Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/X. L'ultimo trecentista

X. L'ultimo trecentista

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IX. Il Decamerone XI. Le Stanze
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L’ULTIMO TRECENTISTA


[Franco Sacchetti — Idillio e commedia — Il mondo stesso boccaccevole, in aspetto piú borghese e domestico — Povertá di arte nelle novelle del Sacchetti — La tristezza pel mutamento dei costumi e lo sparire degli spiriti magni — Il Lamento di Antonio da Ferrara — Fisonomia della nuova societá — Decadenza della vita politica e religiosa: fiorire della vita privata e gaia — Il mondo greco-latino, involucro e impaccio del nuovo ideale d’arte — Il Boccaccio come abbozzo del futuro svolgimento della letteratura italiana.]

L’ultima voce di questo secolo è Franco Sacchetti, l’uomo «discolo e grosso». Di mezzana coltura, d’ingegno poco al di lá del comune ma di un raro buon senso, di poca iniziativa e originalitá ma di molta semplicitá e naturalezza, era nella sua mediocritá la vera eco del tempo. Gli facea cerchio la turba de’ rimatori, ripetizione stanca del passato: il lucchese Guinigi e Matteo da San Miniato, e Antonio da Ferrara, e Filippo Albizi, e Giovanni d’Amerigo, e Francesco degli Organi, e Benuccio da Orvieto, e Antonio da Faenza, e Astorre pur da Faenza, e Antonio Cocco, e Angelo da San Geminiano, e Andrea Malavolti, e Antonio Piovano, e Giovanni da Prato, e Francesco Peruzzi, e Alberto degli Albizi, e Benzo de’ Benedetti, che lo chiama «eroe gentile», e parecchi altri. E il nostro «eroe gentile» riceveva e mandava sonetti, cambiando lodi con lodi. Ultime voci de’ trovatori italiani. Luoghi comuni e forma barbara annunziano un mondo tradizionale ed esaurito. Ci trovi anche sentimenti morali e religiosi, ma insipidi e freddi come un’avemaria ripetuta meccanicamente tutt’i giorni. Per questo [p. 332 modifica]lato il Sacchetti continua il passato, fa perché gli altri fanno, pensa cosí perché gli altri cosí pensano, piglia il mondo come lo trova, senza darsi la pena di esaminarlo. Questa è la sua parte morta. Ma ci è una parte viva, quella a cui partecipa e che suona nel suo spirito, quella in cui apparisce la sua personalitá; ed è appunto quel mondo di cui il Boccaccio è cosí vivace espressione.

Franco è il vero «uomo della tranquillitá». Il Boccaccio sdegnava l’epiteto, e talora voleva sonare la tromba e rappresentare azioni e passioni eroiche. Franco non ha pretensioni, e si mostra com’è, ed è contento di esser cosí. È uomo stampato all’antica in tempi corrotti, buon cristiano e insieme nemico degl’ipocriti e mal disposto verso i preti e i frati, diritto ed intero nella vita, alieno dalle fazioni, benevolo a tutti, talora mordace ma senza fiele, modesto estimatore di sé e lontanissimo di mettersi allato a’ grandi poeti di quel tempo, che erano, secondo lui e i contemporanei, Zanobi da Strada, il Petrarca e il Boccaccio. Quali erano i desidèri del nostro brav’uomo? Menare una vita tranquilla e riposata; ed era il piú contento uomo del mondo quando in villa o in cittá potea darsi buon tempo fra le allegre brigate, motteggiando, novellando, sonetteggiando. Ci è in lui dell’idillico e del comico. Ama la villa, perché in cittá

mal vi si dice, e di ben far vi è caro;

e nelle sue «cacce», nelle sue ballate senti non di rado la freschezza dell’aura campestre, come è quella, cosí briosa, delle «donne che givano cogliendo fiori per un boschetto», e l’altra delle «montanine», di una grazia cosí ingenua. In cittá è un burlone, pieno il capo di motti, di facezie, di fatterelli, e te li snocciola come gli escono, con tutto il sapore del dialetto e con un’aria di bonomia che ne accresce l’effetto. I suoi sonetti e le canzoni sono molto al di sotto de’ madrigali e ballate o canzoni a ballo, di un andare svelto e allegro, dove non mancano pensieri galanti e gentili: dietro il poeta senti l’uomo che ci piglia gusto e vi si sollazza, e sta giá con l’immaginazione nella [p. 333 modifica]lieta brigata dove i versi saranno cantati, tra musica e ballo. Veggasi la ballata del «pruno» e il madrigale del «falcone».

Le novelle del Sacchetti hanno per materia lo stesso mondo boccaccevole in un aspetto piú borghese e domestico: frizzi, burle, amorazzi, ipocrisie fratesche, aneddoti, pettegolezzi vengon fuori; bassa vita popolana in forma popolana. Alcuni le pregiano piú che il Decamerone per lo stile semplice e naturale e rapido, non privo di malizia e di arguzia fiorentina. Ma la naturalezza del Sacchetti è quella dell’uomo a cui le muse sono avare de’ loro doni. Non è artista, e neppure d’intenzione: gli manca ogni sorta d’ispirazione. Quel mondo, con tanta magnificenza organizzato nel Decamerone, è qui un materiale grezzo, appena digrossato. Perciò delle sue trecento novelle si ricorda appena qualche aneddoto: nessun personaggio è rimasto vivo.

Il Sacchetti sopravvisse al secolo. Nel suo buon umore ci è una nota malinconica, che all’ultimo manda piú lugubre suono. Non piace al brav’uomo un mondo in cui chi ha piú danari vale piú, e grida che «vertú con pecunia non si acquista», e che «gentilezza e virtú son nella mota». Dipinge al vivo gli avvocati de’ suoi tempi:

     Legge civile e ragion canonica
apparan ben, ma nel mal spesso l’usano:
difendono i ladroni e gli altri accusano.
     Chi ha danari e chi piú puote scusano:
tristo a colui che con costor s’incronica,
se non empie lor man sotto la tonica!

Ora se la piglia con le vecchie, ora è tutto stizzoso per le nuove fogge di vestire portate a Firenze da altri paesi. Grida contro la turba de’ rimatori e de’ cantori:

     Pieno è il mondo di chi vuol far rime:
tal compitar non sa, che fa ballate,
tosto volendo che sieno intonate.
     Cosí del canto avvien: senz’alcun’arte
mille Marchetti veggio in ogni parte.

[p. 334 modifica]E quando muore il Boccaccio, «copioso fonte di eleganze», esclama:

     Ora è mancata ogni poesia,
e vòte son le case di Parnaso...
S’io piango o grido, che miracol fia,
pensando che un sol c’era rimaso,
Giovan Boccacci: ora è di vita fore?...
...Quel duol che mi pugne
è che niun riman, né alcun viene,
che dia segno di spene
a confortar che io salute aspetti,
perché in virtú non è chi si diletti...
Sará virtú giá mai piú in altrui,
o stará quanto medicina ascosta,
quando anni cinquecento perdé il corso?...
Chi fia in quella etate,
forse vedrá rinascer tal semenza;
ma io ho pur temenza,
che prima non risuoni l’alta tromba,
che si fará sentir per ogni tomba...
Ne’ numeri ciascuno ha mente pronta,
dove moltiplicando s’apparecchia
sempre tirare a sé con la man destra...
E le meccaniche arti
abbraccia chi vuol esser degno ed alto...
     Ben veggio giovinetti assai salire
non con virtú, perché la curan poco,
ma tutto adopron in corporea vesta:...
...giá mai non cercan loco
dove si faccia delle muse festa...
     Come deggio sperar che surga Dante,
che giá chi il sappia legger non si trova?
e Giovanni, che è morto, ne fe’ scola...
     Tutte le profezie, che disson sempre
tra il Sessanta e l’Ottanta esser il mondo
pieno di svari e fortunosi giorni,
vidon che si dovean perder le tempre
di ciascun valoroso e gire al fondo.

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E questo è quel che par che non soggiorni...
E, s’egli è alcun che guardi,
gli studi in forni vede giá conversi...


Questa canzone di cui abbiamo citati alcuni brani è l’elogio funebre del Trecento, pronunziato dal piú candido e simpatico de’ suoi scrittori, l’ultimo trecentista. Sulla fine del secolo il vecchio burlone gitta uno sguardo malinconico indietro, e gli si affaccia la grande figura di Dante, e l’Africa col suo «alto poeta», e Giovan Boccacci non col suo festevole Decamerone, ma co’ dotti e magni volumi latini, De’ viri illustri, Delle donne chiare, e «il terzo»:

Buccolica; il quarto: Monti e fiumi;
il quinto: Degli iddii e lor costumi.

Oimè! Dante è morto, morto è Boccacci, Petrarca muore: chi rimane? E l’ultimo trecentista guarda intorno e risponde: — Nessuno. — Ricorda le infauste profezie, nunzie di sciagure fra il Sessanta e l’Ottanta, e gli pare venuto il finimondo. La forte semenza da cui uscirono i tre grandi e tanti altri dottissimi, teologi, filosofi, legisti, astrologi, è perita per sempre, o risurgerá dopo cinquecento anni, come fu della medicina? o non verrá prima il giudizio finale? Il mondo è dato all’abaco e alle arti meccaniche: «nuda è l’adorna scuola» da tutte sue parti:

non si truova fenestra
che valor dentro chiuda.

La nuova generazione è tutta dietro alle mode e a’ sollazzi e al guadagno, e non cura virtú, e spregia le muse, e non ci è chi sappia leggere Dante, e gli studi sono mutati in forni. Il poeta accomiata la canzone in questo modo:

     Orfana, trista, sconsolata e cieca,
senza conforto e fuor d’ogni speranza,
se alcun giorno t’avanza,
come tu puoi, ne va’ peregrinando,
e di’ al cielo: — Io mi ti raccomando. —

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Con questi tristi presentimenti si chiude il secolo. Il Dugento finisce con Cino e Cavalcanti e Dante giá adulti e chiari: finisce come un’aurora entro cui si vede giá brillare la vita nuova, una nuova èra. Il Trecento finisce come un tristo tramonto, cosí tristo e oscuro che il buon Franco pensa: — Chi sa se tornerá il sole? —

Antonio da Ferrara, sparsasi voce della morte del Petrarca, intuona anche lui un poetico Lamento. Piangono intorno al grand’uomo Gramatica, Rettorica, Storia, Filosofia; e lo accompagnano al sepolcro di Parnaso

E Pallas Minerva, venuta dall’angelico regno, conserva la sua corona. In ultimo della mesta processione spunta l’autore col suo nome, cognome e soprannome:

È Anton de’ Beccar, quel da Ferrara,
che poco sa ma volentieri impara.

È anche un brav’uomo costui; vede anche lui tutto nero:

     Del mondo bandita è concordia e pace,
per l’universo la discordia trona,
sommerso è ogni bene,
l’amor di Dio ha bando,
e parmi che la fé vada mancando.

Sono lamenti senili di uomini superficiali e mediocri, dove non trovi alcuna profonditá di vista e non forza di mente o di sentimento. Pur vi trovi, ancorché in forma pedantesca, la fisonomia del secolo negli ultimi giorni della sua esistenza.

Quella nota malinconica è la stessa forza che tirò alla Certosa il vecchio Boccaccio, e volse a Maria gli ardori del Petrarca, e rattristò le ultime ore di Franco Sacchetti, e piegò le ginocchia di Giovanna innanzi a Caterina da Siena. Perché quella forza, contraddetta e negata nella vita, occupava ancora l’intelletto, e [p. 337 modifica]tra le orgie di una borghesia arricchita e gaudente comparirá talora come un rimorso, e chiamerá gli uomini alla penitenza.

«La fede va mancando», grida il ferrarese; e «gli studi si convertono in forni», nota il fiorentino. Non si potea meglio dipingere la fisonomia che andava prendendo il secolo e che comunicava alla nuova generazione. Possiamo disegnarla in brevi tratti.

Come il popolo grasso piglia il sopravvento in Firenze, cosí nelle altre parti d’Italia la borghesia si costituisce, si ordina, diviene una classe importante per industrie, per commerci, per intelligenza e per coltura. E Io stacco si fa profondo tra la plebe e la classe colta. La coltura non è privilegio di pochi, ma si allarga e si diffonde, e fa del popolo italiano il piú civile di Europa.

La vita pubblica e la vita religiosa rimane stazionaria fra l’universale indifferenza. Continuano le stesse forme; ma, sciolte dallo spirito che le rendea venerabili, quelle persone, quei riti e quel linguaggio appariscono cosa ridicola e diventano il motivo comico delle liete brigate.

La vita privata viene su. Ed è vita socievole, spensierata, condita dallo spirito. Gli uomini si uniscono in compagnie o brigate non per discutere, ma per sollazzarsi, in cittá e in villa. E si sollazzano a spese delle classi inculte. Trovatori, cantori e novellatori non sono piú il privilegio delle castella e delle corti. L’allegria feudale si spande anche nelle case de’ ricchi borghesi, e i racconti e i piacevoli ragionamenti condiscono i loro piaceri, e in una forma spesso licenziosa e cinica. La licenza del linguaggio era il solletico dell’allegria.

Cosí venne una letteratura sensuale e motteggiatrice, profana e pagana. Le novelle e i romanzi tennero il campo. L’allegra vita della cittá si specchiava in forme liriche svelte e graziose: rispetti, strambotti, frottole, ballate e madrigali. L’allegra vita de’ campi avea pur le sue forme: le «cacce» e gl’idilli. L’anima di questa letteratura è lo spirito comico e il sentimento idillico.

La forma dello spirito comico è la caricatura penetrata di un’ironia maliziosa, ma non maligna. La forma idillica è la [p. 338 modifica]descrizione della bella natura, penetrata di una molle sensualitá. Traspare da tutta questa letteratura una certa quiete e tranquillitá interiore, come di gente spensierata e soddisfatta.

Giovanni Boccaccio è il grande artista che apre questo mondo allegro della natura.

Il misticismo perisce, ma ben vendicato, traendosi appresso religione, moralitá, patria, famiglia, ogni semplicitá e dignitá di vita. Vengono nuovi ideali: la voluttá idillica e l’allegria comica. Sono le due divinitá della nuova letteratura.

Ma, come l’antica letteratura vede i suoi ideali attraverso un involucro allegorico-scolastico, cosí la nuova non può trovare se stessa se non attraverso l’involucro del mondo greco-latino.

La vita del Boccaccio è in compendio la vita letteraria italiana, come si andrá sviluppando. Comincia scopritore instancabile di manoscritti, e tutto mitologia e storia greca e romana. Non è ancora un artista: è un erudito. La sua immaginazione erra in Atene e in Troia. Tenta questo e quel genere, e non trova mai se stesso. Quel mondo è come un denso velo che muta il colore degli oggetti e gliene toglie la vista immediata. Imita Dante, imita Virgilio, petrarcheggia e platoneggia come il buon Sacchetti. Scrive magni volumi latini, ammirazione dei contemporanei. E si scopre artista, quando, gittato via tutto questo bagaglio, scrive per sollazzo, abbandonato alla genialitá dell’umore. Dove cerca il piacere, trova la gloria.

Questa vita, ne’ suoi tentennamenti, nelle sue imitazioni, nelle sue pedanterie, ne’ suoi ideali, è la storia della nuova letteratura.