Storia della letteratura italiana (Tiraboschi)/I-3/II/III
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in Roma, e con uguale fervore applicossi agli studj. Era già egli stato discepolo di un Diogene Stoico, poscia frequentò la scuola, e giovossi assai del sapere di Panezio1. A lui pure si aggiunsero e C. Furio e Q. Tuberone e Q. Muzio Scevola, ed altri molti tra’ principali Cavalieri Romani2 .
VI. Così cominciavano in Roma a fiorire gli studj, e cominciavano i Romani ad intendere, che il valor militare non era la sola strada, che conducesse all’immortalità del nome. I Filosofi Greci vedevano i più nobili Cittadini farsi loro discepoli, e molti ancora ne vedevano alle loro scuole i Greci Retori ossia Precettori dell’Eloquenza. Di questi io non trovo veramente notizia alcuna distinta presso gli antichi scrittori. Ma che molti ve ne avesse in Roma, chiaro si rende e dal discorso di Polibio a Scipione riferito poc’anzi, e molto più dal Decreto, che ora riferiremo, e per cui poco mancò, che sì lieti principj fino dalla radice non fosser troncati. L’anno 592, cioè sei soli anni dappoiché venuti erano a Roma i Filosofi e i Retori Greci, ecco un severo editto del Romano Senato, che commette al Pretore di fare in modo, che Retori e Filosofi più non siano in Roma. 20 21 Svetonio3 e Gellio 4ce ne hanno conservate le precise parole: C. Fannio Strabone e M. Valerio Messala Coss. (questi furono appunto Consoli nel detto anno 592) Senatus Consultum de Philosophis & Rhetoribus factum est. M. Pomponius Prætor Senatum consuluit, quod verba facta sunt de Philosophis & Rhetoribus. De ea re ita censuerunt, ut Marcus Pomponius Prætor animadverteret, uti e Republica fideque sua videretur,
Romæ ne essent. Qual fosse il motivo di sì rigoroso decreto, e qual ne fosse l’effetto, i sopraccitati scrittori nol dicono chiaramente. Quanto al motivo pare, che que’ severi Padri Coscritti avvezzi a non conoscere altro studio che quello di soggiogare il mondo, temessero, che l’applicarsi alle scienze dovesse seco portare lo sconvolgimento e la rovina della Repubblica, e che la gioventù Romana non potesse avere amore alle scienze senza aver in odio la guerra. Se allor si fosse trovato nel Senato Romano un famoso moderno Filosofo, che con eloquente patetico ragionamento ha preteso di mostrare il gran danno, che dal coltivare le scienze ridonda negli uomini, avrebbe certo riscosso grandissimo plauso. E’ probabile, che il decreto del Senato avesse il suo effetto; che non erano allora que’ Padri soliti a soffrire, che i loro editti fossero non curati. Ed io penso, che la dispersione fatta de’ Greci in diverse Città, che abbiam veduta rammentarsi da Polibio, fosse appunto effetto di tal decreto. Ma certo è, che l’amor delle scienze non venne meno per tal decreto in Roma; anzi nacque quindi a non molto altra occasione, che il fece sempre più vivo ed ardente.
VII. Saccheggiata aveano gli Ateniesi la città di Oropio nella Beozia; di che avendo que’ Cittadini portate al Romano Senato le loro doglianze, questo commise a’ Sicionj, che esaminato l’affare imponessero agli Ateniesi tal multa, che a’ danni da loro recati ad Oropio fosse proporzionata. Furon perciò gli Ateniesi condannati da’ Sicionj a pagare a que’ di Oropio presso a cinquecento talenti. Troppo gravosa sembrò agli Ateniesi tal multa; e un’ambasciata inviarono essi al Senato Romano, perché la pena fosse resa più mite5. Pare, che in questa occasione volessero gli Ateniesi far pompa presso i Romani del lor valor nelle scienze, poiché a sostenere l’onore di questa ambasciata scelsero i tre più rinomati Filosofi, che allor vivessero. Furon questi Carneade, Diogene, Critolao, Capi delle tre Filosofiche Sette, che fiorivano in Grecia, Carneade della Accademica, Diogene della Stoica, Critolao della Peripatetica, uomini insieme valorosi in eloquenza, ed atti, benché per diversa maniera, a persuadere altrui ciò, che più loro piacesse. VIII. E’ sembrato al Bruckero23 assai malagevole il fissare precisamente il tempo di questa ambasciata, e il trovare un anno, a cui possano convenire tutte le circostanze, che di questo memorabil fatto ci han tramando gli antichi scrittori. Io confesso, che non vi scorgo difficoltà. Cicerone, citando ancora l’autorità di Clitomaco, dice24, che erano allora Consoli P. Scipione e M. Marcello; e altrove aggiugne25, che giovani erano allora Lelio e Scipion l’Africano. Abbiamo ancor da Plutarco26 , che Catone allora era vecchio. Or tutto ciò ottimamente conviene all’anno 598. Furono allora Consoli P. Scipione Nasica e M. Claudio Marcello, né altro anno vi ebbe intorno a questi tempi medesimi, in cui due Consoli fossero di tali famiglie. Scipione Africano e Lelio erano ancor giovani, come di sopra si è detto, e Catone era in età assai avanzata, perciocché dice egli stesso presso Cicerone27, che avea 65 anni nel Consolato di Cepione e di Filippo, che furon Consoli l’anno 584, onde a quest’anno contava già Catone 79 anni di età. Non vi ha dunque ragione alcuna, che renda dubbiosa l’Epoca dell’ambasciata de’ Filosofi Greci da noi fissata all’anno di Roma 598.
IX. Venuti a Roma i tre illustri Filosofi, e ammessi al Senato, esposero, secondo il costume, per mezzo d’interprete il soggetto della loro ambasciata. Ma perché l’affare richiedeva matura deliberazione, costretti essi frattanto a fermarsi in Roma, cominciarono a far pompa del lor sapere e della loro eloquenza. Ne’ luoghi dunque più popolosi della Città or l’uno or l’altro prendevano a quistionare, e colla novità degli argomenti, colla sottigliezza de’ lor pensieri, coll’eleganza del favellare riscuotevano ammirazione ed applauso. Diversa era la lor maniera di ragionare, come osserva Gellio28, allegando l’autorità di due antichi scrittori, Rutilio e Polibio. Diogene usava di uno stile parco e modesto, con cui semplicemente sponeva i suoi pensieri; fiorito ed elegante nel suo parlare era Critolao; forzoso ed eloquente Carneade, di cui Cicerone ancora dice29, che aveva una
[7], che avea una forco Htft. Crit. PhiloC e, II. p. 8. (5) De SeneS. n. 5. (2) Acad. Qpsft. 1. IV. 11.45. (6) L. VII. e. XIV. (3) Tuie. Qp*ft. L IV. n. 3. (7) De Orat. lib. II. n. 3I. (4) In Caton. Cenf. Digitrzed by Google che avea una forza e varietà incredibile di ragionare, e che niuna cosa prese mai a sostenere nelle sue aringhe, cui non persuadesse, niuna a combattere, cui totalmente non atterrasse. Di lui raccontasi30, che avendo un giorno in presenza di Catone e di altri molti eloquentemente parlato in lode della giustizia, e i vantaggi mostrati, che ne derivano, il dì seguente per dar pruova del suo ingegno parlò con uguale eloquenza contro la giustizia medesima, e mostrò esser questa l’origine di gravissimi danni. Questa maniera di favellare, e questo genere di eloquenza sconosciuto fin allora a’ Romani, li sorprese talmente, che di altro quasi non parlavasi in Roma che de’ Filosofi Greci. Tutti i giovani, dice Plutarco31 , che vogliosi erano delle scienze, ad essi ne andarono, e udendoli rimaser sorpresi per maraviglia. Ma singolarmente la grazia di favellare, e la forza nulla minore di persuadere, che avea Carneade, avendo a lui tratti gli uditori in gran folla, per tutta la Città udivasene il nome, e pubblicamente diceasi, che il Filosofo Greco insinuandosi con ammirabil arte negli animi de’ giovani all’amor delle scienze gli accendeva, da cui quasi da entusiasmo compresi abbandonati tutti gli altri piaceri, volgevansi allo studio della Filosofia.
X. L’affollato concorso, che a’ ragionamenti de’ Greci Filosofi faceasi da ogni parte, l’universal plauso, con cui erano ascoltati, non piacque punto al severo Catone. Temeva egli, come dice Plutarco, che la gioventù Romana di questi studj invaghita non anteponesse alla militare la letteraria lode. E questo timore molto più segli accrebbe, quando avvertì, che anche nel Senato Romano cominciava ad entrare il genio della Greca Filosofia. Perciocché C. Acilio uomo assai ragguardevole ottenne di poter nel Senato ripetere latinamente que’ discorsi, che da’ Filosofi Greci uditi avea nella natia loro favella. Più non vi volle, perché Catone si risolvesse di rimandare onoratamente alle lor case questi tre a suo parere troppo perniciosi Filosofi. Venuto dunque in Senato prese a gravemente riprendere i Magistrati, perché permettessero, che uomini, i quali sì agevolmente potevano persuadere altrui checché loro piacesse, più lungamente si fermassero in Roma; doversi spedir quanto prima l’affare, per
(1) Quinti!, I XII. e, I. (2) Iu Càtorì. Ccnf. ^ 1
- ↑ Cic de Fin. I. IL n. 8
- ↑ Lo studio della lingua greca cominciò fin da questi tempi in Roma a rivolgersi in abuso. Narra Suida, e assai prima di lui avea narrato Polibio (Excepta ex Legat opud Vales p. 189, 190) che Aulo Postumio, uomo di nobilissima nascita, ma leggero e loquace oltre modo, fin da fanciullo diedesi allo studio della lingua greca, ma in sì affettata maniera che la greca letteratura divenne odiosa a' più saggi che erano in Roma. Volle poscia scrivere un poema e una storia delle cose della Grecia, e lusingossi di ottener lode presso i dotti dicendo nell'esordio, che era degno di compatimento se essendo romano, avea scritto in greco; ridicola scusa, dice Polibio, e somigliante a quella di chi, essendosi spontaneamente offerto alla lotta, se ne scusasse poscia perchè non ha forze ad essa bastevoli.
- ↑ De Q, Rhetor. e I
- ↑ L. XV. e XI.
- ↑ Geli. lib. VII. e XIV. Plutarco in Caton. Cenf. ec