Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo II/Prefazione
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PREFAZIONE
La storia de’ tempi di cui dobbiamo ragionare in questo tomo, ci offre l’infelice decadimento dell’impero romano avvilito prima e disonorato per gl’infami vizii di molti imperadori, poscia indebolito e snervato per la lor codardia, e quindi combattuto, smembrato e finalmente rovinato dai Barbari che da ogni parte l’invasero e se ne fecer signori. La storia letteraria de’ tempi medesimi ci offre il nulla meno infelice decadimento delle scienze e dell’arti, che pel capriccio dapprima de’ loro coltivatori soffersero non legger danno, poscia per le sventure dei tempi venner neglette, e passo passo abbandonate per modo che appena serbavasi la memoria del lieto stato a cui ne’ secoli precedenti esse eran salite. Questo decadimento della letteratura debb’essere il principale oggetto delle nostre ricerche; ma perchè esso fu troppo strettamente congiunto col decadimento dell’impero, questo ancora non deesi da noi trascurare, acciocchè si conosca quanto influisca nella felicità delle lettere la felicità dello Stato.
Prima però d’innoltrarci in queste ricerche, convien dir qualche cosa de’ fondamenti a’ quali noi crediamo di doverle appoggiare; fondamenti che finora si sono creduti solidi e fermi, ma che ora ci si voglion far credere deboli e rovinosi. Chiunque finora ha scritto la storia degli imperadori che succederono ad Augusto, ha pensato di poter narrare sicuramente ciò che si vede con certezza affermato da Tacito e da Svetonio, i due più antichi storici che di que’ tempi ci sian rimasti, quando non vi s’incontri alcun fatto che o dalla retta ragione si mostri impossibile, o da autentici documenti si mostri falso. Ma era alla nostra età riservato lo scoprir finalmente che tutti sono finora stati in errore; che il Baronio, il Sigonio, il Tillemont, i Pagi, il Muratori, il Crevier ed altri a lor somiglianti scrittori coll’appoggiarsi all’autorità di tali autori sono stati uomini creduli troppo e mancanti di buona critica; che Tacito e Svetonio da essi buonamente seguiti sono autori a’ quali non conviene così facilmente dar fede; che essi si son lasciati condurre o dal desiderio di adulare gl’imperadori viventi col mordere i trapassati, o da quel malnato piacere che provan molti nello oscurare la fama de’ più grand’uomini, o da troppa facilità nell’adottare i popolari racconti; che Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone e Domiziano non furon poi quegli uomini così malvagi, come ci vengon dipinti; che in somma della storia degl’imperadori romani convien formarsi una idea troppo diversa da quella che abbiamo avuta finora. Di questa sì chiara e sì improvvisa luce che in un baleno ha dissipate le tenebre fra le quali eravamo miseramente involti, noi siam debitori al sig. Linguet, celebre per molte opere in questi ultimi anni date alla luce, le quali però egli modestamente confessa che non sono state accolte con quell’applauso ch’egli credeva loro doversi, talchè dopo averne fatte più pruove, ha finalmente riconosciuto ch’è più difficile assai l’ottenere la stima, che il meritarla, e ch’essa colla pazienza, co’ raggiri, e colla sorte più facilmente si ottiene che coll’ingegno (pref. à l’Hist. des Rivolut. de l’Empir, rom. p. 7); ma io spero che la repubblica letteraria riparerà un giorno il torto ch’essa gli ha fatto; e almeno per gratitudine ai nuovi lumi che sulla storia egli ha sparsi, riporrà l’opere da lui composte fra quelle degli altri autori che a’ nostri tempi nelle antiche e nelle moderne storie han fatte ammirabili e non più udite scoperte.
Ma il comun degli uomini non si sveste così di leggeri di que’ pregiudicii a’ quali fin dalla fanciullezza si è lasciato condurre; e io ancora confesso sinceramente che prevenuto in favore degli antichi scrittori provo un non so quale ribrezzo a dispregiarne l’autorità. Mi permetta dunque M. Linguet ch’io venga a chiedergli lo scioglimento di qualche dubbio e di qualche difficoltà che non mi lascia si presto arrendermi alle ragioni per cui egli vorrebbe che Svetonio e Tacito non più ottenessero presso noi quella fede che hanno ottenuto finora. Io mi lusingo che quel medesimo zelo per l’onore della umanità, che nelle sue Rivoluzioni dell’Impero romano lo ha indotto a fare l’apologia de’ primi Cesari, lo indurrà nulla meno a darci altri lumi perchè possiam giungere finalmente a scoprire il vero finor nascoso.
E primieramente dovrebbesi egli mai sospettare per avventura che M. Linguet avesse corse con troppa fretta le Storie di Tacito e di Svetonio, sicchè non avesse avvertite alcune cose che atterrano le difficoltà da lui proposte, o non avesse ben rilevato il senso di certi (passi che egli in esse combatte? Egli, a cagion e’esempio, non vuol che si credano (t. 1, p. 150, ec.) le brutali disonestà che del vecchio Tiberio ci narrano que’ due scrittori. Per qual ragione? Perchè, egli dice, essi ci assicurano che Tiberio fino all’età di 68 anni visse, per ciò che appartiene al costume, senza alcuna taccia. Or non è probabile che il libertinaggio nasca nel cuor di un uomo allora appunto che quasi tutte le passioni vi muoiono; nè si può credere che il gelo della vecchiezza vi accenda quegli sfrenati trasporti che appena sarebbono verisimili nel bollore della più fervida gioventù. Nè io gliel nego. Ma Tacito e Svetonio dicon eglino veramente che Tiberio prima di ritirarsi nell’isoletta di Capri fosse uomo di sì illibato pudore? Io veggo anzi ch’essi ci rappresentan Tiberio nella prima età come dissimulatore accorto degli enormi suoi vizii, a’ quali poscia negli ultimi anni abbandonossi sfacciatamente. Intestabilis saevitia, dice Tacito (l. 6 Ann. c. 5), sed obtectis libidinibus, dum Sejanum dilexit, timuitve; postremo in scelera simul ac dedecora prorupit, postquam, remoto pudore ac metu, suo tantum ingenio utebatur. E Svetonio similmente (in Tib. c. 42): Ceterum secreti licentiam nactus, et quasi civitatis oculis remotus, cuncta simul vitia male diu dissimulata tandem profudit. Anzi egli prosiegue narrando alcune pruove che del suo impudente libertinaggio avea già egli date in addietro non ostante l’usato suo infingimento. Or è ella una cosa stessa il fingere e il serbar veramente la pudicizia? E se Svetonio e Tacito affermano che Tiberio prima ancora era uom guasto, ma sol in segreto, perchè accusarli che il facciano abbandonarsi alla disonestà solo nella sua vecchiezza? Convien dunque dire che M. Linguet troppo frettolosamente abbia letti que’ due scrittori, e non siasi quindi avveduto di ciò ch’essi raccontano, totalmente contrario a ciò ch’egli loro attribuisce. Ma io temo che più frettolosamente ancora abbia egli letti due altri passi di Svetonio. Chi crederà, dice egli (t. 1, p. 183, ec.), che un sovrano abbia giammai fatti chiudere i granai di un’ampia città per avere il piacere di fare affiggere agli angoli delle strade queste parole: Vi è fame? E nondimeno Svetonio ne racconta ciò di Caligola. A dir vero, io non mi stupirei che un pazzo, qual era Caligola, giugnesse ancora a sì crudele stoltezza. Ma dove è mai un tal racconto presso Svetonio? M. Linguet! non asserisce cosa alcuna senza sicure pruove. Ecco le parole di questo scrittore da lui fedelmente recate: Nonnumquam, horreis praeclusis, populo famem indixit (in Calig. c. 26). Ma è ella fedele una tal traduzione? Indicere famem è egli lo stesso che affiggere agli angoli delle strade queste parole: Vi è fame? Io temo assai ch’egli possa sostener l’esattezza di tali versioni. L’altro passo di Svetonio non troppo felicemente tradotto da M. Linguet si è il seguente: Ognun sa, egli dice (t. 2, p. 55), ciò ch’ei racconta di Tito, cioè che avendo egli passato un giorno senza donar nulla ad alcuno, quod nihil cuiquam tota die praestitisset, disse a’ suoi amici: Io ho perduto la mia giornata. Diem perdidi (in Tito c. 8). E quindi prende occasione l’eloquentissimo autore d’inveire contro coloro che pensano doversi lodar que’ principi che donan troppo liberalmente il denaro; e si volge amaramente contro Svetonio, perchè abbia affibbiato a Tito un tal detto. E che? dic’egli, credeva forse Tito perduto il giorno, perchè non avea donato nulla ad alcuno? Qual idea avea mai de’ doveri del suo stato? Gli ristringeva fors’egli a distribuzioni manuali fatte a coloro che gli si potevano accostare? Ma questo è impiego di un cassier subalterno, non del capo di un ampio Stato. Che direm noi di una tal riflessione? Noi veramente avevam creduto finora che nihil praestare cuiquam volesse dire: non far nulla a vantaggio d’alcuno; e ci era perciò sembrato che fosse questo uno de’ più bei detti che dalla bocca di un principe potesse uscire. Ma grazie a M. Linguet, siamo ora disingannati, e dobbiam credere fermamente che praestare è il medesimo che donare; e che questo è ufficio proprio del cassiere, e non del sovrano. E uno scrittore che intende sì bene PREFAZIONE IX gli antichi autori, ha egli diritto di levarsi arditamente contro di essi, e dir loro sul volto che hanno mentito? Io non finirei così presto, se tutti volessi annoverare que’ passi ne’ quali m. Linguet ci ha date somiglianti pruove della sua felicità ed esattezza nell’intendere e nel traslatai e gli antichi autori. Ma passiamo avanti. e veggiamo quali ragioni egli ne arrechi per renderci dubbiosa l’autorità di Svetonio e di Tacito. Esse si riducono singolarmente a due accuse clf egli dà ad amendue questi scrittori; di troppa fucilila nelf adottare i popolari racconti, e di vile adulazione nell’esaltare i principi, sotto il cui regno scrivevano ,* eoi depi imer la memoria de’ trapassati. Cominciam dalla prima. I he Svetonio e Tacito possano in ciò aver errato talvolta, nè io, nè alcun altro vonà negai lo. Vi è egli storico alcuno in cui non si trovi falsità, o errore? Ma come farem noi a conoscere ove essi abbian detto il vero, ove il falso? Per affermare che uno storico ha errato, conviene che noi possiamo convincerlo di falsità col mosti are o che altri più degni di fede narrano altrimenti, o che ciò eh! egli racconta non è possibile. Se le cose eli’ei nari a non sono in possibili, ma solo impi obabili, noi possiam solamente inferirne che il suo racconto non è probabile. Ma se egli rai conta cose che non siano contradette da altri, che sian possibili e ancor verisimili, noi non abbiam ragione di muover dubbj, ancorchè forse ei possa essersi ingannato. Ciò presupposto, ci dica di grazia m. Linguet per qual ragione non vuol egli dar fede a Tacito e a Svetonio nelle cose < he ci narrano o amendue, o un solo di essi? Forse perchè altri scrittori loro si oppongano? Ma non ve n: è alcuno che non sia di tempo troppo ad essi posteriore, e perciò men degno di fede; oltre che assai poco è certamente quello in che anche i posteriori scrittori da lor discordino. Forse perchè ci narrino cose impossibili?! Alcune ve ne ha certamente di tal natura, come tutto ciò che appartiene a’ prodigi di Vespasiano, alle profezie degli astrologi, e ad altre somiglianti cose che credendosi allora comunemente , non è maraviglia « lic anche da’ migliori storici fossero adottate. Queste son finalmente in assai piccolo numero, e noi pure ci uniamo con lui in rigettarle. Ma le cose che M. Linguet non X PREFAZIONE vuol credere, son tali comunemente ch’egli non può chiamarle al più che improbabili. Or sono elleno veramente tali? Tacito e Svetonio non furono i primi che scrivesser la storia de’ primi Cesari. Essi avean sotto l’occhio gli storici che prima di loro avean trattatomi tale argomento. “Io trovo, dice Tacito (l.2 Ann c. 88), presso gli scrittori e i senatori di que’ tempi. E altrove (l. 4 Ann. c. 53) ■ Questa cosa non rammentata dagli scrittori degli Annali io l’ho trovata ne’ Commentarj di Agrippina madre di Nerone, la quale tramandò a’ posteri le memorie della sua vita e le vicende de’ suoi. E altrove (l. 14, c. 9): “Noi narrando ciò che gli autori scrivono concordemente, recheremo sotto i lor nomi ciò in che essi discordano”. “Un. uom consolare , dice (in Tib. c. 61), lasciò scritto ne’ suoi Annali. E altrove (in Ner. c. 34) “Aggiungonsi da non ignobili autori cose più atroci”; e così pure più altre volte. Nè si può dire ch’essi siano semplici compilatori di tutto ciò che veggono scritto, o che odon narrarsi da altri. Essi distinguono ciò che da tutti si narra, ciò che da pochi; ciò che si crede costantemente, e ciò di che corre sol qualche voce. ”Nel riferire la morte di Druso, dice Tacito (l. 4 Ann. c. 10), ho narrato ciò che si scrive da molti e fedeli scrittori; ma non lascerò di dire che corse non legger rumore a que’ tempi, per modo che non è ancora svanito, ec. Égli stesso confessa (l. 1, Ann. c. 1) che alcuni degli storici precedenti aveano scritto o con adulazione degl* imperadori viventi, o con troppa amarezza de’ trapassati. “Quindi, aggiugne , io toccherò in breve l’estreme cose di. Augusto , poscia narrerò l’impero di Tiberio e degli altri , ma senza odio ed impegno, che in me non è risvegliato da. cagione, alcuna. Così pure Svetonio esamina varie volte, e or segue, or rigetta le altrui opinioni (Tib. c. 21; Claud. c. 44; Neron. c. 52). Essi non son dunque scrittori che ciecamente si affidino agli altrui detti, ma separano attentamente ciò che merita fede, da ciò che non dee ottenerla. E sono perciò scrittori alla cui autorità non possiamo opporci, se non con assai forti argomenti. Ma il sig. Linguet pensa di averne tanti e sì validi che bastino a rovesciarla interamente. Egli pretende di PREFAZIONE XI mostrare inverisimili e improbabili troppo moltissime delle cose eli’ essi ci narrano. Ma ci risponda egli di grazia. Svetonio e Tacito, e gli scrittori ch’essi han consultato, e i Romani a’ quali essi scrivevano, tutti poco lontani di tempo dagl’imperadori la cui vita descrivono, le han credute e probabili e vere; poichè altrimenti quegli scrittori non l’avrebbon narrate, nè si sarebbon esposti ad incontrare la taccia di scrittori favolosi in un tempo in cui troppo facilmente potean esser convinti di falsità. M. Linguet lontano diciassette secoli da que’ tempi le crede improbabili. A qual parere ci atterrem noi? Io vo ancora più oltre, e dico che M. Linguet secondo i suoi principj medesimi non può creder improbabili quelle cose clr egli pur dice tali. Per non allungarci oltre il dovere , scegliamo un solo degl’imperadori di cui egli ha voluto fare l’apologia, e sia questi Tiberio. E veggiamo primieramente qual sia il carattere che ne fa egli stesso, quali i delitti di cui confessa che questo imperadore bruttossi indegnamente. Tiberio, dice egli (t. 1, p. 44)> era di una famiglia in cui l’orgoglio e la crudeltà sembravano ereditarj. Ne dava spesso delle prove , benchè si sforzasse a nasconderle. Confessa ch’egli avea un umor nero, e che era inclinato alla dissimulazione, il che di raro si unisce colla virtù, e cuopre quasi sempre grandissimi vizj (ib. p. 46); che l’ingrato e sospettoso cuor di Tiberiofu altamente trafitto da’ contrassegni d’amore e di stima di cui vedeva onorato Germanico, e ch’egli lo allontanò dal teatro della sua gloria, e ancor dall’Italia, e che gli procurò tutti i disgusti possibili in Oriente, ove il mandò a ricevere affronti (ib. p. in); che fece perire colle formalità di giustizia molti ragguardevoli cittadini; che la sua naturale severità innasprita dalle satire, e fatta più ardita dalla bassezza de’ Romani, diede occasione, in Roma alle più funeste scene e a’ più terribili abusi del potere arbitrario (ib. p. 157); che Tiberio fu un malvagio sovrano che si fece odiare dalla nobiltà, che alla sua tranquillità sagrificò i primarj capi dell’impero (ib. p. 169). Questo è il carattere che ci fa di Tiberio il suo valoroso apologista M. Linguet!. Ma se Tiberio era inclinato alla dissimulazione, perchè trova egli strano e improbabile (ib. p. 59) ciò «he Tacilo XII PREFAZIONE narra dell1 inlingersi eh’esso fece di non voler accettare l’impero, e del mostrar d’arrendersi finalmente alle preghiere e alle istanze de’ senatori “non tanto ad accettare P impero , quanto a cessar di negarlo , e di farsi pregar più oltre” (Tac. l. 1 Ann. c. 13)? Non è egli questo il carattere di un accorto dissimulatore? fingere di ricusare ciò che più ardentemente si brama. Il più leggiadro si è, che sembra a M Linguet che la maniera con cui Tiberio accettò la corona, secondo il racconto di Tacito, non sia probabile, perchè, dic’egli, dava in tal modo occasione di dubitare s’ei fosse davvero imperadore; e quindi piacendosi di questa ingegnosa sua riflessione, impiega quattro intere pagine a mostrare che le circostanze in cui era. Tiberio, non gli permettevano che lasciasse in alcun modo dubbiosa la sua elezione, come se l’adozione di Augusto, le istanze del senato, e il possesso che tosto prese Tiberio dell’imperiale autorità, non gli avessero assicurato il trono, e non avesser fatto vedere abbastanza ch’egli avea veramente accettato l’impero. Se poi Tiberio era così crudele e implacabile, come M. Linguet cel descrive, perchè non crede egli probabile che tutti in un colpo dannasse a morte coloro ch’erano stati congiunti in amistà con Seiano? Al qual passo due cose singolarmente son degne d’osservazione. La prima si è, che per rendere odioso e improbabile il racconto di Tacito, M. Linguet gli fa dire (t. 1, p. 162) che Tiberio annoiato dalla lunghezza de’ processi e dal numero degli accusati comandò di ucciderli tutti in prigione; e quindi ei lungamente si stende a dimostrarci questa gran verità , che “la malvagità umana non giunge mai a versare il sangue degli uomini solo per liberarsi da qualche noia. Ma dove è mai che Tacito un tal motivo ci arrechi della crudeltà di Tiberio? Ecco le parole di questo storico (l. 6 Ann. c. 19): Inritatus suppliciis cunctos, qui carcere attinebantur accusati societatis cum Sejano, necari jubet. Dunque inritatus suppliciis vuol dire annoiato dalla lunghezza de’ processi e dal numero degli accusati? E questa è dunque la fedeltà e l’esattezza con cui si riportano i detti degli antichi scrittori? E su questa sì fedel traduzione si appoggia l’accusa che si dà a Tacito di averci fatto un iinprohabil racconto l PREFAZIONE XIII Leggiadra maniera, per vero dire, di censurare gli autori! Riprenderli perchè abbian detto ciò tir essi non d’user inai. Chi potrà mai in tal modo andar esente dalla critica di sì valorosi censori? L’ulti a riflessione che qui ci offre m. Linguet, si è ch’egli oppone a se stesso altri fatti di crudeltà somigliante, che posson render probabile ciò che narrasi di Tiberio, e singolarmente la celebre notte di S. Bartolomeo. Or che risponde egli? Procura ei forse di scemare alquanto l’orrore di questo fatto, o col recare i motivi pe’ quali potè allora credersi lecito, o col mostrare, come ha fatto felicemente qualche moderno scrittore, che non fu sì grande la strage , come da alcuni fu scritto? Se Tacito o Svetonio ci avesser narrata tal cosa di Tiberio ovver di Nerone, Tiberio e Nerone avrebber trovato in m. Linguet un eloquente apologista. Ma Cult crina de’ Medici non ha avuta tal sorte. Egli non sol concede il fatto , ma a renderlo ancor probabile fa di questa reina il più nero carattere che immaginare si possa. Rechiamone le sue stesse parole, perchè non si creda ch’io le travolga, o le esageri. “Cette reine dévouée à i une barbarie voluptueuse, à une superstition cruelle, et de plus dévorée par l’envie de regner” (ib. p. 163). A’ tempi torbidi della Lega si è mai parlato di essa con più orribili espressioni? Così chi riprende gli antichi scrittori di aver parlato troppo mal di Tiberio, parla di una sua reina in maniera che ce la rappresenta peggiore ancor di Tiberio. Ne’ racconti di Svetonio e di Tacito vi ha forse, il ripeto, qualche esagerazione; ma assai poche cose si troveranno, delle quali si possa dire che non sono probabili. Un sovrano d’indole fiera e malvagia, sospettoso, crudele, senza religion che lo freni, corrotto ne’ costumi, in mezzo a un popolo avvilito e depresso, di quali eccessi non è capace? Ma che giova il trattenerci più a lungo nel confutare uno scrittore che, dirollo pure liberamente , non si può leggere senza sdegno? In questo secolo in cui tanto si esaltano i bei nomi di società e di umanità, dovevam noi aspettarci che uno scrittore prendesse non solo a negare (di che sai ebbe a lodarsi, quando l’avesse fatto felicemente) ma a giustificare la crudeltà di Tiberio? E nondimeno udiamo coni’ ei ne XIV l’HEl-AZIONE ragiona (t. 1 , p. 158, ec i Tiberio doveri governare un popolo nato per esser libero, e soggettato non molto prima. Nel principio del suo impero eran seguite orribili sollevazioni (non in Roma , ma nella Grecia). I Romani, benchè avviliti, non avean dimenticato ciò che significava il lor nome. La città era piena di famiglie superiori per ogni riguardo alla regnante, prima delle funeste rivoluzioni che I’ avean condotta al trono. I discendenti degli antichi vendicatori di Roma, gli Scipioni , i Metelli, potean sospirare talvolta nel vedersi sommessi a’ Cesari, il cui nome nemmeno era noto a’ loro antenati. Nel principio di un nuovo regno era facile ad avvenire che certe alquanto vive espressioni di dispiacere fosser prese, per cominciamen’.o di progetti ambiziosi. Il principe obbligato per suo personale interesse a mantenere la pubblica tranquillità non dovea punto esitare a sagrificarle le vittime ch’ella sembrava esigere”. Lasciamo stare il contradire ch’ei fa a se stesso, poichè qui ci rappresenta Tiberio come attorniato per ogni parte da uomini in cui potea temere altrettanti congiurati; e poscia non molto dopo riflette (p. 164) che Tiberio regnava solo e senza contradizione, e che l’unico oggetto che potea recargli qualche timore (cioè Seiano) era stato abbattuto. Lasciamo stare ancora la frivolezza di tai ragioni; poichè Augusto trovossi in circostanze più pericolose di assai, e nondimeno, se se ne traggano i primi anni, fu sovrano di mansuetudine e di clemenza ammirabile. Queste contradizioni e questi mal congegnati ragionamenti non fanno finalmente torto che al loro autore. Ma si può egli leggere senza sdegno Uno scrittore che benchè sembri disapprovare questa crudele e sanguinosa politica, per iscusar nondimeno Tiberio ardisce d’involger nel delitto medesimo e di paragonar con quel mostro di tirannica crudeltà una delle più sagge repubbliche, anzi tutti generalmente i sovrani? “Non vedesi forse, dic’egli (p. 159), a Venezia un’inquisizione di Stato in seno di una repubblica? I sospetti non son eglino puniti come delitti in coloro che gli posson commettere? E nelle monarchie che non son credute tiranniche e sotto re conosciuti per la loro clemenza , non veggonsi cittadini arrestati sulla parola di un delatore anonimo, e spesso ancora per motivo VREFAZIOKE XV minor di un sospetto? Non muoiono essi di miseria e di disperazione nelle prigioni, prima che si sia solamente pensato a esaminare se siano innocenti, o colpevoli”? Come mai ha potuto M. Linguet, uomo per altro di sapere e d’ingegno non ordinario, pensare e scriver così? Per difender Tiberio, il cui nome è sempre stato e sarà sempre a tutte l’età e alle nazioni tutte esecrabile, rappresentarci in sì odioso e sì ingiusto aspetto i più saggi governi? ne’ magistrati e ne’ sovrani riconoscere tanti tiranni? e ciò che sarà qualche rara volta avvenuto per quella, dirò così, fatale necessità che anche ne’ più felici Stati talor s’introduce, dipingerlo come indole e costituzion essenziale della sovranità? Ma lasciamo ormai un oggetto così spiacevole, e passiam sotto silenzio altri simili paradossi che questo autore ha sparsi in questa sua opera, di cui è a bramare che non s’imbevano mai nè i sudditi nè i sovrani -, e parlino) brevemente dell’altra accusa che M. Linguet! dà a Tacito e a Svetonio, cioè di avere dipinti con sì neri colori Tiberio , Caligola , Nerone ed altri imperadori romani, per adulare in tal modo gl’imperadori sotto cui essi scrivevano. Che l’adulazione fosse vizio comune agli scrittori di questi tempi, non può negarsi, e ne recheremo noi pure non poche pruove. Che Tacito inoltre abbia voluto talvolta penetrar troppo avanti nell’animo umano, e trovarvi intenzioni e motivi che forse mai non vi furono, si conosce facilmente al leggerne con attenzione la Storia. Ma che per motivo di adulare gl’imperadori viventi abbiano egli e Svetonio fatto un sì odioso carattere de’ trapassati, a chi mai potrà persuaderlo M. Linguet? Se tale fosse stata la loro intenzione, avrebbon essi dovuto dissimulare ciò che que’ principi operaron degno di lode, E nondimeno ci dica M. Linguet donde abbia egli tratte tutte le belle azioni ch’ei ci rammenta di essi, se non da questi scrittori medesimi, cui egli taccia come impudenti calunniatori? Ma più ancora. Con quanti elogi parla Svetonio di Augusto, di Vespasiano, di Tito? Perchè esaltarli tanto, s’ei temeva di oscurar le lodi di Traiano e di Adriano? Perchè descriverci in sì diversa maniera il carattere di questi imperadori? Perchè non dipinger ancor essi in un aspetto somigliante a quel di x\f PREFAZIONE Tiberio e di ¡Verone? Ma la pubblica fama, si dirà forse, gli avrebbe smentiti. E non poteva ugualmente smentirli in ciò che narran degli altri? Non v’eran molti che avean conosciuti o gli imperadori medesimi trapassati, o quegli almeno che con loro eran vissuti? Finalmente è egli possibile che tutti gli scrittori antichi (se se ne traggon quelli che scrissero a’ tempi di quegl’imperadori medesimi, de’ quali parlano Svetonio e Tacito, e che, come accade, vilmente gli adularono) si siano accordati a darci la stessa idea de’ detti principi? Che non ci sia rimasto alcun libro in cui se ne faccia un carattere diverso da quello che ce ne han lasciato i detti scrittori? Che non ci sia pur rimasta memoria di alcuno che avesse preso a farne l’apologia? È egli possibile che tutti i secoli, che tutte le nazioni si siano accordate e a riporre tra gli ottimi principi un Tito, un Vespasiano, un Traiano, un Antonino, un Marco Aurelio, e a riporre tra’ pessimi un Tiberio, un Caligola, un Claudio, un Nerone, un Domiziano; e che ciò non ostante dobbiam ora cambiar parere, e credere a M. Linguet che questi non furon poi così malvagi, come si è pensato finora? Quando egli ci produrrà qualche antico scrittore che o uguagli o superi l’autorità di Svetonio e di Tacito, noi gliene saremo tenuti, e crederem facilmente che possiamo essere stati fino a questo tempo in errore. Ma finchè egli non ci produce altri argomenti che le traduzioni ch’ei fa de’ passi di questi due scrittori , e i ragionamenti ch‘ egli ci mette innanzi, ei ci permetta che noi seguiamo a valerci di tali autori, e che crediamo a ciò ch’essi ne narrano, secondo le leggi che abbiam poc’anzi stabilite. Il saggio che abbiam recato di questa storia delle Rivoluzioni dell’impero romano basta, s’io non m’inganno , a darne una sufficiente idea, perchè non mi sia qui necessario il continuarne l’esame e la confutazione , e perchè nel decorso di questo volume io non debba trattenermi a ribattere le altre cose ch’egli oppone agli storici antichi. Prima però di abbandonare questo autore, mi par conveniente il non lasciare senza qualche difesa un altro illustre scrittore italiano della medesima età, cioè Plinio il Giovane, a cui pure M. Linguet non teme di opporsi, e ciò cli’ è più, in una cosa PREFAZIONE XVII io cui Flirào non fu per poco testimonio di veduta, dico dell’eruzion del Vesuvio, in cui morì Plinio il vecchio. Lasciamo stare la poca stima con cui egli a questo proposito parla de’ ricercatori delle antichità di Ercolano, che non fa al nostro argomento, e veggiam solo ciò ch’egli dice del racconto che il Giovane Plinio ha fatto della morte di suo zio. “In quest’occasione., dic’egli parlando del Giovane (t. 2, p. 68, ec.), ei non èstato né più giudizioso nè più veridico di Dione. Per provarlo mi restringerò a due osservazioni (e su queste osservazioni noi avremo a farne più assai di due). Plinio il Vecchio di lui zio perì allora per aver voluto osservare il fenomeno di questo fuoco troppo da vicino alla sorgente. Ei fu soffocato quasi appiedi della montagna , e morì certamente pel diluvio di cenere eh7 essa lanciava, e che divenne fatale alle vicine città”. Ecco in poche linee tre errori. È falso che Plinio volesse esaminar troppo da vicino il fuoco del Vesuvio. È falso che Plinio morisse quasi a piedi della montagna. È falso che Plinio morisse sotto il diluvio di ceneri che dal Vesuvio piovea. Egli mori a Castellamare di Stabie , come vedremo a suo luogo narrarsi dal giovane suo nipote , luogo eh’ è più di quattro miglia distante dalle falde del Vesuvio, come vedesi nella diligentissima Carta delle Spiaggie marittime intorno a Napoli premessa al primo tomo delle Antichità d’Ercolano. Egli erasi colà recato non per semplice curiosità, ma per recare soccorso all’amico suo Pomponiano. Egli finalmente morì per soffocamento, mancandogli il respiro per le sulfuree esalazioni che fin a quel luogo stendevansi. Quindi prosiegue a riflettere il nostro autore che le ceneri dovean essere assai alte ove Plinio morì: il che è verissimo. Ma vediamo che ne inferisca egli; “Esse dovean coprire il corpo di Plinio in modo da non potersi più ritrovare. I suoi schiavi che si erano allontanati , dacchè il videro in istato di non poter essere soccorso, non potevano dare notizia alcuna del luogo in cui l’avean lasciato. E nondimeno il nipote pretende che il dì seguente alla morte di suo zio il corpo ne fu ricercato e trovato senza fatica. Egli è difficile di crederglielo sulla sua parola”. Ma di grazia, ha egli letto M. Linguet, e Tiraboschi, Voi. II. L XVIII PREFAZIONE se I’ ha letto, ha egli inteso il racconto di Plinio il Giovane? Non dice egli colle più chiare parole che usar si possano, che suo zio morì fra le braccia di due schiavi? Innitens servulis duobus assurrexit, et statim concidit, ut ego colligo, crassiore caligine spiritu obstructo (l. 6, ep. i(i). Non potevan dunque gli schiavi medesimi mostrare il luogo in cui era morto? e per quanto fosse alta la cenere, non potevan essi scoprirne il corpo? Che direm poi della fedelissima traduzione che fa il nostro autore di altre parole di Plinio? Questi dice: Ubi diesì redditus si, ab eo quem novissime viderat, tertius, corpus inventum. A me pare che anche un fanciullo intenderebbe che queste parole voglion dire che il terzo giorno, dacchè Plinio era morto, ne fu trovato il cadavere. Ma il nostro autore traduce leggiadramente: Il dì seguente alla morte: dès le lendemain de sa mort. E questi son dunque i censori, i disprezzatori, i derisori degli storici antichi? Ma passiamo alla seconda osservazione critica del formidabile Aristarco. “Inoltre, dic’egli, Plinio il Giovane avrebbe dovuto insegnarci in qual maniera respirava egli e gli altri eh7 erano in Miseno , in mezzo di una pioggia di cenere così densa, che cambiava il giorno in una notte, simile a quella di una camera ben chiusa e senza luce, singolarmente essendo questa pioggia composta di cenere ardente, e lanciata con tale rapidità che si stendeva fino a due o trecento leghe”. Grande difficoltà a dir vero, e tratta da una nuova fisica osservazione sinora ignota a’ più valenti filosofi. La pioggia dunque di cenere toglie il respiro? In primo luogo converrebbe vedere se fosse tale che il togliesse del tutto, o solo il rendesse più difficile e più grave. A Stabie gli altri rimaser vivi: Plinio solo morì , e ciò perchè egli avea naturalmente affannoso il respiro, onde più facilmente potè essere soffocato: spiritu obstructo , dice il nipote, clausoque stomaco, qui illi natura invalidus, angustus, et frequenter interaestuans erat. Ma senza ciò, io so bene che una veemente esalazione della terra, o un improvviso e impetuoso diradamento dell’aria cagionato o da un fulmine che scoppj vicino, o da una veemente fiamma che cinga alcuno , il può condurre a pericolo di rimaner soffocato. Ma qui non vi era nè fulmin nè fiamma; PREFAZIONE XIX poiché lo stesso Plinio dice: Et ignis quidem longius substitit (l.6,ep. 20). Non vi era dunque che cenere lanciata da non breve distanza, qual è quella che separa il Vesuvio dal promontorio di Miseno, ove era il giovane Plinio, e cenere perciò che dovea ancora nel lungo viaggio essersi raffreddata alquanto. Or dove ha mai trovato M. Linguet che una pioggia, fosse ella pure di sassi, non che di cenere, possa per soffocamento uccidere alcuno?. Rimarrebbe ora a parlare del sig. di Voltaire, il quale benchè soglia comunemente farsi guida agli altri, e aprir loro innanzi nuovi e non più usati sentieri, qui nondimeno non si sdegna di farsi seguace del sig. Linguet, e benchè mai nol nomini, ripete però le medesime riflessioni (Questions sur l’Encycl. t. 7) che abbiamo udito farsi poc’anzi. Ma M. di Voltaire non è semplice copiatore. Ei va più oltre; e parlando degl’imperadori seguenti, molti altri racconti improbabili ei ritrova in Tacito e in Svetonio, de’ quali M. Linguet non erasi avveduto. E qual maraviglia? Uno scrittore che di Costantino e di Carlo Magno ha fatto i più crudeli tiranni di cui si faccia menzione nelle storie, dovea necessariamente essere l’apologista di Caligola e di Nerone. Dovrem noi entrare in lizza ancor con questo scrittore , e prenderci la nojevole briga di confutarne ciaschedun passo? Io temerei di annojar troppo i lettori che forse son sazj abbastanza di cotai discussioni. Mi basti dunque il fare una sola riflessione. M. di Voltaire dice che non son probabili gli eccessi di crudeltà e di laidezza che i due mentovati scrittori ci narrano degl’imperadori; perchè non è probabile che un uomo giunga a sì mostruosa nequizia. Or io dico che a tutt’altri ciò può sembrar improbabile, che a M. di Voltaire. Se io raccogliessi tutte in un fascio, e ponessi sott’occhio tutte insieme raccolte le immagini, le dipinture , l’espressioni di cui egli ha sparsi, singolarmente in questi ultimi anni, certi suoi libri dei quali egli stesso arrossisce, ma non può negare, di essere autore , e che non si leggono senza raccapriccio da chi non ha perduto ogni sentimento di onestà, di pudore e di religione; e se parlando ad alcuno che non conoscesse abbastanza M. di Voltaire, gli dicesse: un uomo XX PREFAZIONE clie pur non vuol esser creduto nè ateo nè libertino, un uomo dotato di leggiadrissimo c vivacissimo ingegno , un uomo che vantasi di avere in pregio il buon nome, M. di Voltaire in somma ha scritte tai cose; io credo certo ch’egli non mi crederebbe, se col fatto stesso non lo convincessi: tanto sembra improbabile che un uomo possa esser giunto a tali eccessi scrivendo. Egli dunque, benchè nostro malgrado, ci obbliga a crederlo , e ci fa conoscere con troppo funesta sperienza sin dove possa giugnere un uomo che scuota ogni freno. Ed egli vorrà poi persuaderci che siano improbabili i racconti che delle sozzure di Tiberio, di Caligola, di Nerone ne fanno Tacito e Svetonio, e che l’uomo non possa arrivare ad impudenza sì grande? A tal causa ei non è opportuno oratore. Io debbo per ultimo pregar chi legge di un cortese perdono, se alquanto a lungo mi son su ciò trattenuto, e se ho oltrepassato per avventura i termini di quella moderazione che mi son prefisso di usare nel confutare gli altrui sentimenti, Io venero gli uomini dotti, e ancorchè li veda cadere in qualche fallo, mi tengo lungi dall’insultarli, ricordando a me stesso ch’io forse inciamperò ancor più sovente. Ma mi sembra che cotai riguardi non debbansi ad alcuni che affidati a una certa loro maniera di scrivere autorevole e decisiva si fanno giudici degli antichi scrittori, de’ quali forse non intendono nemmen la lingua, e pretendono che in ciò eh’ è fatto storico, si debba più fede ad essi, che non a quelli che vissero a’ tempi de’ quali scrivevano, o non molto dopo; e che quand’essi decidono, non si debba fare alcun conto dell’universale consentimento delle nazioni e de’ secoli. Per ciò che appartiene all’argomento di questo tomo , e al metodo che in trattarlo ho tenuto, non mi fa bisogno di gran parole, Io conduco la Storia sino alla caduta dell’impero occidentale, e vengo esaminando le diverse vicende che nello spazio di cinque non interi secoli soffrirono in Italia le arti e le scienze. Il primo secolo ci tratterrà lungamente; perciocchè, comunque in esso la letteratura italiana incominciasse a volgere verso la sua rovina, vi ebbe nondimeno gran numero fi’ uomini di singolare ingegno, e coltivatori indefessi PREFAZIONE XXI de’ buoni studj, i quali avrebbon potuto gareggiare co’ lor maggiori, se non si fosser distolti dal diritto cammino che quelli avean loro segnato, Più in breve ci spediremo da’ secoli susseguenti, ne’ quali vedesi sparso nella letteratura italiana un certo languore che per poco non si comunica ancora a chi ne scrive la Storia. Del rimanente l’ordine e il metodo è lo stesso che nel primo tomo, se non che le diverse circostanze de’ tempi di cui scriviamo, ci hanno consigliato qualche legger cambiamento , come ognuno potrà vedere per se medesimo. Ma innanzi di venire alla Storia, ci è sembrato opportuno il premettere una Dissertazione sulle cagioni a cui deesi attribuire la decadenza della letteratura , per rischiararne una assai oscura e difficil quistione, e per aprirci la via a meglio intendere ciò che dovrem venire narrando nel seguito della Storia.