Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo III/Prefazione
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PREFAZIONE
Quanto più ci allontaniamo da’ lieti tempi della romana repubblica, e quanto più c’inoltriamo nelle vicende della nostra infelice Italia, tanto più sterile e più spiacevole argomenti di ragionare ci somministra l’italiana letteratura. Molti secoli noi dobbiamo trascorrere in questo tomo; e dobbiamo trascorrerli senza mai incontrarci in oggetto della cui vista possiam chiamarci pienamente contenti. Uomini d’abito, di legge, di lingua, di costumi diversi, ma quasi tutti barbari e incolti, Goti, Longobardi, Franchi, Tedeschi, Saracini, Normanni, innondan da ogni parte l’Italia, se ne contendon tra loro, o se ne dividon l’impero, e la riempiono in ogni parte di desolazione e di orrore. Le arti e le scienze in mezzo a sì fiero sconvolgimento costrette sono o a nascondersi, o a fuggirsene altrove, e se pur osan mostrarsi, convien loro prendere abito e portamento straniero, per non offendere lo sguardo degli stranieri signori. Noi dovrem dunque vedere la barbarie e la rozzezza sparsa per ogni dove; e se talvolta ci si offriranno alcuni gran genii che in altri tempi avrebbono gareggiato co’ più dotti e coi più leggiadri scrittori, avremo il dolore di rimirarli far bensì qualche sforzo per sollevare all’antico onore le scienze, ma o soccombere nella troppo ardua impresa, o non ottenere dalle loro fatiche che un tenue e momentaneo frutto. In mezzo a sì incolto e insalvatichito terreno io debbo ora aggirarmi, e spero che ognuno comprenderà facilmente quanto di noia debba io sentire nel correrlo. Questo mi giovi almeno per ottenere compatimento da’ cortesi ed eruditi lettori, se in mezzo a sì gran buio mi vedranno sonnecchiare talvolta, ed anche inciampare. È egli possibile il non sentirsi fra tenebre così folte venir meno le forze e il coraggio?
Prima però d’innoltrarmi, mi è sembrato opportuno di trattar qui brevemente del danno che dalle invasioni dei Barbari soffrì la lingua latina, e del sorgere che VI PREFAZIONE quindi fece la nostra italiana. Dissi di trattar brevemente; perciocchè io confesso che a cotali ricerche di origini , di etimologie, di derivazioni, io ho una certa , comunque voglia appellarsi, o pregiudicata, o naturale avversione, che non ho mai potuto ottenere da me medesimo di farne un serio e attento studio. E inoltre su questo argomento si è già disputato da tanti illustri scrittori , che appena rimane luogo a parlarne senza ripetere inutilmente ciò ch’essi han detto, Io penso però, che il non essersi determinato colla chiarezza e precisione dovuta lo stato della quistione, abbia introdotte inutili e lunghe contese su un punto , su cui forse non si sarebbe altrimenti disputato giammai, e su cui non mi sembra che si possa disputar molto. Rechiam prima le diverse opinioni, e veggiam poscia se ci riesca di unire in pace i loro sostenitori. Leonardo Bruni saprannomato l’Aretino, erudito e colto scrittore del XV secolo, pensò e lusingossi di dimostrare che la lingua italiana sia antica al pari della latina, e che amendue il tempo medesimo fossero usate in Roma , la prima.dal rozzo popolo e ne’ famigliari ragionamenti, la secondi dai dotti scrivendo e parlando nelle pubbliche assemblee (l. 6 , ep. 10). Il cardinale Bembo introdusse egli pure nelle sue Prose (l. 1.) mess. Ercole Strozza a sostener tal opinione, la quale ancora è stata più recentemente dal Quadrio abbracciata e difesa (Stor, della Poes.t. I. i,p. 41). Or se essi con ciò pensano di persuaderci che la lingua italiana, qual l’usiamo al presente, o non guari diversa, si usasse ancor da’ Romani, parmi impossibile ch’essi non si avveggano della frivolezza delle ragioni che arrecano a provare il lor sentimento. In Plauto e in Terenzio , dicono essi , troviamo alcuni modi di dire, e alcune parole che si accostan molto al parlare italiano , e che non veggonsi mai usate dagli altri scrittori latini. Dunque il parlar popolare, a cui s’accosta quel di Terenzio e di Plauto, era italiano, Se questa sia una legittima conseguenza, lascio che ogni uom di senno il decida per se medesimo. A. me sembra che dallo stile usato da que’ due scrittori altro non si ricavi, se non che il popol di Roma era qual è anche al presente qualunque popol del mondo, cioè che nel parlar famigliare si usavan da esso parole, frasi, desinenze, troncamenti ed altri, dirò così, diversi accidenti che nello scrivere non si usavano; e che appunto perché essi erano usati nel parlar famigliare, si mantennero durevolmente, e si propagarono fino a noi.
Ma aggiungono essi, nelle scuole romane insegnavasi la lingua latina, come or s’insegna tra noi. Dunque ella non era la lingua usata dal volgo. Sì certo; la lingua latina elegante, colta, vezzosa non si usava dal popolo, come non si usa dal popol tra noi l’elegante lingua italiana. E come tra noi nelle scuole ben regolate, oltre il latino, s’istruiscono i fanciulli nel colto toscano, così i Romani, oltre la lingua greca, erano ammaestrati nell’eleganze della latina; e come tra noi, benché la lingua italiana sia a tutti comune, pochi nondimeno scrivono in essa con eleganza, non altrimenti avveniva ancor tra’ Romani, che non molti erano i colti e graziosi scrittori. Io non voglio qui trattenermi a esaminare le altre ragioni che da’ sostenitori di questa opinione si allegano in lor favore. Ognun può vederle ne’ loro libri; e se ciascheduna di esse, o tutte insieme han forza a dimostrare altro che ciò ch’io ho detto poc’anzi, cioè che il parlar del volgo in Roma e in tutta l’Italia era più rozzo che il parlare e lo scriver de’ dotti, come appunto il parlar del volgo in Italia e in ogni altro paese del mondo è più rozzo del parlare e dello scriver de’ dotti, io cederò volentieri, e confesserò di essere stato in errore.
Un’altra non meno nuova opinione sull’origine della lingua italiana è stata proposta dal march. Maffei. Questo grand’uomo ha scoperti e combattuti felicemente molti popolari errori in ciò che appartiene ad antichità e a storia, che sembravano dalla perpetua tradizione comunicarsi dall’una all’altra età, e gittare sempre più ferma radice non sol tra ’l volgo, ma ancor tra’ dotti. Ma sembra che da questo suo lodevol costume di farsi incontro a’ pregiudizi degli uomini, quando non fosser conformi o alla retta ragione, o a una valida autorità, egli si sia talvolta lasciato condur tropp’oltre, e che in qualche occasione troppo facilmente abbia gridato all’errore. Alcune pruove avremo a recarne in questa parte di Storia a cui or ci accingiamo. Fra queste parmi che debba aver luogo ciò ch’egli ha scritto intorno all’origine della nostra lingua. VII! PREFAZIONE Egli rigetta a ragione il sentimento da noi confutato poc’anzi, poiché , dice (Ver. illustr. par. 1, l. 11).• non bisogna dar nelle estremità in cui , come si vede nel principio delle Prose del Bembo , si diede per alcuni altre volte, cioè di dire che l’italiana favella fosse già fin dal tempo de’ Romani; perchè que’ volgarismi non bastavano a formare una lingua , nè a renderla tale, che potesse usarsi dagli scrittori. Ma egli ciò non ostante non vuol sentire la comune opinione. Comunissima dottrina è, dic’egli, che se ne debba l’origine a’ Barbari, e che nascesse dal mescolamento della lingua loro colla latina. Con tutto ciò indubitato a noi sembra che niuna parte avessero nel formare l’italian linguaggio nè i Longobardi nè i Goti, e ch’esso da così fatto accoppiamento non derivasse altramente. Ma da che dunque , diranno , prosiegue egli dopo altre cose, provenne la trasformazione della lingua latina nella volgare? Provenne dall’abbandonar del tutto nel favellare la latina nobile, gramaticale e corretta, e dal porre in uso generalmente la plebea, scorretta e mal pronunziata. Quindi quasi ogni parola alterandosi, e diversi modi prendendo, nuova lingua venne in progresso di tempo a formarsi. Nè si creda che da’ Barbari recata fosse così fatta scorrezione e falsa pronunzia, sì perchè abbiam già veduto come del tutto opposto se ne sarebbe per essi indotto il cambiamento, e sì perchè molto prima de’ Barbari era già tutto questo in Italia , come faremo ora in pochi versi conoscere. Prende egli quindi a mostrare che prima delle invasioni de’ barbari erano nella lingua latina parole ed espressioni che noi crederemmo introdotte da’ barbari. Ma da quali autori le trae egli? La maggior parte da Cassiodoro, da Gellio, da Servio, da S. Girolamo, da S. Gaudenzio, da S. Zenone, cioè da autori che vissero quando la lingua latina era già decaduta dall7 antica sua purezza. Che se ve ne ha alcuni altri più antichi, come Plauto e Terenzio, ciò pruova solo che nel parlar popolare erano in uso alcune voci che dalle più colte persone non si usavano. Or io non comprendo come un uomo di sottile discernimento , qual era il march. Maffei, non abbia avvertito che i passi da lui addotti pruovan contro di lui. Non fu egli forse fin da’ tempi d’Augusto, e molto PREFAZIONE IX più sotto i seguenti imperadori, che Roma e l’Italia cominciò ad essere innondata, se non vuol dirsi da Barbari, almen da stranieri? Quanti oratori, poeti, storici venuti di Francia e di Spagna abbiam noi trovati in Roma sotto i primi Cesari? Molto più crebbe il numero degli stranieri, dappoichè cominciarono a sedere sul trono stranieri imperadori, come si spesso avvenne dopo la morte di Domiziano fino alla caduta dell’impero occidentale. Una cognizione mediocre della storia romana basta a persuadercene. Qual maraviglia dunque se, essendo Roma e l’Italia piena di nuovi abitanti di patria e d’idioma diversi, venisse la lingua latina corrompendosi a lenti passi, e facendosi rozza ed incolta?. Il march. Maffei dice che questo corrompimento venne dall’abbandonarsi il parlar colto ed elegante, e dall’introdursi il popolar grossolano. Ma ci dica egli di grazia onde ciò appunto avvenisse. Per molti secoli la lingua latina avea successivamente acquistate nuove grazie e bellezze, sino a giungere a quella perfezione che ottenne a’ tempi di Cesare e di Augusto. Perchè mai decadde ella poscia? Perchè quelli ch’ei chiama popolari idiotismi , s’introdussero ancora tra le persone colte e ne’ libri? Gli storici, gli oratori, i poeti del secondo secolo e de’ susseguenti scrivevan pure nella più pulita maniera che fosse loro possibile -, e se fosse stato lor detto che introducevano ne’ loro libri il rozzo parlar del volgo, essi avrebbon creduto di ricevere oltraggio. Perchè dunque ciò non ostante il loro stile è si diverso da quello de’ più antichi scrittori? Perchè si veggono nelle lor opere voci ed espressioni che agli antichi erano sconosciute? Perchè , volendo essi pure essere colti ed eleganti scrittori , son nondimeno scrittori rozzi ed incolti? Di ciò già si è favellato nella Dissertazione premessa al secondo tomo di questa Storia. Il gran numero di stranieri ch’era in Roma, ne fu, a mio parere, la sola e vera ragione. Questi non potevano ivi usare del natio loro linguaggio, che non era inteso. Conveniva dunque che usassero del latino. Ma ben possiamo immaginarci qual fosse il loro latino: e quante barbare voci essi vi frammischiassero, paghi di dare ad esse suono e desinenza latina. Queste voci e queste espressioni di nuovo conio passavano ancora nella vicendevole conversazione X PREFAZIONE dagli stranieri a’ Romani; e questi non sol ne usavano ragionando , ma quasi loro malgrado le inserivano ancora ne’ loro libri. Veggasi ciò che detto ne abbiamo nella sopraccennata Dissertazione, esaminando la difficil quistione onde sia avvenuto che per tanti secoli appena vi sia stato colto scrittor latino. Molto più dovette ciò avvenire quando i Goti, e poscia i Longobardi, invaser l’Italia, il march. Maffei per confermare il suo sentimento, che nè le arti nè la lingua non soffrì danno da’ Barbari, si è sforzato di persuaderci che scarso fosse il lor numero, e in niun modo bastevole a operare sì gran cambiamento. Ma su questo punto il Muratori lo ha confutato, a mio parere, con evidenza, mostrando, colla testimonianza degli antichi scrittori, che grandissimo fu il numero de’: Goti e de’ Longobardi che innondaron l’Italia , e noi pur qualche cosa ne dovrem dire parlando del dicadimento delle arti al tempo de’ Goti. Or poichè questi popoli a guisa di rovinoso torrente si sparsero nella più parte delle nostre provincie , possiam noi dubitare che gran cambiamento perciò non avvenisse nella lingua latina? A me sembra tal cosa non sol sì probabile, ma sì necessaria a seguire, che non so intendere come ne possa nascere dubbio. Ma le lingue de’ popoli che invaser l’Italia, dice il march. Maffei, erano aspre e di difficil pronuncia, piene di consonanti, e appena mai finivano le parole con una vocale. La lingua italiana al contrario è lingua dolce e soave, in cui molte son le vocali, colle quali quasi sempre ella termina le sue parole. Dunque non potè una lingua si dolce nascer da così barbare madri. Io non dubito punto che se avesser dovuto gli stessi stranieri formare una nuova lingua, essi l’avrebbono, per così dire, acconciata al loro dosso. Ma gl’italiani serbarono il loro antico idioma , benchè il conversare coi Barbari li conducesse a usare essi pure talvolta delle lor voci e delle loro espressioni. Essi ne usavano , ma procuravano insieme di ridurle alla dolcezza della desinenza latina. E i Barbari stessi volendo adattarsi al linguaggio de’ popoli fra cui viveano , si sforzavano di spogliarsi della natia rozzezza del loro idioma, e di conformarsi, quanto più era loro possibile, alla soavità del PREFAZIONE XI parlare usato in Italia (1). Qual maraviglia che ne nascesse quindi una lingua che, in mezzo a molte voci e a molte maniere di dire prese da’ Barbari, ritenesse ciò non ostante in gran parte la dolcezza e I’ armonia della lingua latina? Per ciò poi che appartiene al terminar di ogni parola con qualche vocale, che è proprio della lingua italiana , se al march. Maffei non sembra difficile che essa si sia potuta formare dalla latina , ove pure moltissime son le parole che terminano con consonante , non deegli sembrare strano chJ essa abbia potuto prender l5 origine ancor da quelle de’ Barbari. Sembra adunque che debba ancor ritenersi la, più antica e la più comune opinione, cioè che la lingua italiana sia nata dal corrompersi che fè la latina per le invasioni de’ Barbari e degli stranieri che innondaron l’Italia. Nondimeno questa opinione ancora soffre una non lieve difficoltà, a cui non so se da alcuno siasi posta mente. Se la lingua italiana è nata dal corrompimento della latina, converrà dire che questa sia venuta a poco (*) Opportunissimo a questo proposito è il passo «li Cicerone prodotto dal sig. Laudi nelle sue note al Compendi/) francese della mia Storia (l. □, p. 3^9, ec.) ove quel grand’uomo ridette clic dagli stranieri stabilitisi in Atene c in Roma orasi cominciata a corrompere la lingua greca non meno clic la latina: Millo C. Laeliitm , P. Scipionem: actalis illius ista futi laus, tamquam innocentiae, sic Ialine loqutndi.... Sed Itane rem deteriorem vetustas feeit et Homae, et in Oreria: conjluxerunt eni/n et Alhcnas et in itane urbcm multi inquinate loqutnles ex diversis locis: quo magis expurgandus est sermo {De Claris Orai. n. 74 V Aggiugne poscia il suddetto compendiatore, clic ove io ho asserito che i Siciliani, i quali furono i più antichi tra’ poeti italiani, amavano di terminar le parole rolla vocale, ho forse forcata la vera origine di quella generai desinenza in vocale che ha la lingua italiana, perciocché c facile che dalla Sicilia, ove ri dice (ma non so con qual fondamento) che Un da1 tempi in cui vi si parlava il greco secondo il dialetto dorico , quel popolo amava assai le vocali, si propagasse questo costume in Italia. Ma parmi che converrebbe recare sicure pruove di questo amore antichissimo de’ Siciliani per le vocali. Finalmente egli produce alcune riflessioni comunicategli da M. Castillon, che però protesta di non aver letta la Verona illustrata del march. Maffei, colle quali egli erede che si possa conciliare la mia opinione con quella del dottissimo scrittor veronese. Ma chi esamina attentamente ciò che questi ha scritto, vedrà che troppo è difficile una tale conciliazione. XII PREFAZIONE a poco degenerando talmente dalla sua antica purezza f e insalvatichendosi, per così dire, in tal modo, ch’ella siasi finalmente trovata una lingua quasi interamente diversa , come appunto quasi interamente diversa è l’italiana dalla latina. Or chieggo io , quando è mai che un tal cambiamento è seguito? A qual tempo la lingua latina è divenuta lingua italiana? Se ne suole fissar l’epoca comunemente nel XII secolo; e noi ancora a suo luogo ci atterremo a questo parere.!Ma allora, chieggo io di nuovo, era la lingua latina guasta e contraffatta per modo, che si possa credere avvenuto un tal cambiamento? Leggo le Opere scritte a quel secolo di S. Anselmo. di Pier Lombardo, di Graziano, e di tanti altri scrittori italiani, e io le trovo ben lungi , è vero, dall’antica eleganza; ma insieme troppo ancora lontane dal potersi dir la lor lingua non più latina , ma italiana. Anzi il loro stile è certamente più colto che non quello degli scrittori di tre o di quattro secoli addietro. Come potè dunque allora accadere un tal cambiamento? E perchè anzi non accadde esso assai prima, quando lo stil che si usava latinamente scrivendo , era tanto più incolto? Questa difficoltà ci apre, s’io mal in’appongo m’appongo la via a scoprire il vero in questa intralciata quistione , coll’osservare più attentamente in qual maniera seguisse il corrompimento della lingua latina, e col distinguere la diversa maniera con cui ella si venne alterando nello scrivere e nel parlare. Riprendiamo la cosa da’ suoi principj!, e spieghiamola , quanto più ci è possibile , chiaramente. Già abbiamo accennato che qualche diversità era ancor tra’ Romani tra lo scriver de’ dotti e il parlare del volgo. Il volere tra loro introdurre, come alcuni han fatto, due lingue diverse, sicchè la latina non s’intendesse , se non da chi apprendevala nelle scuole, è opinione troppo priva di ragionevole fondamento. Ma troppo insieme contraria alla comune sperienza e all’indole popolare sarebbe l’opinione di chi credesse che fosse interamente la stessa lingua che usavasi singolarmente scrivendo da Cesare e da Cicerone, e quella con cui parlavano i lor cuochi e i loro cocchieri. Non credo che faccia d’uopo di lungo ragionamento a persuaderlo. Tra gli scrittori ancora del medesimo tempo reggiamo PREFAZIONE XIII stile diverso, più colto, più soave, più ricercato in alcuni, più rozzo e più trascurato in altri. Or se da alcuni scriveasi men coltamente che non da altri, quanto più incoltamente avrà favellato il popolo ne’ famigliari ragionamenti? Plauto e Terenzio, che pur sono eleganti e tersi scrittori, usan però di uno stile che non sarebbe piaciuto a’ Romani in un Virgilio, in un Orazio, o in altri scrittori di epica e di lirica poesia. Il popolo ama comunemente voci e maniere di dire , da cui un colto scrittore si tien lontano; or aggiugne, or toglie lettere alle sillabe e alle parole, usa articoli, segnacasi, avverbii, preposizioni, che dalle leggi di buona lingua si vietano severamente. Ciò che avvien nelle lingue che or si parlano in Europa, ci può far conoscere ciò che avvenir dovea tra’ Romani. Or ciò presupposto, che dobbiam noi intendere, quando udiam dire che il miscuglio degli stranieri e l’innondazione de’ Barbari guastò e corruppe la lingua latina? Noi veggiamo divenir rozzo lo stile degli scrittori; e come non possiamo giudicar dello stato della lingua latina, che dalle Opere loro, così di esse intendiamo comunemente di favellare, quando diciamo che quella lingua da’ Barbari sofferse danno. E il sofferse certamente non piccolo. Ma esso nondimeno fu assai maggiore nel parlar popolare, che nello stile dei dotti. Questi aveano pur finalmente innanzi agli occhi le Opere de’ buoni scrittori , su cui poteano formare il loro stile. Il conversare co’ Barbari rendeva , è vero, a lor famigliari le nuove voci, la nuova sintassi, le nuove maniere di dire, che da essi udivano. Ma nondimeno, quando prendevano a scrivere, avean agio a riflettere alla scelta delle parole e delle espressioni. Era quasi impossibile che ne’ loro scritti non entrasse in qualche parte la barbarie e la rozzezza; e perciò veggiamo quanto essi sian diversi da que’ dei secoli precedenti; ma nondimeno, il ripeto, la riflessione e lo studio li teneva lontani dal parlare del tutto barbaramente. Quindi è che finchè non furon rare le copie dei buoni libri esemplari di culto stile , si videro scrittori di qualche eleganza. Quando ne fu più scarso il numero, la rozzezza divenne maggiore; ma scriveasi nondimeno latinamente , perchè i libri non mai mancarono in tutto; e quando sorsero Xiv PREFAZIONE alcuni ch’ebbero ed agio maggiore e più felice ingegno per coltivare gli studj, essi non furono certo eleganti scrittori, ma pure scrissero in un linguaggio che poteasi dire latino. Non così la lingua che si usava dal popolo ragionando. Il popolo non coltivava gli studj, nè leggeva i buoni scrittori. Parlava quella lingua che avea ricevuta da’ suoi maggiori, e che udiva da’ suoi uguali. Finchè Roma e l’Italia non fu abitata che da Romani e da Italiani, la lor lingua non era coltissima, ma pur era lingua veramente latina. Ma dappoichè cominciò ad essere frequentata dagli stranieri , e molto più quando fu innondata da’ Barbari, grande alterazione dovette soffrirne il parlar popolare. Gli stranieri ed i Barbari, come poc’anzi si è detto, non poteano sperare che gl’Italiani volessero apprendere gli strani loro linguaggi; ed eran perciò costretti a usare, come meglio poteano , della lingua latina; ma la usavano come appunto suole avvenire a uno straniero che si avvezza praticamente a parlare in lingua non sua , e che dall’ingegno e dallo studio non ha aiuto ad apprenderla felicemente. Si sforzavano di favellare latinamente; ma nella lingua latina recavano molte delle lor voci e delle loro espressioni; e pareva loro di essere elegantissimi parlatori, quando alle lor parole aggiugnevano in qual si fosse maniera desinenza e armonia latina. I Romani e gli altri popoli italiani, che parlavan la lingua meno elegante, qual si usava dal volgo, vivendo fra tanti stranieri, e parlando e convenendo con loro, non poteano a meno di non contrarre in gran parte la lor barbarie, e di usare essi ancora di quelle parole , di quelle frasi , di quella sintassi , che udivano usarsi da’ loro vicini. Quanto maggior faceasi col volger degli anni il numero degli stranieri che si spargean per l’Italia , tanto più si andava corrompendo la lingua usata dal volgo , tanto più dimenticavansi le latine maniere di dire adoperate già da’ maggiori, tanto maggior copia di parole e di locuzioni estranee si aggiugneva al parlare del popolo; in somma la lingua popolare latina tanto più allontanavasi dall’esser veramente latina , e si veniva formando un quasi interamente nuovo linguaggio. Ed ecco la lingua de’ dotti e la lingua del volgo, In lin"tw d6 ■*‘>rl e *a >>n^ua della conversazione, che prima non eran guari diverse l’una dall’altra, divenute per tal modo dissomiglianti, che più non sono la stessa. I dotti l’imparan da’ libri; e benchè o il poco studio , o la scarsezza dei libri stessi, e l’infezione , per così dire , dell’universale contagio , renda le loro opere comunemente troppo diverse dalle antiche, esse nondimeno si posson in qualche modo dire latine. Il volgo al contrario, che contro il contagio non ha riparo di sorte alcuna , col corso di molti secoli ha fatto nel ragionare sì gran cambiamento, che non si può più dire ch’ei parli latinamente; e se ode alcuno parlare in questo linguaggio, più non l’intende. Esso usa ancora molte parole latine; latina è spesso la desinenza, e la sintassi latina: ma in mezzo a queste scarse reliquie dell’antica sua lingua tante cose nuove si son già introdotte, che quelle vi restano interamente sommerse. Così dall’unione degli stranieri co’ nazionali e dal vicendevol loro commercio si forma un nuovo linguaggio; ma linguaggio assai rozzo e informe, senza determinate leggi, senza esemplari da imitare, e che solo dipende dal capriccio del volgo. Non è dunque a stupire se per molti secoli non si prendesse a scrivere in questa lingua , si perchè non poco spazio di tempo fu necessario a renderla cosi diversa dalla latina, che divenisse allra lingua; si perché essendo ella usata solo dal volgo, non pareva che all’onor de’ dotti si convenisse l’introdurla ne’ libri. Ma si trovò finalmente chi ebbe coraggio a tentarlo, e ardì di adoperare scrivendo un linguaggio cl.e non pareva ancora a tal fine opportuno. E veramente i primi saggi che abbiamo di lingua italiana, ci mostrano quanto ella sapesse ancora di barbaro, e come non avesse ancora del tutto dimenticata l’antica sua madre. Noi non dobbiamo cercar gli esempj della nascente lingua italiana in quegli scrittori che benchè vissuti ne’ primi anni di essa , furono poscia dati alle stampe travisati non poco, e vestiti, per così dire, all’usanza moderna; ma negli antichi codici cercar li dobbiamo, o in quelle edizioni che ai codici stessi sono esattamente conformi. Io ne recherò un solo esempio tratto da alcuni versi di un poeta milanese che pur non fu de’ più antichi, e XVI PREFAZIONE scrivea l’anno 1264, e che da un codice sono stati pubblicati dall’A (gelati (BibL Script, mediol. t. 1, pars 2, p. 129. Como Deo a facto lo Mondo, Et como de terra fo lo homo formo, Cum cl de scende de cel in terra In la vergene regal polzella , Et cum el sostene passion Per nostra grande salvation , Et cum verà el dì del ira La o serà la grande roina , AL peccator darà grameza, Lo justo avrà grande alegreza. Ben e raxon ke V homo intenda De que traira sta legenda. E al fine del codice stesso così si legge: In mille duxento sexanta et quatro Questo Libro si fo facto , Et de JUnio si era lo prumer dì, Quando questo dito se fenì , Et era in secunda diction In un Venerdì abassando lo Sol. Petro de Bersagapè ke era un Fanton Si ha facto sto sermon, Si il compillio et si la scripto Ad honor de Jhu Xpo. Ognun vede qual linguaggio sia questo, quanto ritenga ancor del latino, e quanto insieme se ne discosti. Ed eran già circa cento anni che erasi cominciato a scrivere in cotal lingua, come altrove diremo, e nondimeno ella avea fatto ancora si poco progresso. Per qual ragione andasse si lentamente avanzandosi la lingua italiana, non è difficil l’intenderlo. La stessa lingua latina nelle diverse provincie e nelle diverse città d’Italia parlavasi diversamente. Quindi diverse ancora furono le mutazioni che nel parlar s’introdussero, anche perchè, non avendo esse altra legge che il capriccio del popolo, era impossibile che in tutte le città fosse uniforme e somigliante il linguaggio. Ed ecco in tal modo formarsi i diversi particolari dialetti che veggiamo anche al presente nelle città italiane. Questi eran già così usati fin da’ tempi di Dante, che egli potè trattare di ciascheduno nel suo libro della Volgare Eloquenza [l. i, c. io, ec.), PREFAZIONE XVU e recarne saggi, e confrontarli tra loro. Or finché gl’ 1taliani non si accordarono insieme a ripurgare e ad abbellire la loro lingua, non è maraviglia ch’essa non facesse se non lenti progressi. A perfezionare una lingua convien prima che o si scelga tra’ diversi dialetti qual sia quello che voglia condursi a perfezione, o scegliendo il meglio da tutti, se ne formi una lingua generale e fondata su certi e determinati principj. Dante dopo aver ragionato de’ particolari dialetti delle città italiane, passa a favellare di quello ch’ei chiama comune a tutti gl’italiani (c. 16, ec.), e a cui dà i magnifici nomi d1 illustre, cardinale , aulico e cortigiano. Ma questa lingua sì nobile ove trovavasi! ella mai / Dante, qualunque ragione se n’avesse, non volle farne onore nè a’ Toscani in generale, nè in particolare a’ Fiorentini, de’ quali e del lor dialetto egli anzi parla con sì gran biasimo , che si è creduto da alcuni che.questo libro gli fosse stato falsamente attribuito; di che però non vi ha il presente uom saggio che ardisca pure di dubitare, Io non debbo qui ricercare se in ciò debba credersi a Dante -, nè voglio espormi a pericoli di rinnovar le calde contese che su tale argomento si eccitarono tra’ letterati del secolo XVI. Io riferisco il parere di questo antico scrittore, e lascio che ognun ne giudichi a suo talento. Convien però confessare che Dante, dopo aver biasimato ciascun de’ dialetti italiani, fra’ quali il bolognese è quello che sembri spiacergli meno , parla del suo volgare illustre, cardinale, aulico e cortigiano in maniera alquanto enigmatica e misteriosa; perciocchè ei dice, secondo la traduzione italiana, a cui è interamente conforme I’ originale latino , questo volgare essere quello che in ciascuna città appare, e che in niuna riposa; e poco appresso soggiugne ch’è quello di tutte le città italiane, e non pare che sia di niuna, Parole, delle quali sembra difficile ad intendersi il senso. Conciossiachè , s’è vero, come afferma Dante, che non vi ha città in Italia , in cui non si usi dialetto vizioso , questo suo volgare illustre onde sbucò egli mai, e qual patria ebbe? Dante confessa che di esso hanno usato i poeti d’ogni provincia d’Italia. Questo veramente, die"egli (c. 19), hanno usato gl’illustri dottori che in Ti RAliOSCll 1, Vol. HI. b «Vili PREFAZIONE Italia hanno fatti poemi in lingua volgare , cioè i Siciliani, i Pugliesi, i Toscani, i Romagnuoli, i Lombardi, e quelli della Marca Trivigiana, e della Marca di Ancona, Or come hanno essi potuto cospirare insieme a formar cotesto linguaggio? Ad intendere questo passo di Dante convii n riflettere al modo con cui ogni lingua si vien formando; e a ristrignerci a un esempio particolare , prendiamolo dalla latina I frammenti che ci son rimasti dei più antichi scrittori, ci fan vedere quanto ella fosse a’ lor tempi rozza e disadorna. Essi introducevano ne’ loro scritti i popolari idiotismi; e i loro scritti perciò sono in imo stil pedestre ed incolto. Ma quelli che venner dopo, ben conoscendo quanto vizioso fosse un cotal linguaggio. si dierono ad abbellirlo, ad ornarlo e a raddolcii lo..N uove voci si aggiunsero , si cambiarono le desinenze , si cercò 1’ai-moina , s‘ introdussero vezzi. Plauto e Terenzio superarono Livio e Nevio. Lucrezio si lasciò addietro Ennio. Virgilio e Orazio e gli altri eleganti poeti del secol d’Augusto dierono alla lingua latina l’ultima perfezione. Non altrimenti dovette avvenire dell’italiana. Finchè ella non fu usata che nel parlar famigliare , ogni città ebbe il suo poi titolar dialetto; e allor perciò non v’avea una lingua che si potesse dire comune a tutta l’Italia. Ma poichè cominciossi a scrivere e a parlare co’ posteri, si cominciò ancora ad ornarla e a ripulirla. Di qualunque città, o di qualunque provincia fosser coloro che furono i primi ad aprir agli altri la via , essi pensarono certamente che maggior diligenza doveasi usar nello scrivere, che nel parlare; si sforzaron perciò di toglierne, quanto più fosse possibile, ogni asprezza, e di renderla, come meglitf sapessero, elegante e vezzosa. Io credo certo che se avessimo i primi saggi che furono scritti di lingua italiana, noi vi vedremmo non poche vestigia del dialetto di quella città in cui essi furono scritti, Ma questi saggi frattanto passando nell’altrui mani eccitarono altri ad andare ancora più oltre. I secondi scrittori furon migliori de’ primi; i terzi andaron innanzi a’ secondi; e si venne finalmente a formar una lingua piena di eleganza e di vezzi, quale or (’abbiamo. In tal maniera parmi di avere spiegata l’origine della lingua italiana, senza stendermi in quelle troppo minute PREFAZIONE XIX ricerche che sogliuit recate a: lettori noja maggior del frutto, e senza entrare in certe più difficili e più pericolose quistioni, alcune delle quali, come sopra ho accennato , han data occasione a sanguinose battaglie tra molti scrittori del secolo xvi , altre in questi ultimi tempi nuove guerre hanno destate tra il ch. monsignor Fontanini e i suoi illustri avversarii. E parmi inoltre che in tal maniera si possano forse non difficilmente unire in pace le diverse opinioni sull’origine della nostra lingua. Percioci liè se coloro che affermano che la lingua italiana fu usata ancor da’ Romani nel favellare del volgo, si ristringano a dire ch’era presso essi quel parlar popolare da cui si è poscia formata col volger de’ tempi la nostra lingua, io non verrò con essi a contrasto; e concederò ancora al marchese Maffei, e agli altri sostenitori della sua opinione , che la lingua italiana non sia nata da’ Barbari, ma che abbia avuto principio dal sempre maggiormente corrompersi che fece il già guasto parlar del volgo, quando egli non neghi che a questo corrompimento contribuirono in non piccola parte i Barbari che innondaron l’Italia, (Che se essi in nulla si vogliano dipartire dal lor sentimento , io non perciò verrò con essi ad alcun’altra contesa; perciocchè non mi sembra questo argomento di tal natura, che vaglia la pena di disputarne più lungamente. Potrebbe finalmente parer questo il luogo a cercare chi si ino stati i primi e più antichi scrittori di nostra lingua. Ala di ciò noi dovremo parlare nel decorso di questo studio medesimo, ove esamineremo se nell’epoe.i che abbiamo in esso compresa, sia stato alcun poeta italiano; e molto più nel seguente, ove di ciascheduno de’ primi nostri scrittori dovrem parlare partitamente. Così pure io lascio qui di trattare ile Ila studio, che tra’ nostri fiorì , della lingua provenzale nel xii e nel XIII secolo, perciocchè dovrem ragionarne stesamente a luogo più opportuno. A me basta l’aver finora esposto, come a me è sembrato più verisimile, il modo con cui il popolo, abbandonata la lingua latina, passò ad usare dell’italiana, e con cui questa dall’essere adoperata solo dal volgo giunse ad essere illustrata ancor dalla penna degli scrillori.