Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro ottavo/Capo primo

Libro ottavo - Capo primo

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CAPO PRIMO

(Dall’anno 1723 al 1743.)

I. Nuove cagioni di guerra. Reggio è rifortificata. Casi del Reame. II. Gli Spagnuoli in Napoli. Reggio è da essi occupata, a’ quali cede anche la Sicilia. Squadra Francese in Reggio. Pace, e sue condizioni. Uccisione del sindaco Ignazio Monsolino. III. Ignazio Termini governatore di Reggio. Quistioni tra lui, ed i sindaci della città. Il sindaco Domenico Spanò va in Napoli, ed ottiene che il Termini sia rimosso; ma i sindaci perdono il titolo di Senatori. Consolato del Commercio. Alluvione. IV. Origine della pestilenza di Reggio nel 1743. Cautele prese da’ cittadini per cessare il flagello. V. Diego Ferri nuovo governatore di Reggio. Occulto traffico tra Villa S. Giovanni e Messina, dove la peste era in colmo. Il Padre Orazio Griso, ed il calzolajo Paolo Spanò. Stato deplorabile di Messina. VI. Padron Paolo Lombardo muore in Villa S. Giovanni. Due medici, il Fucetola ed il Marrari, spediti da Reggio ad accertarsi del caso, sono tra sè discordanti. Precauzioni fatte in Reggio. VII. Il contagio si manifesta nella casa di Paolo Spanò. Spavento pubblico. Orazio Griso muore. VIII. Il morbo si dilata fuori porta Mesa; e quel borgo viene incordonato, ma è tardi. Il male è in città. Sconsigliatezza del governatore e de’ sindaci. Terrore generale. Si formano due Deputazioni di cittadini. Bandi del Vicario generale Maony. Zelo virtuoso de’ Cappuccini Paolo da Reggio, e Mansueto da Mosòrrofa; e de’ Riformati Pietro da Santagata, ed Antonio da Siderno. Desolazione di Reggio. IX. Il Padre Francesco da Siderno. Voto delle signore Reggine. Pie opere dell’Arcivescovo Damiano Polon.


I. La pace fra le Potenze d’Europa non doveva durar lungamente. E primo incentivo a romperla furono le quistioni per il re di Sardegna, e la preponderanza che l’Austria cominciava ad aver grandissima nella politica europea. Finalmente l’adesione di questa Potenza a’ progetti della Russia circa la Polonia nella controversia dell’elezione del re, precipitò alla conclusione tutte le pratiche, ch’erano ancora pendenti fra le tre Potenze occidentali. Il ventisei settembre del 1733 fu sottoscritto un trattato d’alleanza tra Francia, Spagna e Piemonte contro Austria; col quale Carlo Infante di Spagna, lasciando il Ducato di Parma e Piacenza a Filippo suo minor fratello, veniva investito del Regno delle Due Sicilie. Degli eserciti [p. 57 modifica]confederati in Italia fu eletto Generalissimo re Carlo Emmanuele; e l’Italia in ogni suo più rimoto angolo sonò d’armi e di guerra. L’Austria non postergò di preparare a valida difensione i suoi Stati italiani, e massimamente questo Regno; alla cui occupazione la Spagna si affaticava con ogni sua industria. E l’Austria, che già da buon pezzo presentiva inevitabile una rottura colle dette Potenze, erasi sin dal 1730 adoperata a fortificare, come si potè il più, il litorale del Regno. A questo effetto nell’aprile di quell’anno era venuto in Reggio a visitar le fortezze il Comandante delle truppe imperiali in Calabria conte Girolamo Adamo Formentini. Il quale fece riattare le vecchie trincee dalla parte del lido, ed una nuova ne piantò al Castelnuovo, e racconciò in buona forma le mura torrionate della città. Fece fare anche altre opere esterne, per le quali dovettero mandarsi a terra moltissime case fuori porta Mesa. Questi lavori furono diretti e sopravveduti dal capitano di artiglieria Giacomo Gullì, della cui opera ed abilità non poco si giovò il Formentini; e gli affidò l’ispezione e maneggio non delle sole batterie di Reggio, ma anche di tutte le altre che furon piantate lungo la riviera di Calabria, di rincontro alla Sicilia. Le trincee di Reggio, che a principio erano state costrutte di pietra, arena e fascine, furon poi rifatte di pietre e calce, e rivedute dal conte Valles, Generalissimo delle armi in Sicilia, e governatore di Messina.

L’Infante Carlo frattanto nel febbrajo del 1734, congiuntosi col Montemar al campo generale di Siena, marciava a gran giornate verso il Reame. Una flotta spagnuola incrociava a vista di Civitavecchia, ed alcune navi, distaccatesene il venti di marzo, prendevano le isole di Procida e d’Ischia. L’esercito spagnuolo si avanzò senza intoppo per terra, schivando Capua, sino a S. Angelo di Rocca Canina. In Napoli il fermento era già grandissimo e minaccevole, e poco mancava che traboccasse ad aperta ribellione. Onde il Vicerè Visconti, che vedeva imminente un rimescolamento di cose, mise la sua famiglia sulla via di Vienna; ed egli si tramutò in Gaeta, e da ivi in Avellino, e poscia in Barletta. Ridotto finalmente agli estremi (poichè i popoli andavano sollevandosi dietro i suoi passi) chiamò alle sue bandiere tutti i banditi ed i condannati. Ma con tal disperato spediente, a vece di ritardare il suo crollo, non fece che raddoppiar la confusione ed il disordine.

II. Carlo procedette, senza trovare avversarii, sino a Maddaloni, dove una deputazione di nobili cittadini recossi a complirlo, e presentargli le chiavi di Napoli. Entrarono tosto in questa metropoli tremila Spagnuoli, ed a’ dieci di maggio l’Infante vi fece il suo trion[p. 58 modifica]fale ingresso. A capo di cinque giorni un decreto del suo genitore lo creava Re delle Due Sicilie. La spedizione del principe non fu che una festa; e la gioja de’ Napolitani passò ogni misura, quando seppero che Carlo diveniva loro Re, e che questo Stato, rifattosi indipendente da Spagna, ritornerebbe nazione. Il Conte di Montemar, saputo che in quel di Bari eransi rattestati un sette migliaja di Austriaci, uscì loro contro celeremente, ed il dì ventisette maggio li caricò presso Bitonto. Gl’Italiani, che erano al soldo dell’Austria, cedettero al primo urto, e si sbandarono, e gli Austriaci, rimasti soli e deboli, non poterono più tenere il fermo. Gli abitanti di quei contorni si abbracciarono subito agli Spagnuoli; ed il Montemar, tornato vittorioso, conseguì il titolo di duca di Bitonto, ed il comando della piazza di Napoli.

Il presidio austriaco di Gaeta si arrese a re Carlo il dì sette agosto, e dentro lo stesso mese il Montemar condusse l’armata Spagnuola, e l’esercito al conquisto della Sicilia. L’armata salpò da’ porti di Napoli e di Baja al vigesimoterzo giorno; poi si divise in due squadre. Coll’una il Montemar si dirizzò per Palermo, coll’altra il conte di Marsillac per Messina. Una frazione della squadra piegò verso Reggio. Ma la guarnigione austriaca di questa città, antivedendo il pericolo, e trovando esser la piazza poco atta alla resistenza, si era già ritirata nella cittadella di Messina. In questa occasione fu ammirabile la preveggenza ed attività del reggino Giacomo Gullì capitano d’artiglieria, che comandava le batterie di Reggio, e di tutta la costa di Calabria sino a Tropea. Costui, fatte smontare tali batterie, curò che sollecitamente fossero trasportati nella cittadella di Messina tutti gli attrezzi, munizioni, e cannoni che trovavansi collocati ne’ detti luoghi della riviera calabrese. Ed e’ medesimo si ritirò cogli Austriaci di là dal Faro, e continuò capitano dell’artiglieria di campagna sotto il comando del tenente colonnello Ferdinando de Faier-Staien. Gli Spagnuoli occuparono Reggio a dì quindici di giugno, e le chiavi della città furon consegnate al conte Vincenzo Mazzeda, il quale condottosi alla Cattedrale a sentire il Te Deum, sedette al posto de’ sindaci, ed in mezzo a loro.

Comandava le armi austriache in Messina il principe di Lobkovitz, il quale alla vista delle navi spagnuole, abbandonò due castelli per rafforzar la difesa della cittadella, e del forte Gonzaga, dove raccolse e concentrò tutte le sue forze. Messina, come si vide libera del presidio austriaco, si diede volenterosa alla Spagna. Il Montemar, sbarcato presso Palermo il secondo giorno di settembre, entrava la capitale dell’isola, e n’era investito Vicerè. Alla squadra spagnuola [p. 59 modifica]diretta sopra Messina prestavano grande ausilio le truppe che il Mazzeda faceva passarvi da Reggio, ov’erano spedite in gran copia da Napoli a tener luogo di riserba per le operazioni di Sicilia. Il principe Lobkovitz propugnò ostinatamente la cittadella sino al ventidue di febbrajo 1735; quando si trovò condotto a tali pessimi termini, che dovette calare agli accordi.

A proteggere le fazioni spagnuole nello Stretto, venne in Reggio al finir di giugno una squadra francese di dieci galee, comandata dal Duca di Orleans gran Priore di Malta. Alla quale altri due vascelli si aggiunsero a’ principii di luglio; ma ivi ad un mese si allontanò dalle nostre acque senza aver fatto cosa meritevole di storia. In ultimo, dopo tante guerresche vicissitudini firmaronsi in Vienna il tre ottobre i preliminari della pace tra Francia ed Austria: ed una delle condizioni cardinali fu che l’Infante Carlo ritener dovesse il regno delle Due Sicilie. A tali preliminari accedette la Spagna in novembre del 1736; e così questo regno restò senz’altro contrasto al Borbone.

Al principio del 1735 uno scompiglio non lieve attristava la città nostra. Era allora uno de’ suoi sindaci Ignazio Monsolino, il quale aveva posta ogni cura, perchè l’amministrazione del Comune fosse sbrattata di tutte quelle sordide venalità ed ingiustizie, che l’avevano fatta gravissima e spregevole al popolo. Onde nacque che mentre era amato e riverito da’ buoni, i quali vedevano ravviate al meglio le condizioni cittadine, era al contrario venuto in ira a quelli, che solevano impunemente tirare alle proprie borse la pubblica moneta, e fare i soprastanti ed i prepotenti. Al ventunesimo giorno del notato anno, mentre facevasi scandaglio di carne di porco, sorse alterazione tra esso sindaco, ed il gabelliere Musitano nella scalderia presso il Conservatorio delle Malmaritate. Ciò fece accorrere armati i parenti ed amici delle due famiglie, e venutosi dalle batoste a fatti di mano, il sindaco fu accoltellato e morto, e gravemente ferito Giuseppe, uno de’ suoi fratelli. Di che suscitossi per la città un gran subuglio; e fattasi grossa raunata di popolo, tutti ardevano di gittarsi a fare scempio de’ Musitani. I quali in quel mezzo, vedendosi a mal passo, si cercarono asilo nella vicina chiesa del Conservatorio; ed i loro aderenti, che non erano pochi, trovarono maniera alla fuga. Ma il governatore Ignazio Termini fece chiudere incontanente le porte della città, strappar di chiesa i fuggiti, e sostenere tutti i congiunti delle due parti, che avevano inasprita la rissa. Quindi i rei furon condotti in Napoli, e dannati a dieci anni di prigionia; dopo di che n’uscirono con obbligo di servir nell’esercito. Dell’uc[p. 60 modifica]cisione del sindaco assai si compianse la popolazione reggina, la quale rimemorando le lodate opere del Monsolino, e la sua fine sciagurata, andava con amarezza esclamando: Cu’ faci beni a Riggiu mori accisu!

III. Il maresciallo Ignazio Termini era il governatore di Reggio nel 1736; il quale ebbe così brusca e superba indole, che a tutti i cittadini divenne odiatissimo ed insopportabile. Di parecchie usanze ed antiche prerogative della città egli cominciò a farsi pubbliche beffe, e talune di esse volle smetterle del tutto. Io ne conterò una, ed è questa. Quando occorrevano nel Duomo o altrove solenni funzioni, che domandavano la presenza del governatore, era inveterato costume che questi dovesse farsi trovare nel portone della sua casa, dove i sindaci si recavano a prenderlo ed accompagnarlo. Al Termini entrò capriccio di non voler farsi trovar giù al luogo consueto; ma pretese che il magistrato municipale andasse su, ed aspettasse l’uscita di lui, non pronta, ma a suo bell’agio. A queste pretensioni si piegarono i sindaci Giuseppe Genoese, Antonino Melissari, e Nicola Romeo: e furono essi i primi a tagliar la radice di quella prerogativa del Comune. Erano già quattro anni dacchè a questa nuova pratica aveva ceduto luogo l’antica; nè i sindaci succeduti a predetti osarono disdirla al Termini, che continuava governatore di Reggio. Solo il sindaco Domenico Sirti voleva nel 1739 sostenere il diritto della città; ma non ebbe appoggio da’ suoi colleghi Gregorio Ferrante e Francesco Neri. Ma nel 1740, venuti al sindacato Domenico Spanò, Carlo Suppa, ed Andrea Musco, si misero in fermo di restituir la solita usanza, nè più comportare l’intrusione della nuova. A questo il maresciallo si accese di forte sdegno, e disse ai Sindaci che avrebbe dato loro risposta, e non tarda.

Era antico a’ sindaci di Reggio l’onorifico titolo di Senatori, loro tollerato da’ Sovrani del Regno, ed apertamente riconosciuto per tutto il decimosettimo secolo. Ora il Termini, per dispettare i Sindaci e la città, tanto brogliò presso il governo, che venne ordine a’ medesimi di non dover più per l’avvenire attribuirsi quel titolo. Il sindaco Spanò non volle darla per vinta, e senza indugio fece via per Napoli a rappresentare al Re i diritti della città, ed i torti del governatore: ed ottenne, a pubblica soddisfazione, che il Termini fosse rimosso dal governo di Reggio. Ma però non potè più ricuperare a’ sindaci l’onorificenza senatoria.

Dentro il detto anno 1740 fu stabilito in Reggio per ordine sovrano un Consolato del commercio, e conceduta alla città la proposta della terna per l’elezione dei tre Consoli, e per quella di un [p. 61 modifica]loro assessore. La terna dell’assessore doveva comporsi di nomi di avvocati reggini.

Addì trenta settembre del 1742 cominciò a riversarsi sopra Reggio una pioggia così diluviosa, ed a fioccare una così grossa gragnuola, che tutti i vetri delle finestre andarono in pezzi, e pareva il finimondo. Durò questa maledizione di temporale a tutto il giorno appresso, e le acque del Calopinace, rotti e soverchiati gli argini in più parti, corsero impetuose in città per la porta di S. Filippo; e si precipitarono giù nella parte inferiore verso il forte Lemos. Ma trovato ivi impedimento nella trincea di quel forte, divertirono la corrente alla porta della Dogana, e per essa sboccando al mare, inondarono lo scalo de’ bastimenti sin presso il forte Amalfitano. Dalla parte esterna della città la furia delle acque ruppe la trincea del forte Lemos, e danneggiò in gran modo i poderi ed il caseggiato della contrada Gabelle. A’ venti di febbrajo dell’anno successivo (1743), ch’era il berlingaccio, fuvvi una scossa di terremoto veementissima, che recò gravissime lesioni a quasi tutti gli edifizii della città, e fece crollare in parte il Convento de’ Carmelitani, ed il luogo nuovo de’ Cappuccini.

IV. Ora è tempo di dar principio al fastidioso racconto della pestilenza, e degli avvenimenti che ne seguirono, i quali fecero della floridissima Reggio un deserto. Ed in questo argomento m’indugerò forse troppo; ma mi scuserà la materia, ch’è unica a memoria di uomini. Dico unica, perchè contiene una mesta e compassionevole vicenda di dolori intensissimi, d’ineffabili sofferenze domestiche, di lutti interminati! È la storia di una perfidia incredibile; perchè la malizia umana operò che il morbo si protraesse, ed infierisse in Reggio assai più che non portava la sua indole, che poteva dirsi benigna, rispetto alla tremenda morìa, la quale in così breve spazio aveva mutata Messina in cimitero!

Sul cadere di marzo del 1743 tornando da Messina un barcajuolo reggino recò la notizia che una tartana genovese carica di grano era arrivata in quella città da Patrasso, con bandiera nostrale e patente netta. Ed avuta libera pratica dopo breve contumacia, era sul mettersi a sbarcar la mercanzia, allorchè si conobbe esservi morti con sospetto di peste, prima il capitano, e poco stante un marinajo. Di ciò corse la fama per Reggio, e posteriori avvisi confermarono il fatto. Per la qual cosa il nostro Consiglio sanitario mise ordine immediato che le barche reggine si astenessero di far tragitto in Messina, sinchè non si trovasse il netto della cosa. Provvide altresì che le marine fossero ben vigilate da frequenti guardie, nè trascurò di [p. 62 modifica]passare i dovuti uffizii al Consiglio sanitario di Messina, ove si trasferì a quest’oggetto il deputato Nunzio Pileci. Egli ebbe commissione di pigliar modo con quel magistrato che la tutela della salute pubblica potesse conciliarsi, sino a un certo punto, cogl’interessi della mercatura, e delle contrattazioni reciproche. Ma i Messinesi a niun patto comportavano che altri dicesse esservi sospetto di peste nella lor città; e principalmente i trafficanti, i quali ben vedevano quanto le cautele, che avessero a prendersi in pro della salute pubblica, verrebbero pregiudizievoli a’ loro commerci. Quindi i medici messinesi sostennero con insistenza che quella non era peste, ma un’epidemica infermità, che sarebbe presto svanita. Ma i Reggini non si arrendevano a queste belle ragioni, e volendo, il più possibile, cessar da Reggio tanta calamità, provvidero che oltre del cordone stabilito alle marine, si aggiungessero al battaglione urbano quattro cittadini, due nobili e due civili, i quali dovessero ogni notte fare la ronda; vegliando i posti delle guardie per tutto il tratto ch’è da Reggio a Villa S. Giovanni. Molte altre precauzioni si presero ancora circa le relazioni con Messina, dove il morbo, ad onta delle contrarie asserzioni, si aumentava di giorno in giorno, e conduceva alla morte assai gente, specialmente del popolo minuto. Intanto le notizie di Messina giungevano in Napoli varie e discrepanti, nè poteva cavarsene alcun lume di verità. Onde il governo ordinava ai ventitrè di aprile che alle barche provenienti da Sicilia continuasse a darsi libera pratica ne’ porti del continente; solo si assoggettassero a venti giorni di contumacia quelle che da Messina venivano. Ma la verità, ch’è zoppa e va tardi, giunse finalmente alle orecchie del Sovrano, mediante le precise relazioni di Palermo. E la suprema Deputazione di Napoli il dì vigesimottavo dello stesso mese fece ordine che dovesse a’ Messinesi interdirsi totalmente qualunque commercio con altri paesi. In questo mezzo le cose vennero a tal gravità in Messina che la pestilenza non potè più dissimularsi. In Reggio crebbero a mille doppii le apprensioni, e qualunque aderenza con Sicilia fu rotta rigorosamente. E l’Arcivescovo Polou fecesi sollecito di promuovere pubbliche preghiere a Dio perchè risparmiasse da tanto terribile flagello la città nostra.

V. In luogo d’Ignazio Termini, ch’era già partito da Reggio, venne governatore Diego Ferri, pessimo uomo. Costui mentre invigilava che fosse guardata la riviera di Reggio, non badava per niente a quella della Catona e di Villa S. Giovanni, dove le comunicazioni occulte con Messina non si erano mai intermesse di notte in notte. Perciocchè parecchi calabresi si recavano a provveder l’ospedale di [p. 63 modifica]quella città di varie specie di vettovaglia, di che sentiva difetto, e ritornavano a Villa S. Giovanni con varii oggetti di minuto traffico. E questo scambio riprovevole andò tanto avanti, che i varii oggetti portati da Messina s’introducevano sottomano nel territorio di Reggio, coll’intelligenza di parecchi di que’ popolani che stavano a vigilare il cordone. A’ quali andava un tanto per cento del guadagno che se ne faceva. Dava mano a queste pratiche un Orazio Griso, frate di S. Francesco d’Assisi; e della roba che veniva da Messina a Reggio per la via di Villa S. Giovanni si faceva deposito celatamente nella casa del calzolajo Paolo Spanò fuori porta Mesa: donde a poco per volta s’immetteva dentro la città.

Già in Messina la micidiale contagione terribilmente infuriava, e la cessazione di qualunque commercio con fuori faceva sentire i molesti effetti della carestia e della fame. Il governo di Napoli non fu lento a provvedere, come potè meglio, alle strettezze di quella città. E per sovvenire momentaneamente all’urgenza del bisogno, fece provvisione che Reggio fornisse Messina di un mille ducati di grasce, avviandole a Taormina, donde si sarebbero ivi spedite. Non sì tosto tale ordine venne in Reggio verso il venti di giugno, che i nostri sindaci fecero sopra due grosse barche un compiuto carico di comestibili; le quali da una delle galeotte napolitane (ch’eran venute a que’ giorni da Napoli) furono scortate a Taormina. A tutto il mese di giugno la peste aveva fatto uscir di vita in Messina ventisette mila persone, ed erasi già dilatata alla Scaletta ed a Milazzo. E mentre quella città era così dolorosamente travagliata; mentre Reggio, quasi sicura di sè, soccorreva generosa all’infortunio della sua nobile vicina, niuno sapeva che il morbo sin dal decimo giorno di giugno si era insinuato in Calabria.

VI. Fra i marinai, che facevano di soppiatto il picciolo traffico tra Messina e Villa S. Giovanni, erano padron Paolo Lombardo ed un suo fratello, vignajuoli di Antonino Spanò, patrizio reggino. A dì dieci di giugno i due fratelli sopra una barchetta del Faro furono trasportati infermicci a casa loro; ed in capo di tre giorni Paolo morì, e fu di notte sotterrato in una vigna; l’altro fuggì, nè più si seppe che ne fosse stato di lui. Lo Spanò, ch’era quivi per la nutritura del baco da seta, seppe il caso e le circostanze, e fuggitosi a Reggio, fece subito avvisati il governatore ed i sindaci, affinchè fossero a tempo di preservar la città dal pericolo imminente. Il governatore Ferri raccolse quanto riferì lo Spanò, ma siccome posteriori notizie davano non esser seguito altro caso a quello del Lombardo, si conchiuse leggermente che quest’uomo potè morirsi di [p. 64 modifica]malattia ordinaria, nè si tenne più conto dell’assertiva dello Spanò. Indi a pochi giorni però vennero a morte l’un dopo l’altro i parenti del Lombardo, cioè la madre, la moglie, ed un figlio; il che mise una gran paura negli animi di tutti. Ed il medico di Villa S. Giovanni, ch’era il reggino Antonino Zangàri, accertatosi che costoro eran morti di peste, nè volendo contuttociò accrescer terrore agli abitanti facendo pubblica la trista verità, comunicò il tutto al parroco Francesco Greco, e di accordo scrissero ogni particolarità al Governatore. Il quale dispose senza indugio che il giorno appresso si recassero a Villa S. Giovanni i due nostri medici Francesco Marrari, e Saverio Fucetola, a prender minuta informazione di ogni cosa. Ed andativi detto fatto, conferirono col Zangari, e tutti e tre si diressero alla casa del Lombardo, dove trovarono altri due ammalati, l’uno col bubone, l’altro colle petecchie; i quali poco stante morirono. Il Zangari che aveva celato con accorta prudenza la verità al pubblico, la disse intera al Fucetola; il quale a que’ tempi aveva fama tra i più dotti e sperimentati medici del Regno. Ma fra costui ed il Marrari non era medesimo il parere. Onde ritornati a Reggio, il Fucetola sosteneva con certezza che i Lombardo erano trapassati di peste, sosteneva all’incontro il Marrari che peste non era. Tra queste discrepanze intanto continuava attivo il traffico occulto tra Reggio e Villa S. Giovanni, ed i parenti del Lombardo eran venuti sempre a Reggio a comprar le medicine per gl’infermi. Da ultimo però il governatore, ed i sindaci Giuseppe Genoese ed Antonio Melissari, determinatisi di operar con energia, per far che il morbo si contenesse solo a Villa S. Giovanni, dettero ordine che al tocco della mezza notte duecento Svizzeri, e più che tremila cittadini armati stessero pronti alla partenza. Si pose capo a’ medesimi il Ferri, e la mattina seguente, che fu il ventitrè di giugno, gli abitatori di Villa S. Giovanni si videro circuiti, ed impediti di uscire del lor paese. Dapprima cercarono di far rumore, ed aprirsi la via; ma li tenne in riguardo la milizia svizzera e paesana, che li esortò a starsi tranquilli, e non far pazzie.

Dell’operato de’ Reggini contro i suoi vassalli forte si querelò il duca di Bagnara Carlo Ruffo, sostenendo che non v’era peste in quel suo tenimento, ma che questa prendeva forma nell’alterata fantasia de’ Reggini. Per farlo capace si spedirono da Reggio a Villa S. Giovanni altri due medici, uno de’ quali era Giovanni Battista Falcone; e questi o per far cosa accetta al duca, o per contradire al Fucetola, negò l’esistenza del morbo in quella contrada. Contuttociò il cordone intorno al territorio di Villa S. Giovanni era già fatto, [p. 65 modifica]e vi fu con forza mantenuto. Ma il contagio rapidamente allargavasi, e menava strage di molte persone. Laonde il governatore di Reggio, ed il Preside della Provincia, che già vi era accorso alle prime nuove pervenutegli, ingiunsero al Comune di Fiumara, che cominciasse a far esso le spese e la provvista del bisognevole per quel suo casale di Villa S. Giovanni, sovvenuto sino allora dai Reggini. E mandaron dicendo al duca di Bagnara che curasse di spedirvi un due migliaja di tavole, per la costruzione di un lazzaretto. Il Duca, che sulle prime si era mostrato restìo, vedendo poi di non potersene schermire con buone ragioni, mandò tutto il bisogno, e commise all’università di Fiumara di far tutte le spese occorrenti, delle quali sarebbe poi rivaluta. Stabilito regolarmente il cordone, i Reggini tornarono alla loro città; e la dimane i nostri magistrati rifecero la via di Villa S. Giovanni, conducendo la compagnia degli artiglieri. Fu prima operazione di mettere il fuoco alle case ed alla roba di quelle persone che si trovavano nel lazzaretto. E fu per verità doloroso a veder rompere le botti, e spargere per terra il vino, bruciar le barche, tagliare alberi e canneti, ove sospettavasi che potessero trovarsi nascoste robe infette. Si appiccò ancora il fuoco alla chiesa del Pezzo di S. Maria delle Grazie, dov’era morto un giovine fuggito due giorni prima da una casa appestata di Villa S. Giovanni. La peste però non durò molto in quel luogo, e non furono in tutto desiderate che ottanta persone. Ma quando credevano i Reggini aver confinato il flagello in Villa San Giovanni, quando scemando ivi il male, nutrivano ferma speranza che la lor città ne sarebbe preservata, il morbo era già alle loro porte.

VII. Nel settimo giorno di luglio, in casa di mastro Paolo Spanò fuori porta Mesa, dopo tre giorni di malattia, venne a caso di morte una sua figlia bizzoca. E come niuno conosceva il traffico ch’era tra quella casa e la gente di Villa S. Giovanni, niuno ebbe a sospettare che costei potesse esser morta di peste. Quindi i parenti, com’è usanza, erano iti a visitar l’inferma, i medici a curarla, il padre spirituale ad acconciarla dell’anima. Dopo la costei morte si fecero in quella casa le consuete visite di lutto da’ parenti e dagli amici; ma Frat’Orazio Griso, consapevole della verità della cosa, non volle per niun verso che la defunta fosse seppellita nella chiesa del convento di S. Francesco d’Assisi, di cui egli era Guardiano; nè volle ricever più in convento quel Padre, che avevala assistita ne’ bisogni spirituali. Dopo due giorni s’infermò un altra sorella di lei, e morì ancora; ed il Griso cominciò allora a gridare atterrito e quasi forsennato: Peste, peste! Venuto ciò alle orecchie del magistrato, e dei [p. 66 modifica]cittadini, che cominciarono a tremar di paura, i medici ebbero carico di esaminar l’accaduto. Costoro conchiusero che non vi era ragione a spaventarsi, perchè quelle persone erano finite di febbre maligna, come portava la stagione. Nondimeno fu loro ordinato di dar cotidiane relazioni della pubblica salute, e di proporre le cautele che credessero più congrue a conservarla. Il Fucetola però, contro il parere di tutti gli altri medici, tenne pur detto che le due sorelle Spanò eran morte di peste. Ma al Fucetola, uomo espertissimo, prevalse il volgo degli altri medici; e mentre il tremendo morbo si dilatava irresistibilmente, facevasi intendere agl’infelici abitanti che stessero di buon animo, mentre alla comune salute veglierebbe oculatissimo il pubblico Magistrato.

In questo, giunsero in Reggio dieci bastimenti procidani carichi di grasce di ogni fatta, con ordine che dalle regie galeotte fossero accompagnati sotto la cittadella di Messina, coll’assistenza di due Canonici della Metropolitana, e del governatore. Il che dopo tre giorni si eseguì, e la roba fu sbarcata nel luogo detto Punta Secca. Ma il Comandante della cittadella e gli uffiziali della piazza di Messina dolorosamente risposero, i Messinesi e le milizie non aver più bisogno di quelle provvigioni; poichè di cinquantamila abitanti, orribile a dirsi! non erano ivi rimasti in vita che cinquemila; e di quattro battaglioni di soldati, raggranellando i superstiti, non se ne poteva formare che mezzo! Sicchè quelle grasce restarono in gran parte, e per più tempo, nel luogo dello sbarco; ed andava servendosene la poca milizia, ch’era nella cittadella.

Frat’Orazio Griso, il quale, come sopra dicemmo, favoriva il traffico delle merci, che da Villa S. Giovanni s’introducevano di soppiatto nella casa di Paolo Spanò, s’infermò anch’egli a’ dieci di luglio, e vinto dal rimorso di aver tanto contribuito a portar la pestilenza nella patria sua, gridava che nissuno gli si appressasse, perchè egli era appestato. Ed in vero a capo di cinque giorni miseramente morì; e chi il tenne per matto, e chi cominciò a temere di quel che veramente era. Il Preside Francesco Carfora vedendo aggravarsi le cose, pensò di partirsi da Reggio, e se ne andò a Catanzaro, dove, essendo già precorse le notizie della peste fra noi, penò ad esser ricevuto. A sedici di luglio morì anche in brev’ora una donna ch’era stata a far visita alla Spanò inferma. Allora il cavalier Felice Laboccetta, a cui il Preside partendo aveva lasciato pieni poteri, ordinò subito che fosse incordonata la casa della defunta, conformemente al consiglio del medico Fucetola. Ma i sindaci e parecchi altri osservavano che con tale cautela, inopportuna e precoce, veniva a sgo[p. 67 modifica]mentarsi il paese. Aspettassesi, dicevano, il conte Maony Vicario generale, il quale fra breve con molta truppa sarebbe venuto da Napoli a disporre quanto occorresse. Ma il Laboccetta tenne fermo, e disse che per la comune salute era suo debito prestar fede al Fucetola, le cui relazioni erano corroborate dalle importanti confidenze fattegli nel tempo medesimo da Paolo Spanò.

VIII. Intanto il morbo si attaccava violento alle case attigue a quella dello Spanò, e molti vi cadevano infermi, ed inevitabilmente perivano l’un dopo l’altro. Allora non ebbe più a dubitarsi del male; il giorno diciassettesimo fu dichiarata la peste, e tutto il borgo fuori porta Mesa bisognò che fosse incordonato. Ma essendosi tale operazione differita al seguente giorno, quella gente che quivi abitava, temendo non la sua roba venisse arsa, pigliò il tempo di trasportarla dentro della città nelle case di amici e parenti. Fu fatto il cordone a quel borgo, ma era già troppo tardi; chè colle robe di que’ della Mesa il male si era traforato per ogni verso nella città, nè forza umana poteva più valere a cansarlo. Sentendo incordonato il borgo della Mesa, tutti i cittadini, massime i negozianti, artigiani e bottegai si chiusero spaventati nelle loro case; ma i sindaci ed il governatore, a cui Dio aveva tolto il senno, volendo acchetare il pubblico terrore ordinarono che ognuno, pena il carcere e la confisca della roba, dovesse riaprir subito la propria bottega. Ciò contribuì moltissimo a diffondere la pestilenza: tutto fu allora confusione e spavento; a tutti in quell’istante si offerse in mente lo spettacolo della bella e popolosa Messina, divenuta vasto sepolcro. Gran copia di cittadini, e specialmente i possidenti, fuggivano dalla città; e fu mestieri dar bando che non potesse uscirne persona; e che chiunque se n’era assentato dovesse, sotto la predetta comminatoria, rientrarvi fra otto giorni. A’ contumaci fu intimata un’ammenda di quattromila ducati; fu murata la porta della Mesa, le altre chiuse. Due Deputazioni furono costituite sulla pubblica salute, ed eletti a comporlo i più influenti ed operosi cittadini; l’una delle quali si domandò Deputazione de’ Rioni, o minore, perchè ad ogni rione fu addetto un Deputato che avesse occhio a tutto, e riferisse dì per dì il bisognevole al magistrato regio e municipale, ed alla Deputazione maggiore. Questa fu così chiamata, perchè dovea soprintendere alla salute pubblica di tutto il Comune, e del Distretto. Erano della maggiore Giuseppe Genoese, Felice Laboccetta, Gaetano Musitano e Paolo Cumbo. Ma ciò era niente; la gente atterrita fuggiva a fiaccacollo arrampicandosi sulle mura della città, dove queste, basse e rovinevoli, davano luogo alla fuga. Que’ momenti terribili anzi che de[p. 68 modifica]scriversi, possono da ciascuno immaginarsi. L’Arcivescovo proibì che le chiese restassero aperte, ed ingiunse che si formassero altari sulle vie pubbliche, acciocchè ognuno dalla propria casa potesse udir messa. Stando così le cose, il Governatore non sapeva a qual partito appigliarsi, nè vedeva qual rimedio potesse più efficacemente mitigare la pubblica calamità. Elesse a Deputati uomini de’ più riguardevoli e virtuosi, per vegghiare a lor potere su tutto e su tutti; e pose un lazzaretto per la gente infetta.

In questo mezzo il Vicario generale Maony, ch’era ormai giunto con due mila uomini a Scilla, sentendo infierir la peste in Reggio, dispose alacremente che fosse formato un rigoroso cordone da Scilla a Fiumara, Calanna, Cerasi, Cardeto, scendendo alla marina della Motta per la contrada di Martino. Aveva altresì messo ad ordine uno strettissimo cordone da Squillace a Sant’Eufemia, fatto di fossati e di palafitte, e custodito con tal diligenza, che nessuno potesse uscirne. Così Reggio restò al tutto segregata da ogni commercio e comunicazione cogli altri paesi. Dopo ciò il Maony fece bando: che niuno, pena la vita, potesse uscir di Reggio, nè per mare nè per terra; che tutte le barche pescherecce e di piccolo traffico fossero tolte da riva, ed internate in un punto guardato della città: che uno stretto cordone, facendo capo dalla chiesa della Cattolica segregasse la parte settentrionale della città dalla meridionale. Al lazzaretto degli appestati furono destinate le case di Paolo Marrari dietro il Trabocchetto; a quello de’ sospetti di peste furono acconce alcune case nelle più prossime campagne. E senza pensar più oltre in quel subito, nè a provveder di viveri que’ locali, nè di un medico nè di un farmacista, nè di un sacerdote, si ordinò a precipizio che gl’infermi ed i sospetti fossero avviati al luogo loro stabilito. Ma a quegl’infelici, fulminati dal morbo, ed abbandonati dagli uomini, soccorsero a tempo due pietosi Cappuccini Padre Paolo Moschella da Reggio, e Fra Mansueto da Mosòrrifa; i quali accesi di zelo ardentissimo e di carità cristiana, consecrarono la loro vita a prò di que’ pazienti. E si chiusero volentieri nel lazzaretto, e sollevando le altrui sofferenze co’ conforti che porge a dovizia la pietà evangelica, prestavano ogni loro cura, e spirituale e corporale, agl’ infermi; de’ quali già moltissimi eran trapassati di stento, e senza poter sentire la consolatrice parola de’ ministri del Signore. Incoraggiati dal costoro esempio due Padri Riformati, Pietro da Santagata, ed Antonio da Siderno, entrarono nella parte incordonata della città dalla chiesa della Cattolica a porta Mesa, per assistere que’ poveri ammalati e moribondi, cui i Parrochi ed i Sacerdoti, dimentichi dell’altissimo loro [p. 69 modifica]ministero, e solo intesi a salvar la loro vita, avevano lasciati nello sconforto e nella derelizione. Ed il morbo orribilmente imperversava; e deserte erano tutte le vie della città; ed era divenuta necropoli la bellissima Reggio. In mezzo al profondo silenzio della morte non altro ti feriva l’orecchio che il cigolar delle carrette, che trasportavano i cadaveri al cimitero.

IX. Faceva orrore a vedersi che quanto più era divenuta deserta la città, tanto si popolassero i lazzaretti di appestati e di sospetti d’infezione; i quali ultimi spessissimo non essendo infetti, ma sani, o poco cagionevoli di altro malore ordinario, venivano ad ammorbarsi per l’altrui contagio. Intanto la sublime pietà de’ due Cappuccini sopralodati, non più che pochi giorni potè essere utile all’umanità, poichè per dar vita altrui perdevano la propria; ma conseguivano premio immortale, e memoria eterna e non dimenticabile. Ed il loro nome, venuto a’ posteri benedetto, insegnerà sempre al vero cristiano, che la religione di Cristo non sta nelle ipocrite ed umili parole, e nelle estrinseche forme, ma sì nella continua pratica delle pietose opere, e de’ santissimi ammaestramenti di Lui.

Dopo la costoro morte, altri due Cappuccini vennero al servigio degl’infermi nel lazzaretto, uno de’ quali era il Padre Francesco da Siderno. Costui vedendo quanto miseramente ivi stessero disagiati que’ disgraziati, e come il locale del lazzaretto fosse mal rispondente al bisogno, propose alla Deputazione maggiore che se ne scegliesse uno più appropriato: e che i cadaveri in vece di esser arsi alla rinfusa, come sino allora si era fatto, si mettessero in fossati profondi e murati. Il comandante della piazza comprese quanto fosse ragionevole e salutifera la proposta del cappuccino, e suggerì di scegliersi un luogo eminente dietro la chiesa del S. Salvatore, dove si costrussero due capaci baracconi, uno per le femine, l’altro pe’ maschi. E per sotterrare i morti furon fatte delle fosse murate, e scavate quelle che si trovavano già fatte nelle pestilenze anteriori dietro il Trabocchetto, ed il Castello.

Il morbo continuava fierissimo, senza speranza di posa; e la popolazione reggina pregava a caldi occhi la Vergine della Consolazione, che non guardando i peccati degli uomini, soccorresse alle loro presenti calamità, implorando da Dio tregua a’ flagelli. E le nobili signore nel primo sabato di agosto, uno dei sette che soglionsi celebrare in onore della Madonna, fecero voto che per anni dieci non dovessero andar vestite di altri abiti che di lutto, lasciar dovessero tutte le profane gale, tutte le pompe superbe, tutte le vanità della vita. Ed a conferma di tal voto portarono i più ricchi guardinfanti [p. 70 modifica]loro sulla pubblica piazza del Toccogrande, ed alla presenza di molti ecclesiastici e laici, vi posero il fuoco. Spinse a questo atto il patrizio Antonio Sirti, che poi morì di peste colla moglie e con un figlio. Sull’esempio delle signore, altri cittadini di ogni grado correvano a gara a far pie oblazioni di ori, di argenti, di abiti preziosi, e di altre ricche suppellettili all’effigie della Vergine Consolatrice. Ed altri cappuccini si porsero pietosi a’ bisogni di tanti infelici che languivano ne’ lazzaretti. Fra i quali i più ardenti ed assidui furono il Padre Lodovico Comi da Sambatello, e Fra Pacifico da Ortì, che compirono col sacrifizio della propria vita il nobilissimo uffizio, a cui Dio li aveva chiamati. Il male risparmiò solamente Fra Giuseppe e Fra Felice da Ortì, e l’istancabile Padre Francesco da Siderno, i quali, guaritisi della contratta infezione, durarono sino alla fine al servigio degl’infermi.

L’Arcivescovo, quantunque durante l’epidemia non fosse più uscito del suo palagio, nondimeno non trascurò mai di dispensare il vitto, e tutto il suo a’ poveri; e pignorando il proprio argento, soccorse a’ tormenti della fame. La quale, pe’ rotti traffichi sì esterni che interni, aveva ridotto alla disperazione gran parte di coloro, che o il male non aveva tocchi, o se n’erano guariti.