Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1890)/IV
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LA PROSA
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IV.
Se i rimatori o dicitori in rima aiutarono molto alla formazione del volgare, non minore opera vi diedero i bei favellatori, o favoleggiatori. Favella viene da fabella, favoletta, e perciò le lingue moderne furon dette favelle, lingue de’ favoleggiatori. Costoro nelle corti e ne’ castelli raccontavano novelle, come i rimatori poetavano d’amore. Così gl’inizii della nostra lingua furono,
Versi d’amore e prose da romanzo.
Come i versi, così le prose aveano già tutto un repertorio venuto dal di fuori. I rimatori attingevano nel codice d’amore; i novellatori o favellatori attingevano ne’ romanzi della Tavola rotonda o di Carlomagno. Il cavaliere errante era il tipo convenzionale degli uni e degli altri.
Questa letteratura non produsse altro che traduzioni, come sono i Conti di antichi Cavalieri, la Tavola rotonda, e i Reali di Francia: Tristano, Isotta, Lancillotto, il Re Meliadus, il profeta Merlino, Carlomagno, Orlando erano gli eroi dell’immaginazione popolare. Oggi ancora i cantastorie napoletani raccontano ad una plebe avida di fatti maravigliosi le geste di Orlando e di Rinaldo. Anche la storia romana prese questa forma. Un codice antico ha per titolo: Lucano tradotto in prosa, ed è la versione del Giulio Cesare, romanzo in versi rimati di Jaques de Forest. La guerra tra Cesare e Pompeo è narrata con colori e particolari tolti alla vita cavalleresca. Cicerone, mastro di rettorica e buono chierico, così comincia una sua aringa a Pompeo: «Li Re e Conti e Baroni e l’altro popolo ti richieggono e pregano che tu non metta la cosa a indugio». E non è meraviglia che anche nelle cronache penetri questa vita cavalleresca. Si leggono non senza diletto i Diurnali, o come oggi si direbbe, giornali di Matteo Spinelli, la più antica cronaca italiana, non solo per la semplicità e naturalezza del racconto in un dialetto assai prossimo al volgare, ma per la vaghezza de’ fattarelli, che pare un favellatore e non uno storico. Di maggior mole è la storia di Firenze di Ricordano Malespini, che dagli inizii della città si stende sino al 1282. Quando narra fatti contemporanei, testimonio veridico ed esatto, nè la sua fede guelfa lo induce ad alterare i fatti. Ma quando esce da’ suoi tempi, ti trovi nell’infanzia della coltura. Anacronismi ed errori geografici sono accoppiati con la più grossolana credulità nelle favole più assurde, improntate di tutto il maraviglioso de’ romanzi cavallereschi. Dice che la Chiesa di san Pietro fu fondata ai tempi di Ottaviano, quando san Pietro e Cristo stesso non erano ancora nati; che la mattina di Pentecoste fu celebrata la messa nella chiesa della canonica di Fiesole al tempo di Catilina; che il tempio di san Giovanni in Firenze fu fondato alla morte di Cristo; che Pisa viene da pisare o pesare, Lucca da luce, e Pistoja da pistolenzia: narra gli amori di Catilina con la Regina Belisea, figlia del Re Fiorino, e le avventure di Teverina, figlia di Bèlisea, e pare una pagina tolta a qualche romanzo allora in voga.
In queste versioni e cronache la lingua è ancor rozza e incerta, desinenze goffe o dure, sgrammaticature frequenti, nessun indizio di periodo, nessun colorito: non ci è ancora l'io, la personalità dello scrittore.
Come la poesia, così la prosa cavalleresca poco attecchì in Italia. Non solo non ci fu nessun romanzo originale, ma neppure alcuna imitazione. Tutto quel maraviglioso è riprodotto con quella stessa aridità e indifferenza, che senti nel Malespini, anche quando narra fatti commoventissimi, come la morte di Manfredi, o di Bondelmonte. Come l’uomo inculto parla assai meglio che non scrive, è a presumere che i novellatori raccontassero le loro favolette con una vivacità d’immaginazione e di affetto, che non trovi nei racconti e nelle cronache. Ci è una raccolta di novelle, detta il Novellino, che sembrano schizzi e appunti, anzi che vere narrazioni, simili a quegli argomenti che si dànno a’ giovanetti per esercizio di scrivere. Il libro fu detto fiore del parlar gentile: e veramente vi è tanta grazia e proprietà di dettato che stenti a crederlo di quel secolo, e sembrano piuttosto racconti rozzi e in voga raccolti e ripuliti più tardi. Ma se la lingua è assai più schietta e moderna che non è ne’ Conti di antichi Cavalieri e ne’ romanzi di quel tempo, e in tutti la stessa aridità. Ci è il fatto ne’ suoi punti essenziali, spogliato di tutte le circostanze e i particolari che gli dànno colore, e senza le impressioni e i sentimenti che gli dànno interesse. Pure, quando il fatto è semplice e breve, e non richiede arte, basta a conseguire l’effetto quella naturalezza e quel candore pieno di verità che è nel racconto. Eccone un esempio: «Leggesi del re Currado, padre di Corradino, che quando era garzone, si avea in compagnia dodici garzoni di sua etade. Quando lo re Currado favellava, li maestri che gli erano dati a guardia, non batteano lui, ma batteano di questi garzoni suoi compagni per lui. E quei dicea: perchè non battete me, chè mia è la colpa? Diceano li maestri: perchè tu sei nostro signore. Ma noi battiamo costoro per te, onde assai ti dee dolere, se tu hai gentil cuore, che altri porti pena delle tue colpe. E perciò si dice che lo re Currado si guardava molto di fallire per la pietà di coloro».
Se il romanzo e la novella non giunse ad esser popolare tra noi, e non divenne un lavoro d’arte, la ragione è che una materia tanto poetica si mostrò quando lingua e arte erano ancora nell’infanzia, e rimasa fuori della vita e dei costumi riuscì un frivolo passatempo, come fu della poesia cavalleresca. Trattata da illetterati questa materia non potè svilupparsi e formarsi, sopravvenuto in breve tempo il risorgimento dei classici e il rifiorire delle scienze, che trasse a sè l’animo delle classi colte. Quantunque chierico significasse ancora uomo dotto, e da’ pergami e dalle cattedre si parlasse ancora latino, ed in latino si scrivessero le opere scientifiche, già il laicato usciva dalle università vigoroso ed istrutto, con la giovanile confidenza nella sua dottrina e nella sua forza. Se il chierico tendeva a restringere in pochi la dottrina e farne un privilegio della sua milizia, lo spirito laicale tendeva a diffonderla, a volgarizzarla, a farla patrimonio comune. La libertà municipale, aprendo la vita pubblica a tutte le classi, costituiva in modo stabile un laicato colto e operoso, a cui non bastava più il latino, e che, formato nelle scuole, superbo della sua scienza, in quotidiana comunione con le altre classi, aveva già un complesso d’idee comuni, che costituivano la base della coltura. Erano nuove forze che entravano in azione e davano un indirizzo proprio alla vita italiana. A quella gente quei romanzi e quei racconti doveano sembrare trastullo di oziosi, spasso di plebe. Le idee religiose così come venivano bandite dal pergamo non doveano aver molta grazia a’ loro occhi; quella semplicità e rozzezza di esposizione dovea poco gradire a quegli uomini, che tutto codificavano e sillogizzavano. Certo non fu perciò estinta la razza dei novellatori e de’ predicatori; ma lo spirito della classe colta se ne allontanò, e i conti de’ cavalieri e le vite de’ santi rimasero occupazione di uomini semplici e inculti, senza eco e senza sviluppo. La società- 78 - |
La materia, a cui più volentieri si volgevano i traduttori, era l’etica e la retorica, l’arte del ben fare e l’arte del ben dire. Una delle più antiche versioni è il Libro di Cato o Volgarizzamento del Libro dei costumi, opera scritta in distici latini e divisa in quattro libri. L’opera ebbe tanta voga, che se ne fecero tre versioni, ed è spesso citata dagli scrittori. Nè è maraviglia: perchè ivi la morale è nella sua forma più popolana, essendo ciascuna regola del ben vivere chiusa in un distico, a guisa di motto o proverbio, o sentenza, facile a tenere in memoria. Ecco un esempio:
Virtutem primam esse puto, compescere linguam:
Proximus ille Deo est, qui scit ratione tacere.
Ed è tradotto egregiamente così:
«Costringere la lingua credo che sia la prima vertude: quelli è prossimo di Dio, che sa tacere a ragione.»
Esercizio utilissimo a’ giovani sarebbe il raffronto delle tre versioni, che ti mostra la lingua ne’ diversi stati della sua formazione. La terza versione, pubblicata dal Manni, ha per compagna l’Etica di Aristotile e la Rettorica di Tullio. Questa rettorica di Tullio è il Fiore di Rettorica, attribuito a Frate Guidotto da Bologna, e ad altri con più verisimiglianza a Bono Giamboni, e che comincia così: Qui comincia la Rettorica nuova di Tullio, traslatata da grammatica in volgare per frate Guidotto da Bologna. Che importanza avesse la rettorica, e quali miracoli potea produrre, si vede da queste parole del traduttore: «Fu uno nobile e vertudioso uomo, cittadino nato di Capova del regno di Puglia, il quale era fatto abitante della nobile città di Roma, che avea nome Marco Tullio Cicerone, lo quale fu maestro e trovatore della grande scienzia di Rettorica, la quale avanza tutte le altre scienzie, per la bisogna di tutto giorno parlare nelle valenti cose, siccome in far leggi e piati civili e cherminali, e nelle cose cittadine, siccome in fare battaglie, ed ordinare schiere, e confortare cavalieri nelle vicende degl’imperii, regni e principati, e governare popoli e regni e cittadi e ville, e strane e diverse genti, come conversano nel gran cerchio del mappamondo della terra.» Il libro è dedicato a Re Manfredi, il quale vi potrà avere sufficiente a adorno ammaestramento a dire in piuvico e in privato. Accanto a Cicerone compariva il grande poeta Virgilio: il quale Virgilio si trasse tutto il costrutto dello intendimento della rettorica, e ne fece chiara dimostranza. Il frate, cercando le magne virtudi di Cicerone, aggiunge: sì mi mosse talento di volere alquanti membri del Fiore di rettorica volgarizzare di latino in nostra lingua, siccome appartiene allo mestiere de’ laici, volgarmente. Onde pare che il tradurre volgarmente, in volgare, era mestiere dei laici, scrivendo i chierici in latino. Queste citazioni sono il ritratto del tempo. Ci si vede la grande impressione che facea su quelle menti Virgilio e Cicerone, d’arme maraviglioso cavaliere, franco di coraggio, armato di grande senno, fornito di scienzia e di discrezione, ritrovatore di tutte le cose. E ci si vede pure la gran fede nei miracoli della scienza, come se a vivere con buoni costumi e a ben dire in pubblico e in privato bastasse imparare le regole dell’Etica e della Rettorica. Nè si recavano in volgare le opere sole dell’Antichità, ma anche le contemporanee scritte in latino. Cito fra gli altri il volgarizzamento fatto da Soffredi del Grazia, notajo pistoiese, dei trattati di morale, dottissima opera di Albertano da Brescia, scritta in prigione. Il primo trattato, della dilezione di Dio e del prossimo e della forma della vita onesta, è composto l’anno 1238. L’opera levò tal grido, che fu tradotta in francese ed in inglese, e veramente ci è lì dentro raccolta tutta la dottrina del tempo intorno all’onesto vivere, sacra e profana. L’impulso fu tale che gli uomini più chiari si volsero a tradurre o compendiare grammatiche, rettoriche, trattati di morale, di fisica, di medicina. Ristoro di Arezzo scrivea sulla composizione della terra; Cavalcanti scrivea una grammatica e una rettorica; Ser Brunetto traduceva il trattato de Inventione di Cicerone e parecchie orazioni di Sallustio e di Livio, e sotto nome di Fiore di filosofi e di molti savi raccoglieva i detti e i fatti degli antichi filosofi, Pitagora, Democrito, Socrate, Epicuro, Teofrasto, e di uomini illustri, come Papirio, Catone. Ecco i fiori di Plato:
«Plato fue grandissimo savio e cortese, in parole, e disse queste sentenzie:
In amistade, nè in fede non ricevere uomo folle: più leggermente si passa l’odio de’ folli e dei malvagi, che la loro compagnia.
A neuno uomo ti fare troppo compagno. L’uomo è cosa troppo singolare; non puote sofferire suo pare, de’ suoi maggiori hae invidia, de’ suoi minori hae disdegno, a’ suoi iguali non leggermente s’accorda.
Quelli sono pessimi e maliziosi nimici, che sono nella fronte allegri e nel cuore tristi».
Secondo la rettorica di quel tempo si diceva Fiore quel raccogliere il meglio degli antichi e offrirlo al pubblico come un bel mazzetto. E si diceva anche Giardino, come spiegava Bono Giamboni nel suo Giardino di Consolazione, versione del latino: e chiamasi questo Giardino di Consolazione, imperò che siccome nel giardino altri si consola, e trova molti fiori e frutti, così in questa opera si trovano molti e begli detti, li quali l’anima del divoto leggitore indolcirà e consolerà. In effetti questo bel libro, dov’è molta semplicità e grazia di dettato, è una descrizione de’ vizi e delle virtù, con sopra ciascuna materia i detti de’ Savii e de’ Santi Padri, tanto che si può veramente dire dell’autore: Il più bel fior ne colse. Ecco il capitolo dell’ebrietade:
«Ebrietade, secondo che dice santo Agostino, è vile sepoltura della ragione e furore della mente. Anche dice: l’ebrietà è lusinghiere dominio, dolce veleno, soave peccato. Anche dice: la ebrietà molti ne ha guasti, toglie il senno, fa venire infermitadi, ingrossa lo ingegno, accende alla lussuria, mai non tiene segreto, induce a male parole. Santo Basilio dice: l’ebro, quando pensa bere, sì è beuto: come lo pesce con grande desiderio inghiottisce l’esca nella sua gola e non sente l’amo; così l’ebro, bevendo il vino, riceve in sè nemico senza ragione. E santo Paolo dice: non t’inebriare di vino, imperò che di vino esce lussuria».
Nè solo Fiore, o Giardino, ma si diceva pure Tesoro o Convito, quasi mostra di ricche pietre preziose, o di elettissime vivande. Brunetto che scrisse il Fiore, avea già scritto il Tesoro, in romanzo o lingua francesca. come più dilettevole e più comune che tutti gli altri linguaggi, e voltato poi in volgare da Bono Giamboni. Il Tesoro è il Cosmos di quel tempo, l’universalità della scienza, come s’insegnava nelle scuole, la Somma o il Compendio del sapere, e per dirla con le parole di Brunetto, un arnia di mele tratta di diversi fiori, un estratto di tutt’i membri di filosofia in una somma brevemente. Prende capo dalla filosofia siccome radice di cui crescono tutte le scienze, ed è descrizione di Dio, dell’uomo, della natura. Segue l’etica, o filosofia pratica, e poi la rettorica, che ha come appendice la politica, o l’arte di ben governare gli stati. È il disegno di una prima Facoltà universitaria, che prepara con questi studi i giovani alle scienze speciali. Questa vasta compilazione, di cui non era esempio, parve una maraviglia. Ma più importanti erano i Trattati speciali, dove gli scrittori mostravano qualche originalità, come furono i tre Trattati di Albertano, e il famoso trattato De regimine Principum di Egidio Colonna, dottissimo patrizio napolitano, volgarizzato da un toscano.
Il luogo che teneva la Fede, venne occupato dalla Filosofia. Non che la filosofia negasse la fede, anzi era proprio di quel tempo aver fede in tutto quello che era scritto; ma sotto quella forma s’affermava la società colta, e si distingueva da’ semplici e dagl’ignoranti. Il luogo comune di tutte le invenzioni era l’eterno Giobbe, l’uomo colpito dall’avversità, che maledice prima alla vita, e trova poi rimedio e consolazione nella filosofia, ovvero nello studio della scienza, nella visione delle opere divine e umane. Questo spiega la grande popolarità del libro di Boezio, della Consolazione, fondato appunto su questa base, dove la filosofia è rappresentata in sembianza di donna, in tale abito e in sì maravigliosa potenzia, che cresceva quando le piaceva, tanto che il suo capo aggiungeva di sopra alle stelle e sopra al cielo, e poggiava a monte e a valle. Tale è pure la visione di Ser Brunetto Latini nel Tesoretto, ch’è visione delle cose umane secondo il corso stabilito a ciascheduna:
Io le vidi ubbidire,
Finire e incominciare,
Morire e ingenerare.
La stessa base ha il libro, Introduzione alle virtù, di Bono Giamboni. E un giovine, caduto di buono luogo in malvagio stato, che narra di sè in questo modo: «Seguitando il lamento che fece Giobbe, cominciai a maledire l’ora e il die che io nacqui e venn’in questa misera vita, e il cibo che in questo mondo m’avea nutricato e governato. E pienamente luttando con guai e gran sospiri, i quali venieno della profondità del mio petto, fra me medesimo dissi: Dio onnipotente, perchè mi facesti tu vivere in questo misero mondo, acciocch’io patissi cotanti dolori e portassi cotante fatiche e sostenessi cotante pene? Perchè non mi uccidesti nel ventre della madre mia, o incontanente che nacqui non mi desti tu la morte? Facestilo tu per dare di me esempio alle genti, che neuna miseria d’uomo potesse nel mondo più montare? Lamentandomi duramente nella profondità di una oscura notte nel modo che avete udito di sopra, e dirottamente piangendo, m’apparve di sopra al capo una figura, che disse: Figliuolo mio, forte mi maraviglio, che essendo tu uomo, fai reggimenti bestiali, perciocchè stai sempre col capo chinato, e guardi le oscure cose della terra, laonde sei infermato e caduto in pericolosa malattia. Ma se tu dirizzassi il capo e guardassi il cielo e le dilettevoli cose del cielo considerassi, come dee fare uomo naturalmente, e di ogni tua malattia saresti purgato, e vedresti la malizia de’ tuoi reggimenti, e sarestine dolente. Or non ti ricorda di quello che disse Boezio: che, conciossiacosachè tutti gli altri animali guardino la terra, e seguitino le cose terrene per natura, solo all’uomo è dato a guardare il cielo, e le celestiali cose contemplare e vedere? Quando la boce ebbe parlato, si riposò una pezza, aspettando se alcuna cosa rispondessi o dicessi; e vedendo che stava mutolo, e di favellare nessuno sembiante facea, si rappressò verso me, e prese i ghironi del suo vestimento, e forbimmi gli occhi i quali erano di molte lacrime gravati per duri pianti ch’io avea fatto. Allora apersi gli occhi, e guardaimi dintorno, e vidi appresso di me una figura bellissima e piacente, quanto più innanzi fue possibile alla natura di fare. E della detta figura nascea una luce tanto grande e profonda, che abbagliava gli occhi di coloro che guardare la volieno: sicchè poche persone la poteano fermamente mirare. E della detta luce nasceano sotto grandi e maravigliosi splendori che alluminavano tutto il mondo. E io vedendo la detta figura così bella e lucente, avvegna che avessi dallo incominciamento paura, m’assicurai tostamente, pensando che cosa rea non potea così chiara luce generare. Cominciai a guardar la figura tanto fermamente, quanto la dolcezza del mio viso poteva sofferire. E quando l’ebbi assai mirata, conobbi certamente ch’era la Filosofia, nelle cui magioni avea lungamente dimorato. Allora incominciai a favellare e dissi: Maestro delle virtudi, che vai tu facendo in tanta profondità di notte per le magioni dei servi tuoi?».
Seguono discorsi tra questo servo della Filosofia e la Filosofia, il cui costrutto è questo: che la vita terrestre è vita di prova; e la vera vita è in cielo se però porti in pace le pene e le tribulazioni di questo mondo, chi vuole essere verace figliuolo di Dio, e non bastardo, pensando, che se egli sarà compagno di Dio nelle passioni, sarà suo compagno nelle consolazioni. La filosofia finisce con questo lamento: «O umana generazione, quanto se’ piena di vanagloria, e hai gli occhi della mente, e non vedi! Tu ti rallegri delle ricchezze e della gloria del mondo, e di compiere i desiderii della carne, che possono bastare quasi per uno momento di tempo, perchè poco basta la vita dell’uomo: e queste sono veracemente la morte tua, perchè meritano nell’altro mondo molte pene eternali. E della povertà e delle tribulazioni del mondo ti turbi e lamenti, che poco tempo possono durare: e queste sono veracemente la tua vita, perchè se si comportano in pace meritano nell’altro mondo molta gloria perpetuale. Disse uno savio: quello che ne diletta nel mondo, è cosa di momento, e quello che ne tormenta nell’altro, durerà ma’ sempre». E segue, citando i detti dell’Apostolo, di san Pietro, e di Salomone.
Questo era il tema comune delle prediche, salvo che qui il predicatore è la Filosofia, che si fa interprete di Dio, e cita Salomone e san Pietro e i Santi Padri. Questo concetto è l’idea fondamentale della leggenda, una storia fantastica, la cui base è il peccatore condannato o redento. In queste leggende Dio e il demonio sono gli attori principali: Dio, che co’ suoi Angioli e le sue virtù tira l’anima alla rinunzia de’ beni terrestri e alla contemplazione delle cose celesti, e il demonio che la tiene stretta e affezionata alla terra. L’uomo, mosso dalle naturali inclinazioni, vende l’anima al demonio pur d’essere felice in terra, e lo spettacolo finisce nelle tenebre e nel fuoco dell’Inferno. Ma spesso la tragedia si solve nella commedia, cioè nel trionfo e nel gaudio dell’anima, quando, ajutata dalla divina grazia, sa riscattarsi dal demonio e acquistare il Paradiso. Questa lotta tra Dio e il demonio è la battaglia dei vizi e delle virtudi, che nella Introduzione alle virtù del Giamboni la Filosofia mostra al suo servo, perchè in quella immagine fortifichi la sua fede. Questa è pure la base della leggenda del dottore Fausto, che vendè l’anima al diavolo, leggenda così popolare al medio evo, e resa immortale da Goethe. E questo è anche il concetto del mondo lirico dantesco, dove Beatrice diviene la Filosofia, e le gioie e i dolori dell’amore terrestre svaniscono nella contemplazione intellettuale della Scienza.
Così il secolo decimoterzo si chiude con uno stesso concetto, esposto in prosa e in poesia. Brunetto, Giamboni e Dante s’incontrano nella stessa idea, o per dir meglio era questa l’idea comune, elaborata in tutto il medio evo, e che sullo scorcio di quel secolo ci si presenta netta e distinta, consapevole di sè. Ma in prosa non trovò quell’adeguata espressione che seppe dare Dante al suo mondo lirico. Mancò la leggenda, come era mancata la novella, e mancò il romanzo religioso o spirituale, com’era mancato il romanzo cavalleresco. Lo scrittore è più intento a raccogliere che a produrre. Fra tanti fiori e Giardini e Tesori manca l’albero della vita, l’anima impressionata e fatta attiva che produca. Ci è un lavoro di traduzione e di compilazione, non ci è ancora un lavoro di assimilazione, e tanto meno di produzione. Le ricchezze son tante, che tutta l’attività dello spirito è consumata a raccoglierle, anzi che a crearne di nuove. Senti una stanchezza a leggere queste traduzioni o compilazioni, dove niente è affermato senza un ipse dixit, o piuttosto ipse dixerunt, tante e così accumulate sono le citazioni. E non ci è tregua, non digressioni, non varietà in questi Giardini, dove hai innanzi un cicerone insopportabile, sempre con la stessa voce e lo stesso tuono. Nessun movimento d’immaginazione o di affetto; nessun vestigio di narrazione o descrizione; l’esposizione didattica, il trattato, riempie l’intelletto, e t’uccide l’anima. L’espressione più chiara del secolo furono i dottissimi Brunetto Latini e Bono Giamboni, traduttori e compilatori infaticabili. Basti dire che il Giamboni, oltre le opere avanti accennate, ha tradotto pure le storie di Paolo Orosio, l’Arte della Guerra di Flavio Vegezio e la Forma di onesta vita di Martino Dumesse.
La gloria di questo secolo, cominciatore di civiltà, è di aver preparato il secolo appresso, lasciandogli in eredità una ricca messe di cognizioni fatte volgari, e la lingua e la poesia formata nella sua parte tecnica. Quel tradurre fu un esercizio utilissimo, che diede forma e stabilità alla nuova lingua, e quella pieghevolezza ed evidenza che viene dalla necessità di rendere con esattezza il pensiero altrui. Principe de’ traduttori fu Bono Giamboni, così terso e fresco che molte pagine con lievi correzioni si direbbero scritte oggi, soprattutto dove sono descrizioni di animali o di virtù e di vizi.
In queste prose didattiche non ci è di arte neppure la intenzione. Ai contemporanei di Cino, di Cavalcanti, di Dante quelle nude e aride prose doveano sembrare assai povera cosa. E si venne confermando l’opinione che il volgare non fosse buono che a dire di amore, e che le materie gravi si dovessero trattare in latino, come costumavano gli scrittori di polso.