Storia delle scienze agrarie/I/Prefazione
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Prefazione alla 1a edizione
Come è noto, esistono parecchi studi sullo sviluppo dell’agricoltura in Occidente, dall’antichità ai nostri giorni. Ma il volume di Antonio Saltini si differenzia da essi perché non è propriamente, e non vuole essere, una storia dell’agricoltura, bensì una storia dell’agronomia, ove con questo termine si intenda il complesso delle scienze agrarie. Ne segue che, pur attribuendo un notevole peso all’esame delle varie tecniche adoperate, nel corso dei secoli, per lavorare la terra, il volume non si incentra su di esse, ma su quella che il nostro autore chiama “la filosofia agronomica”, cioè sulle concezioni generali che guidarono di epoca in epoca l’attività dei coltivatori, e quindi sulle “coordinate conoscitive, economiche e sociali” da cui tale attività risultò condizionata.
Dopo un rapidissimo cenno alle radici del pensiero agronomico nella poesia, Saltini delinea con chiarezza i problemi fondamentali che si presentarono agli antichi studiosi greci e romani, quando cominciarono a riflettere seriamente sopra un’attività -la coltivazione della terra, appunto, e l’allevamento del bestiame- che si era venuta sviluppando in modo pressoché spontaneo e costituiva ormai da tempo la base delle società più civili dell’epoca. Il quadro che ne ricava -in particolare quello dell’arco ascendente della scienza agronomica romana da Catone a Columella e del suo arco discendente da Columella ai secoli successivi- è davvero illuminante, pur nella sua brevità. Già da esso emerge uno dei pregi più tipici di tutto il volume: quello di riuscire ad enucleare le linee generali di un’intera fase dell’agronomia, partendo dall’esame particolareggiato degli scritti di alcuni autori di tale periodo. Si potrà talvolta discutere se è giusto il peso attribuito a questo o quell’autore, ma non si può negare che Saltini sappia caratterizzare con intelligenza l’opera di ciascuno di essi, inquadrandola nella cultura generale del secolo a cui appartengono.
Ciò vale ad esempio per l’appassionato agronomo oltreché erudito umanista Gabriello Alfonso de Herrera, vissuto tra il XV e XVI secolo; e vale pure per i due naturalisti, di poco posteriori, Agostino Gallo (vero continuatore di Columella) e Oliviero di Serres, signore di Pradel, le opere dei quali confermano la tesi - ormai condivisa da parecchi studiosi- che il Rinascimento fu un’epoca straordinariamente feconda non solo per le arti ma anche per la scienza e la tecnica; e vale a maggior ragione per gli autori - come l’inglese Richard Weston, che seppero trasferire nel quadro delle ricerche agronomiche le istanze innovatrici di Bacone e di Galileo.
Nella premessa del volume leggiamo: «Se è sempre identificabile nelle tappe del pensiero agrario la matrice culturale dei grandi periodi della civiltà occidentale..., pure è dato percepire, nelle opere di agronomia composte nelle varie epoche, l’autonomia del procedere delle scienze agrarie rispetto alla vita delle altre scienze, delle discipline umane, delle lettere». Questo brano pone in luce uno dei più ardui problemi di fronte a cui si è trovato Saltini: quello di determinare i termini dell’anzidetta autonomia pur nell’innegabile parallelismo fra le scienze agrarie e la loro matrice culturale. Il lettore non avrà. difficoltà a constatare che egli ha saputo risolverlo in modo assai soddisfacente, per esempio quando ha caratterizzato la specificità con cui si presenta, nelle scienze agrarie, la tradizionale questione dei nessi fra sistemazione teorica e scrupolosa osservazione dei fenomeni, oppure si è fermato ad illustrare l’importanza, anche per l’agronomia, della nascita del lessico scientifico «frutto dell’impegno filologico di naturalisti-umanisti, che proprio grazie alla complessità del proprio bagaglio culturale offrirono a quanti li hanno seguiti... la condizione preliminare per diffondere la scienza e avviare il processo del suo progredire».
Faremmo però un grave torto all’autore del nostro volume, se lo ritenessimo così preoccupato di sottolineare l’autonomia dello sviluppo delle scienze agrarie, da non rendersi pienamente conto del peso talvolta determinante che ebbero su tale sviluppo i risultati conseguiti dalla meccanica, dalla chimica, dalla biologia. Basti menzionare l’importanza che egli riconosce apertamente ai progressi realizzati dalla chimica nei primi decenni dell’Ottocento; aggiungeremo che arriva a considerare il chimico Justus Liebig come uno dei massimi protagonisti di quella «rivoluzione copernicana» che le scienze agrarie subiranno verso la metà di tale secolo. Interessantissime e assai significative sono, a questo proposito, le pagine dedicate all’analisi delle tenaci resistenze che l’anzidetta rivoluzione incontrò presso i sostenitori del mito della «fertilità primigenia» dei terreni (mito da cui deriverebbe l’impossibilità di accrescerne la fecondità con l’uso dei concimi chimici).
Proprio i dibattiti suscitati dal dilemma «agronomia tradizionale/agronomia rinnovata dalla chimica» offrono a Saltini l’occasione di esaminare le contraddizioni della scienza italiana negli anni della formazione dell’unità politica del nostro paese. Anche nelle parti precedenti del volume egli ha sempre mostrato un interesse specifico per gli sviluppi dell’agronomia in Italia, illustrandone con cura sia i progressi sia i ritardi nei confronti del resto dell’Europa occidentale; ma ora, parlando dell’Ottocento, la sua analisi si fa più dettagliata, più puntigliosa, potremmo dire più appassionata. Proprio per questa passione, essa riesce a farci cogliere -assai meglio di tanti discorsi usuali sull’argomento- le effettive difficoltà incontrate dal nostro paese in quella fase cruciale della sua storia.
Gli ultimi capitoli del volume prendono in considerazione le profonde trasformazioni -in atto anche nelle scienze agrarie- dovute alla crescente specializzazione delle ricerche scientifiche.
Purtroppo la comprensibile preoccupazione di non oltrepassare certi limiti di spazio, ha impedito al nostro autore di affrontare anche questo tema con la medesima ampiezza dei precedenti. Il suo esame è comunque sufficiente, proprio perché è basato sull’accurato quadro storico che lo precede, a fornire all’agronomo di oggi un prezioso strumento per orientarsi nell’intricato campo di ricerche in cui si trova ad operare. Vorrei dire, però, che il volume di Saltini è forse ancora più utile per il filosofo che non per lo scienziato militante. Esso ci dimostra infatti l’esistenza, in ogni epoca della storia e quindi anche nella nostra, di un «pensiero agronomico» la cui importanza non può venire sottovalutata.
Anche la migliore storiografia ha purtroppo il difetto di lasciare in ombra questo lato del pensiero scientifico, che sembra possedere -almeno a un primo esame- minore incisività di quelli connessi alle grandi svolte delle cosiddette scienze fondamentali. C’è da augurarsi che l’intelligente sintesi storica operata da Saltini valga a farci riflettere sui pericoli di una accettazione passiva di questo stato di cose, e stimoli i futuri storici e filosofi della scienza a cercar di colmare l’insidiosa lacuna.
Milano, novembre 1978 Ludovico Geymonat