Storia della letteratura italiana (Tiraboschi)/I-3/III
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Storia della Letteratura Italiana.
io ne accennerò, de' quali più cose chi ne abbia desiderio, potrà vedere presso il citato autore. Il gran Catone in primo luogo vuol qui ancora esser nominato; uomo veramente universale che alle altre scienze anche questa congiunse e ne fu peritissimo. Festo allega (ad. voc. "Mundus") alcuni comentarj da lui scritti sopra il Dritto civile. Furono ancora circa il medesimo tempo e M. Giunio Bruto e P. Muzio Scevola, Stato della giurisprudenza romana in quest'epoca. i quali, come dimostra il più volte citato avv. Terrasson, scrissero amendue su tale argomento, uno sette, l'altro dieci libri. La maggior gloria però di Muzio fu quella di avere avuto un figlio che tra' più illustri romani a ragione si annovera, cioè Q. Muzio Scevola. Ma di lui avremo a parlare nel libro seguente.
VI. Sarebbe qui luogo opportuno a dire ancora alcuna cosa sulle arti liberali della pittura, della scultura, dell'architettura, le quali a questo tempo medesimo cominciarono ad aver pregio in Roma. Ma come assai scarso argomento ci offrirebbero esse ora a parlarne, ciò che ad esse appartiene sarà da noi raccolto ed esposto seguitamente nell'epoca alla quale ora ci convien fare passaggio.
LIBRO TERZO
Letteratura de' Romani dalla distruzion di Cartagine fino alla morte di Augusto.
Chiunque prende a esaminare attentamente le vicende di Roma, non può non riflettere che la romana letteratura andò quasi a ugual passo avanzandosi coll'armi romane. Finchè queste si stettero angustamente rinchiuse tra' popoli confinanti, appena conobbesi in Roma letteratura di sorte alcuna. Non sì tosto cominciarono esse nel sesto Le arti liberali poco allor conosciute in Roma. secolo a rompere ogni riparo, ed insultare a' popoli ancor più lontani, si vider sorgere a un tempo stesso le scienze; e la poesia, l'eloquenza, la storia cominciarono ad avere qualche ornamento, come se esse ancora si rivestissero delle spoglie nemiche. Ciò sì è veduto nelle due epo che precedenti. Cadde finalmente l'anno 607 Cartagine, e col cader di Cartagine parve che il mondo tutto cadesse a pie' di Roma. Niuna potenza si tenne più contro la vittoriosa repubblica: le nazioni pressochè tutte furon costrette a riconoscerla a lor signora; e quelle si riputaron felici che la lor servitù poterono apparentemente nascondere coll'onorevole titolo di alleanza. Al tempo medesimo un nuovo ardor per gli studi si accese in cuore a' Romani e a maggior perfezione furon da essi condotte le arti e le scienze. Ciò si dovette in gran parte alla conquista della Grecia, che seguì dappresso la terza guerra cartaginese e ingegnosamente disse perciò Orazio:
Græcia capta ferum victorem cepit, et artes
Intulit agresti Latio (l. 2, Ep. 1) (51).
Ma in gran parte ancor si dovette a quel più tranquillo riposo, di cui godendo i Romani dopo la rovina dell'impero cartaginese e delle altre più temute nazioni, 51 Il passo di Orazio da me qui recato: Græcia capta ferum victorem cepit, ec. Ha fatto credere ad alcuni, che solo dopo la conquista della Grecia cominciassero i Romani a conoscere e coltivare le scienze e le arti. Ciò che abbiam detto nel precedente libro, ci fa abbastanza conoscere che assai prima di questo tempo avean essi preso ad amarle. Le parole dunque di Orazio debbono intendersi di quel fervore tanto maggiore con cui volsero ad esse i Romani, quando la conquista della Grecia rendette loro tanto più agevole il commercio con quelle colte nazioni. poterono più agiatamente rivolgersi alle scienze. "Dappoichè, dice Tullio (De Invent. l. 2, n. 14), l'impero di Roma fu steso intorno per ogni parte, e una durevol pace permise il vivere tranquillamente, non vi ebbe quasi alcuno tra' giovani bramosi di lode che con tutto l'impegno non si volgesse all'eloquenza". Questa semplice sposizione del fatto basta, per mio avviso, a confutare il paradosso del celebre moderno filosofo Gian Jacopo Rousseau il quale ha preteso di persuaderci che il coltivamento delle scienze cagionata abbia la rovina così di altri regni, come singolarmente del romano impero (52) Gli studj de'
(2) De Invent. lib. IL n. 14.
Il passo di Orazio da me qui recato: Græcia capta ferum victorem cepit, ec. Ha fatto credere ad alcuni, che solo dopo la conquista della Grecia cominciassero i Romani a conoscere e coltivare le scienze e le arti. Ciò che abbiam detto nel precedente libro, ci fa abbastanza conoscere che assai prima di questo tempo avean essi preso ad amarle. Le parole dunque di Orazio debbono intendersi di quel fervore tanto maggiore con cui volsero ad esse i Romani, quando la conquista della Grecia rendette loro tanto più agevole il commercio con quelle colte nazioni.
52 Il sig. Landi osserva (tom. 1, p. 336) che questo mio ragionamento prova bensì che il potere è favorevole alle lettere, ma non prova che le lettere sian favorevoli al potere, e che confutare l'opinione di m. Rousseau, ch'egli stesso però chiama paradosso, converrebbe provare che la nascita, il progresso e la decadenza delle lettere avessero preceduto il progresso e la decadenza del potere. A me par nondimeno che la mia riflessione sia opportuna a combattere l'opinione del filosofo ginevrino. Se la distruzion dello Stato come afferma egli, è effetto degli studj, convien dire che questi abbiano una cotal intrinseca loro proprietà che alla pubblica felicità si opponga. Or se veggiamo crescere, per così dire, a ugual passo il fervor negli studj e la rapidità delle conquiste, egli è evidente che quelli non portan seco il fatal germe distruttore delle repubbliche. E se veggiam poscia gli studj insieme e il potere venire scemando ugualmente, egli è manifesto che non agli studj soli, ma a qualche comune origine deesi attribuire il decadimento di amendue. del decadimento de' Romani d Gli studj de' Romani furono in gran parte frutto delle loro conquiste; quanto più queste si accrebbero, tanto più ancora accrebbesi il lor sapere; il secol d'Augusto fu quello che l'armi insieme e le lettere de' Romani portò al sommo della lor gloria; nè questa sarebbe poscia venuta meno se tutt'altre cagioni, che a me qui non appartiene l'esaminare e che si posson vedere nel bel trattato Dell'origine, delle grandezze, e del decadimento de' Romani di m. Montesquieu, non avessero a lenti passi condotta la repubblica alla sua rovina.
Ella è dunque questa di cui prendiamo ora a trattare, l'epoca la più gloriosa alla romana letteratura. Abbraccia lo spazio di poco oltre ad un secolo e mezzo, cioè dall'anno di Roma 607 in cui cadde Cartagine, fino all'an. 766 in cui morì Augusto. Saravvi forse taluno a cui sembri inutile questa mia fatica, poichè abbiam avuta di fresco la Storia del secolo d'Augusto dal co. Benvenuto di s. Rafaele stampata in Milano l'an. 1769, che anche la letteratura romana di questi tempi ha abbracciato. Ma sembra che questo autore abbia anzi voluto porci sotto degli occhi un filosofico quadro che una esatta storia. E saravvi forse chi brami in lui un più giusto ordin di cose, e non approvi, a cagion d'esempio, che la serie degli storici che nel secolo d'Augusto fiorirono, cominci da Svetonio che visse a' tempi di Traiano e di Adriano, e comprenda ancora Giustino scrittore di età incerta, ma posteriore anche a Svetonio. Comunque sia, non sarà forse spiacevole il vedere uno stesso argomento trattato per diversa maniera; e se questa mia Storia non sarà degna di venire al confronto con quella del dotto nominato autore, io compiacerommi che giovi almeno a rilevarne maggiormente le bellezze e i pregi (53) Molti altri autori h .
Io debbo qui rendere una pubblica testimonianza di riconoscenza e di stima
al ch. Sig. Co. Benvenuto di S. Rafaele, il quale al vedere e in questo e in
qualche altro passo della mia Storia rilevato qualche picciolo neo nel suo
Secolo d'Augusto, invece di risentirsene, come avrebbe fatto per avventura
qualche altro a lui di molto inferiore in sapere, si compiacque di scrivermi