poi su qualche disgraziato cittadino cadeva un minimo dubbio di aver praticato in luoghi sospetti d’infezione, bastava la testimonianza di quella sbirraglia per esser dannato nel capo senz’altra prova o giudizio. E queste imputazioni colpivano sempre que’ miseri ch’erano astiati dal governatore, o perchè avessero sparlato di lui e de’ suoi fatti o perchè fossero notati nelle lunghe liste de’ sediziosi, o perchè avessero, come che sia, attraversato qualche suo appetito. Costui, che si era dimostrato così accidioso quando all’incipiente morbo potevano far ritegno i rimedii, ed era salutifero il rigore, questo rigore ora inutile ed oppressivo, adoperava sino al sangue. Ma egli intanto uno spurgo, supremo desiderio di tutti, non volle mai che si facesse come doveva esser fatto.
A dì ventuno di marzo venne il Vicario Maony, e tredici colpi di artiglieria il salutarono. Quasi a festeggiare il suo arrivo furono in quel giorno stesso fucilati Antonino Vita e Mariano Suràci, accusati l’uno d’aver lavato in mare, violando la contumacia, un paio di sue brache; l’altro di aver toccato non so che bisaccia infetta in una casa della contrada di Caserta. La dimora del Maony in Reggio tu letificata da’ supplizii di Antonio Bellebuono, e di Giuseppe Bosurgi. Era accusatore e testimone di costoro l’attuario Angelo di Simone; e ciò basta.
Il Bellebuono, d’indole mansuetissima, era tra gli spurgatori de’ più esperti. Una delle sue più gravi colpe si reputava l’aver detto con vivacità che il Ferri non senza coperti fini tirasse in lungo lo spurgo. Nel costui esame furono adoperati tormenti non più conosciuti in Reggio nè prima nè poi. Funicelle, pece liquefatta, solfanelli accesi alle mani, collo legato al ceppo, ferri, manette, flagelli a sangue con pinne di baccalà. Con questi spietati mezzi dilacerarono le carni dello sfortunato Bellebuono; ma egli stette fra tanti strazii imperturbabile, e nulla rispose alle inchieste de’ suoi manigoldi: stette, e tenne gli occhi o levali al cielo o avvallati alla terra, ed andò incontro a morte con quella calma e rassegnazione, che solo i veri cristiani conoscono e praticano.
Un nobil giovinetto di venti anni Giuseppe Bosurgi, era stato da pochi dì chiuso nel castello, per accusa datagli di non aver fatto il rivelo delle sue robe. Gli furono accordate dodici ore a difendersi; ma il suo decreto di morte era già scritto a lettere di sangue, nè più potea cancellarsi. Ne sostenne la difesa con ragionata eloquenza l’avvocato Francesco Ferrante. Ma chi porgeva orecchi alle sue ragioni per rivocare un decreto già fatto ed irrevocabile? Era virtuoso e gentile il Bosurgi, era amato dai suoi concittadini, era figliuolo unico di una nobile ed onorata donna. La quale piangeva inconsolabilmente; piangeva, e pregava che le rendessero il suo figliuolo, la vita sua! Chi non si lascerebbe commuovere da donna che preghi e pianga? I più segnalati cittadini e laici e chiesastici intercedevano a pro del giovinetto; intercedeva il venerando Arcivescovo, e si piegava a pregare un Diego Ferri. Ma questi, tenendo abito dal suo ferreo cognome, non si lasciava stogliere dal suo micidiale proposito. Ed il Bosurgi, inconsapevole della sua crudel sorte, dalle finestre del castello faceva amorevoli baciamani a due sue sorelle, vergini sacrate nel Monastero di S. Nicolò di Strozzi, che stavangli a vista, e di pari affetto il corrispondevano.
Alle ore ventuno del giorno ventitrè di marzo il Bosurgi fu fatto uscire del castello in mezzo a soldati svizzeri. Due padri Gesuiti gli erano a’ fianchi ad assisterlo ed acconciarlo dell’anima. A’ divini conforti rispose soavi parole di perdono al suo persecutore, parole di perdono a chi il trascinava al duro passo in età ancor così verde, e così rigogliosa di avvenire e di care lusinghe. Tratto al punto fatale gli furono bendati gli occhi, e poco stante dieci fucilate il fecero cadavere. Ma l’anima sua benedetta, sprigionatasi dal terreno impaccio, si raccoglieva certo in luogo d’immortali gaudii, inaccessibile agli scellerati. Publica sventura fu questa, non privata: tanto fu compianto il Bosurgi, tanto fu desiderato. La madre, disfatta dall’intenso dolore, quasi dissennò; nè mai più si mostrò allegra, sinchè le durò il fastidio della vita.
VI. Finalmente la deplorevole condizione della città nostra commosse il cuore del Sovrano; e quando più la persecuzione aspreggiava i cittadini, venne certa notizia che un generale indulto era per cessare i loro travagli. Di che nacque ne’ Reggini un’allegrezza pazza e smisurata, ed aprivano i loro animi alla speranza di una prossima stagione di riposo e di durabil pace. Ma coll’indulto non furon chiuse le tragedie reggine: un’ultima scena di sangue dovea suggellarle. Così volle il Ferri, così volle il Maony. Pietro Pollacco veneziano era il direttore dello spurgo: il quale avendo a cuore che tale operazione si facesse con tutta diligenza e senza interruzione, n’era sempre stornato da ordini contradittorii ed ambigui del governatore. Saputo l’indulto il Pollacco volle sfogarsi; credeva l’incauto venuta la rara felicità di poter dire il vero senza pericolo! Coll’anima straziata tuttavia dalla memoria della morte del Bellebuono, suo diletto amico e compagno, cominciò a narrare del Ferri gl’iniqui ordini, i fatti atroci, e le infamie: e disse queste cose in faccia allo stesso Vicario generale. Ma il Ferri a rendergliene buon conto fece prendere il Pollacco a quattro suoi sgherri, e trascinare nel castello. Credevasi che ogni cosa sarebbe passata con qualche giorno di detenzione, senz’altro seguito. Non fu così: il Ferri aspettava la notte, ch’era quella del dì ventinove marzo. Al dimane il Pollacco si trovò senza vita, ed andarono le novelle per la città di aversela levata da se medesimo, e di veleno. Era menzogna; il vero fu che morì strangolato per ordine del Ferri, e col beneplacito del Maony.
Ora le cose mutan verso e si fanno più benigne. Quell’Angelo di Simone, che ne avea fatte tante a rovina de’ Reggini, il giorno diciotto di luglio fu per ordine venuto da Napoli carcerato nel castello. Immediatamente in casa del Comandante Bigotti, coli’ assistenza di un uffiziale militare, cominciò ad istruirsi un rigido processo contro il di Simone. Dalle testimonianze si colsero prove inconcusse di aver costui commesse tante nequizie, che assai minore della verità era il grido pubblico. Stupri, rapine, concussioni, testimoni compri o coatti, attentati flagranti contro la salute pubblica, tutto fu messo in chiarissima luce. Angelo di Simone si credeva spacciato; e sentiva già il capestro che gli fregasse la strozza. Ma non ne fu nulla: a tante turpitudini furono stimati castigo confacente sessanta giorni di prigionia, e lo sfratto da Reggio. La salda protezione del conte Maony gli salvò la pelle.
Fu anche ordine sovrano che senz’altro indugio o pretesto fosse principiato col nuovo anno 1746 lo spurgo generale; e questo in quattro mesi fu terminato. Il governatore Diego Ferri liberava finalmente i Reggini dalla sua presenza verso l’ottavo giorno di maggio. Egli partiva proseguito dal pubblico abominio, e seco uscivano di Reggio gli Svizzeri, ed i soldati del regio cordone. Ai due di luglio, giorno tanto sospirato, fu dichiarata perfetta la salute pubblica, e libero il commercio interno ed esterno. Il tuono delle artiglierie prenunziava la gioja universale. Cantossi il Te Deum nella Chiesa di S. Maria della Cattolica dal Ditterèo Francesco Paolo Furfari. Cantossi una messa solenne, e vennero ad uffiziarvi i cantanti della Chiesa Metropolitana. Alla commovente cerimonia assedevano il nuovo Preside Nicola Caracciolo, il Magistrato municipale, e la più eletta parte della cittadinanza reggina. Quel giorno, mentre chiudeva un triennio di storia dolorosissima, apriva le affaticate menti alla concordia alterna, alle usate consuetudini, ed alle care vicende delle civili e domestiche cure. Il Preside Caracciolo fece via il giorno appresso per Catanzaro; ed in luogo del Ferri venne in Reggio Governatore Carlo Landi. Fattosi il computo, si trovò i morti di peste non avere oltrepassato i cinquemila. Un cinquecento perirono di fame e di stenti; e se ne aggiungi altrettanti (nè furon meno), a cui fu tolto il vivere dal malvagio e memorabile triumvirato del Maony, Ferri, e di Simone, avrai la somma di sei migliaja di morti. E questo valeva che mezza popolazione della città nostra era ita, perchè essa allora non contava che i diecimila; e forse manco.
VII. Terminate le calamità della pestilenza, e le oppressioni dei governanti, gli animi de’ cittadini cominciarono a comporsi alla quiete (1748) e le pubbliche faccende a poco a poco ripresero vita e vigoria. Ma ivi a due anni nacque da piccoli principii una irritazione intestina, che sarebbe al sicuro trascorsa ad azzuffamenti gravissimi, se il governo non vi avesse dato rimedio. Dalla quale nondimeno si mise fra i varii ordini de’ cittadini una tal divisione, che tenne acceso per gran pezza un odio deplorabile tra le nobili famiglie, con detrimento e scandalo publico. Era già assai che molte famiglie di Reggio, cospicue di ricchezze e di meriti civili, mal pativano che il sindacato nobile continuasse a tenersi, quasi privilegio, da trentatrè famiglie, in alcune delle quali era ormai assoluto difetto di beni di fortuna, e di qualità personali. Nè potevano farsi belle che di una sterile nobiltà di sangue; la quale però non correva in tutte antichissima, ed anzi in talune era assai controversa.
Ma qui è uopo, per riuscir chiaro, farmi un poco da lungi, e narrar brevemente le circostanze che diedero origine a questi nuovi dissidii. Già dicemmo nel precedente libro di queste nostre storie come nel 1638, a chiuder l’adito alle brighe, che ormai troppo sovente facevano forza su’ trentasei elezionarii del Parlamento municipale, si fosse introdotta la nuova forma elettiva dell’abilitazione. Questa restrizione che parve allora utile e necessaria, cominciò col tempo a tralignare, come sempre avviene di tutte le umane cose; e lasciò un’altra volta aperto il passo agl’intrighi. Perciocchè vedendosi, che abilitazione valeva il medesimo che nobilitazione, ogni sforzo de’ cittadini, che pretendevano alla nobiltà, era diretto, con mezzi spesso poco onorevoli, a farsi abilitare al sindacato, per ficcarsi nel ruolo de’ nobili. Quando gli otto deputati dell’abilitazione sapevano resistere a questi maneggi, e non piegavano alle altrui brame le proprie convinzioni, ne avean lode dagli uni; ma gli altri, che non avevan potuto aver grazia di essere abilitati, andavano alle furie, e ne dicevano le peggiori villanie del mondo. All’incontro se i Deputati, come sovente fecero, lasciavano guastarsi dalle sollicitazioni private, ed abilitavano chi nol meritava, ne erano dagli uni vituperati, e mandati a cielo dagli altri. Era in somma l’abilitazione divenuta palestra di appicchi, d’ingiurie, di protratte discordie. E spesso avvenne che cittadini appartenenti a nobilissime famiglie restassero fuori de’ ruoli dell’abilitazione, perchè, onesti e nemici delle brighe, sdegnarono di mendicarne la protezione de’ deputati; ed in vece fossero abilitati altri cittadini di famiglie nuove e d’incerta nobiltà, perchè ebbero appoggio da parenti o amici intriganti. Da ciò nacquero gli sconcerti del 1686, e del 1698, e quelli più serii del 1722; nè si fece mai abilitazione, che non avesse cagionati malumori e nimicizie.
Finalmente nell’abilitazione del 1730 (che fu la ventunesima) i sindaci, i quali avean premura che fossero abilitati alcuni loro amici e parenti, elessero di loro arbitrio gli otto dell’abilitazione, mentre questi per legge avrebbero dovuto esser eletti dal Reggimento municipale. E questi deputati, che furon trovati dispostissimi a far la voglia de’ sindaci, lasciaronsi correre ad abilitare a fascio (non guardando per lo sottile nè meriti nè nobiltà) moltissimi cittadini. Ma siccome la lista degli abilitati non poteva essere interminata, ed infine infine aveva a chiudersi; ne avvenne che parecchi aspiranti all’abilitazione dovettero restarne esclusi. Tra i quali erano Martino Caracciolo, Giuseppe Donato, e Silvestro Cama. Costoro ristrettisi insieme fecero che a capo di un mese partisse per Napoli l’abate Antonino Caracciolo ad infermare di nullità l’abilitazione suddetta. Fu loro avvocato Francesco d’Onufrii giudice di Vicaria, e le ragioni da lui addotte a sostener la nullità furono che i reggimentarii non potevano cedere a’ sindaci la facoltà di eleggere i deputati. Insisteva inoltre, in nome di moltissimi cittadini di Reggio, che il Capitolo dell’abilitazione avesse ad abolirsi, perchè era divenuto perpetua cagione di villanie e di riotte. La causa fu rimessa al Collateral Consiglio; ed era avvocato de’ nobili, che sostenevano le ragioni contrarie, Francesco Ferrante. Dopo un anno di ostinato litigio uscì finalmente decreto:
1.° Che l’abilitazione del 1730 era nulla, perchè i Reggimentarii non potevano trasmettere ne’ Sindaci l’attribuzione di eleggere i Deputati.
2.° Che il Capitolo del 1638 restasse fermo e valido.
Di questo decreto le due parti si chiamarono per contente del pari, l’una di aver conseguito che l’abilitazione ventunesima fosse annullata, l’altra di aver superato il punto che durasse rata e ferma la Capitolazione del 1638. Comunicato tal decreto al governatore di Reggio Antonio Sinopoli, tosto fece ordine che fra otto giorni dovesse convocarsi il Parlamento municipale per eleggere gli otto deputati dell’abilitazione a farsi. Onde i sindaci Filippo Bosurgi e Cesare Cannizzone, vedendo di esser rimasti scaciati, rinunziarono il loro uffizio: e subito dopo quattro giorni vennero nominati e presero possesso i novelli Giuseppe Genoese, e Domenico Filocamo. Colla nuova abilitazione la lunga lista degli abilitati del passato anno fu scrutinata severamente, ed assai abbreviata. Il che fece che moltissimi abilitali tornassero ad un tratto inabilitati. Ma questa fu pure annullata a premura di Matteo Cannizzone, che avrebbe voluto essere abilitato, e nol fu. E poichè questa fu l’ultima abilitazione, così da questo anno 1732 sino al 1748 l’idoneità al sindacato dei nobili restò quasi per diritto ereditario in trentatrè famiglie, che si dicevano patrizie, e sole abilitate.
Di questa odiosa arrogazione appunto si lamentavano molte altre famiglie nel 1748; nè le loro doglianze erano irragionevoli. Perchè sovente uomini ignoranti e corrotti, che avrebbero dovuto arrossire di chiamarsi discendenti di nobil sangue, ottenevano quei gradi ed uffizii, a cui tanti altri cittadini, nobili ormai, e per civili virtù chiarissimi, non potevano aver pretensione. Era quindi comune il desiderio, che all’amministrazione de’ nobili, abbattendo quel sistema, in cui le trentatrè famiglie si eran trinceate, potessero essere ammessi anche i nobili ex privilegio, come fossero dottori, medici, capitani. Tra i nobili ex privilegio era assai nominato e di molto seguito il dottor Carlo Guarna, il quale si fermò nell’animo di ottenere ad ogni costo che fossero ammessi al sindacato nobile tutti i nobili di privilegio, come si era praticato nei tempi passati. Usò egli dapprima i modi cortesi e persuasivi, cercando di convincere i nobili ex genere quanto fosse convenevole una riforma elettiva; e quanto per contrario facesse nocumento alla cosa pubblica e dispetto al paese quella usurpazione ostinata delle trentatrè famiglie. Ma le sue rimostranze non fecero frutto; ed i nobili di genere si chiusero saldissimi in quello che dicevano loro diritto. 11 Guarna allora mutò lingua, e disse loro sul viso che vincerebbe la prova per altro verso, e farebbe ben tosto pentirli del fatto loro. Ristrettosi a consiglio con molti altri cittadini fu determinato unanimemente di farne richiamo in Napoli presso la Real Camera, e chiedere che la legge dell’elezione municipale fosse rifatta, e meglio accomodata a’ bisogni del tempo e della città. A conseguir l’assunto il dottor Guarna si prese la cura di recarsi a Napoli. Egli fecesi a dimostrare con argomenti di fatto che Reggio non ebbe mai una nobiltà chiusa, e che il più delle famiglie nobili erano tali divenute coll’entratura al sindacato per nobiltà di privilegio. Null’altro domandare ora il Guarna se non che all’intollerabile andazzo, a cui diede motivo la capitolazione del 1638, fosse sostituita la pristina usanza; che non dava alimento ad astii alterni, e non chiudeva la via alla nobilitazione successiva delle nuove famiglie.
La real Camera dopo aver esaminata maturamente la petizione del Guarna e suoi consocii, e la difesa fattane, però assai fiaccamente, da Gennaro Perrelli, avvocato delle trentatrè famiglie, addì undici di marzo del 1749 emise la provvisione che segue, e che fu approvata dal Sovrano.
«Ordina, decreta e provvede che l’elezione dell’amministrazione di Reggio in avvenire al solito tempo debba farsi nel seguente modo;
Ogni anno in publico Parlamento sieno eletti, serbate le formalità, i soliti trentasei Consiglieri, o Decurioni annuali, cioè nove del celo de’ nobili, nel quale sieno compresi ancora i nobili ex privilegio; nove del ceto degli onorati, volgarmente detti civili, nove del ceto degli artefici, e nove del ceto de’ villani, volgarmente massari. Per mezzo di bussola segreta da questi trentasei consiglieri si estragga uno a sorte, e costui nomini uno per sindaco de’ nobili, cui non faccia ostacolo legittimo impedimento. Nella qual nomina possano ancora essere inclusi i nobili ex privilegio, e ciò s’intenda soltanto a rispetto dell’amministrazione dell’Università, e senza pregiudizio de’ diritti delle parti rispetto alla nobiltà. Il nominato poi sia sortito colla bussola; cioè tutti i consiglieri pongano in essa i loro suffragi segreti, e s’intenda eletto chi da due delle tre parti risulterà approvato. Quindi nel modo medesimo si nomini il sindaco degli onorati, e quello degli altri due ceti: con questo che nel primo anno sia eletto quello degli artefici, e nel secondo quello dei massari, e così alternatamente per l’avvenire. Ma se avverrà che il nominato di qualsisia de’ tre ceti non ottenga i due terzi de’ suffragi, in tal caso sarà fatta una seconda nomina, nella quale se nemmeno concorreranno i suffragi richiesti, sarà fatta la terza; ed in questa per l’approvazione del nominato non si richiederà il concorso delle due terze parti, ma basterà il più numero di diciannove voti.»
Questa provvisione fece boriosi ed insolenti i nuovi nobili, i quali passando segno e misura, si gittarono ghiotti alla preda del sindacato, e non lasciaron più luogo ai vecchi patrizii, che restarono disfatti ed umiliati. Inoltre concedendo l’onore sindacario agli artefici ed a’ massari, veniva ad introdursi nella pubblica amministrazione un elemento popolare assai largo, che non giovò, ma nocque anzi moltissimo alla dignità municipale, e valse a’ gittarla nel fango. I nuovi nobili intanto correndo all’altro estremo si usurparono al tutto la potestà sindacale, e le trentatrè famiglie abilitate alla voce passiva restaronvi escluse. Poichè gli altri ceti, aderendosi a’ nobili di privilegio, davano sempre a costoro la pluralità de’ voti nel Consiglio annuale formato ormai totalmente sotto la loro influenza, e di uomini della loro parte. Ciò però facevano per tollerato abuso, e contro il senso del decreto, il quale accordando a’ nobili graduati l’elezione al sindacato, in concorrenza co’ nobili di genere, intendeva chiaramente che ciò avvenisse senza pregiudizio de’ diritti delle parti rispetto alla nobiltà. Con che non altro si accordava a’ graduati che una nobiltà personale, non trasmisibile a’ loro discendenti, ma estinguentesi in loro medesimi.
Dalla prima elezione del 1749 usciron nominati sindaci il dottor Carlo Guarna, il notaio Giuseppe di Ditto, ed il sartore Crispino Cotroneo. Tra gli anni che corsero da questo all’anno 1763 non si vede delle trentatrè famiglie che un sol nome nel 1759, e fu Pietro Granata. I nuovi ruoli degli eligibili nobilitarono un’infinità di famiglie, e non vi entrò, direi, se non chi non volle. Anzi dicono che nel 1750 chi volle esser ascritto alla nobiltà pagò al governatore Giovanni Pallante ducati venti, e fu messo nel ruolo. I patrizii umiliati, che avevan perduto il terreno, non potevano darsi pace. Veder sulla ruina loro calcare i piedi quelli che li aveano tolti di seggio era cosa che li trafiggeva a morte. E l’anno 1756, facendo sforzo di riabilitarsi, e di tornare a sommo, le trentatrè famiglie obbligaronsi con publica scrittura di mandare e mantenere in Napoli a comuni spese sei agenti e procuratori coll’annua gratificazione di ducati trecentodue, sinchè non ottenessero qualche importante provvisione a loro vantaggio. Questi procuratori furono Antonio Guerrera, Giuseppe Monsolino, barone Paolo Filocamo, ed i cavalieri Giovanni Domenico Bosurgi, Domenico Genoese, e Felice Laboccetta. Dopo sei anni di ripetute istanze, fu provveduto al fine nel 1763, con favorevole consulta della Real Camera, che «ferma restando la legge del 1749, per riparare nondimeno a’ disordini che ad ogni elezione avvenivano tra i nobili ex genere (i quali tentavano invano ogni via di rifarsi) ed i nobili ex privilegio (che tenevan quelli pertinacemente esclusi) si dispose che l’elezione di sindaco cadesse alternatamente un anno sopra un nobile di genere, ed un altro sopra un nobile di privilegio.
Questa legge del 1749, regolò poi sempre nell’avvenire, senz’altra modificazione, l’elezione de’ sindaci, e durò sino all’invasione francese avvenuta ne’ primi anni del secol nostro.
VIII. Prima di chiuder questo capo non voglio passare in silenzio un’avventura, che avrebbe potuto partorir gravi effetti, se alla consideratezza de’ cittadini fossero prevalsi più impetuosi consigli. Addì ventinove di aprile del 1756 il signor Cesare Cannizzone aveva a far le sponsalizie in Reggio colla signora Giuseppa Patti da Messina. A questa festa nuziale, che doveva essere splendida ed allegra, il Cannizzone non invitò alcuno degli uffiziali del Reggimento nazionale Bari, che faceva il presidio della città. Qual cagione ne l’abbia ritenuto, io nol so; questo è certo, che gli uffiziali se ne adontarono, e si lasciarono dire che, a controvoglia e dispetto del Cannizzone, sarebbero intervenuti alla festa. Saputo egli il loro proposito di fargli villania disse all’uffiziale Andrea Dentice (che del non fatto invito gli si mostrava dolente) essere padrone d’invitare in sua casa chi meglio gli piaceva; e se gli uffiziali volevano fargli insulto, che vi si recassero ad uno ad uno in abito civile, e troverebbero lui pronto a dare la debita risposta, da uomo ad uomo. Ma se poi preferissero di recarvisi tutti in una volta, e colla divisa del Re, in tal caso egli non poteva far altro che inghiottir l’ingiuria; e veder poi il modo più proprio di averne soddisfazione.
La sera delle nozze, ad un’ora di notte, mentre ferveva la danza, parecchi uffiziali si tramisero bruscamente nella sala, e pigliate per mano con audace impertinenza le signore Isabella Erriquez, moglie di Michele Caravaglio, e Lavinia Manti, le tirarono a ballare a viva forza. Questo tratto d’insolenza destò un’indignazione grandissima; tutti gli astanti divennero muti e si trassero da parte, e la lieta adunanza restò perturbatissima e sconcertata. Gli uffiziali, che si erano armati sino alla gola, grattavano a sangue, col loro cipiglio provocatore, la pazienza del Cannizzone, che si faceva di mille colori, e poteva appena tenersi. Mentre il governatore Lorenzo Mazzocchi, che era presente ed avrebbe dovuto protestar vivamente contro l’insolenza militare e porvi rimedio, rimaneva di sasso e taciturno. I più arroganti tra essi furono Nicola Pitagna, Pasquale Bombini, ed Andrea Dentice; anzi il Pitagna usò la scostumalezza di porsi il cappello in capo, e di passeggiar varie volte per lungo e per largo nella sala del ballo.
A’ primi giorni di maggio così i sindaci, che il Governatore, e la signora Lavinia Plutino, madre del Cannizzone, portarono ricorso al Capitan Generale duca di Castropignano, al marchese di Squillace ed al Re direttamente con una supplica presentatagli in Portici dal sacerdote Antonino Capri. Come il Re seppe l’accaduto, ordinò che il reggimento Bari dovesse senza dimora trasferirsi da Reggio in Messina, e quello di Messina, ch’era il nazionale Basilicata, in Reggio. E che frattanto si conducesse da quella città a questa l’avvocato fiscale per prendere rigorosa informazione del fatto. In effetto di che al sette di giugno furono mandati nel castello il capitano Pasquale Bombini, il tenente Domenico Brunetti, Michele Orsini, ed altri uffiziali: essendosi provato a carico loro che senza ordine superiore avessero fatto uscire dal picchetto una mano di soldati la sera del ventinove maggio, ed appostatili presso la casa del Cannizzone, quando recaronsi ad insultarlo. Costoro non ne furono liberati che a’ sedici gennaio del 1757, eccetto però il Bombini che stette chiuso più lungo tempo. A dieci giugno del 1756 tutto il reggimento Bari s’imbarcò per Messina, mentre quello di là sbarcava in Reggio. E fu notevole che fra i soldati del reggimento che partiva e quelli dell’altro che arrivava, ebbevi un acceso scambio di mordaci motti, che degenerato poi in conflitto, lasciò varii feriti dalle due parti, ed un morto nel reggimento Basilicata. Di questi severi provvedimenti restarono assai soddisfatti gli animi de’ cittadini, tanto a ragione inaspriti da quella tracotanza militare, la quale era stata reputata più publica che privata ingiuria.