Storia d'Italia/Libro XIX/Capitolo II
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II
Nel quale tempo Brunsvich, partito da Trento, aveva, il decimo dí di maggio, passato l’Adice con l’esercito, nel quale erano diecimila fanti, seicento cavalli bene armati, e tra loro molti gentiluomini, e quattrocento moschetti, con le zatte, e ributtato dalla Chiusa era sceso in veronese: e ancora che, presentendosi molto innanzi la venuta sua, fusse stato trattato che San Polo andasse all’opposito, nondimeno, non si usando maggiore diligenza in questa che nelle altre provisioni, erano i tedeschi in Italia innanzi che San Polo fusse in ordine di muoversi; il quale di poi fu necessitato a soggiornare molti dí in Asti, per raccôrre le genti e per la difficoltá delle vettovaglie, delle quali era, per tutta Italia ma in Lombardia specialmente, grandissima carestia. Né si poteva alle cose comuni sperare maggiore o piú pronto soccorso dal senato viniziano, il quale, se bene avesse affermato che l’esercito suo uscirebbe in campagna con dodicimila fanti, nondimeno il duca di Urbino, entrato in Verona, non pensava ad altro che alla difesa delle terre piú importanti del loro stato. Però discesi i tedeschi in su il lago di Garda ottennono Peschiera per accordo; il medesimo, Rivolta e Lunata: in modo che, padroni quasi di tutto il lago, riscotevano in molti luoghi taglie di denari, abbruciando quegli che erano impotenti a riscuotersi. Stimolavagli che andassino verso Genova Antoniotto Adorno, venuto in quello esercito; ma non avendo denari e avendo molte difficoltá, e per abboccarsi con Antonio de Leva uscito a questo effetto di Milano, camminavano lentamente per il bresciano; dove andorono a trovargli Andrea de Burgos e il capitano Giorgio, per mezzo de’ quali si dubitava che il duca di Ferrara, il quale in tanto timore degli altri non faceva provisione alcuna, non tenesse con loro occultamente qualche pratica. Indirizzoronsi dipoi i tedeschi alla volta di Adda per unirsi con Antonio de Leva: il quale, avendo il nono dí di giugno passato il fiume di Adda, con seimila fanti e sedici pezzi grossi di artiglieria, e alloggiato appresso a loro propinqui a Bergamo a tre miglia (nella quale cittá il duca di Urbino, venuto a Brescia, aveva, e in Brescia e in Verona, divise le sue genti), persuase loro, per l’estremo desiderio che aveva di ricuperare Lodi, di attendere prima a ricuperare lo stato di Milano che passare a Napoli.
Cosí il vigesimo dí si posono col campo a quella cittá, della quale partendosi il duca di Milano e ritiratosi a Brescia, vi aveva lasciato Giampaolo fratello suo naturale con manco di tremila fanti; e avendo piantato l’artiglieria, Antonio de Leva, al quale toccava il primo assalto, accostò i fanti spagnuoli dove era la maggiore rovina. Combatterno tre ore ferocemente, ma non si dimostrando minore la costanza e la virtú de’ fanti italiani che vi erano dentro furono ributtati; e diffidandosi potere piú ottenerla per assalto, ridusseno tutta la speranza del vincerla in su la fame: perché, non essendo ancora fatta la ricolta, era in Lodi carestia tale che non si distribuendo piú pane ad altri che a’ soldati bisognava che quegli della terra o morissino di fame o uscissino fuora con grandissimo pericolo. Scrive in questo modo il Capella il progresso del duca di Brunsvich. Ma i registri contengono che i tedeschi batterono molti dí Sonzino, e che finalmente l’ottennono per accordo; e che molti di loro, presentatisi sbandatamente a Pizzichitone, furono ributtati. Tentorono dipoi invano Castellione, nella quale oppugnazione fu ammazzato al duca di Brunsvich il cavallo sotto; e che mentre che erano nel cremonese, il duca di Urbino, uscito di Brescia, prese per forza la terra di Palazuolo, nella quale erano Emilio e Sforza, fratelli, de’ Mariscotti, con alcuni cavalli leggieri e fanti non pagati: Emilio restò prigione e Sforza si rifuggí nella rocca; alla quale venendo il soccorso, il duca di Urbino si ritirò a Pontevico. Ne’ quali dí, o forse prima, in bresciano, il conte di Caiazzo condottiere de’ viniziani prese il luogotenente del capitano Zucchero con molti cavalli. Andò dipoi il campo a Lodi, dove, per essere stata inondata gran parte del paese, non si poteva battere se non di verso Pavia. Che il vigesimo nono dí di giugno fu dato l’assalto eziandio da’ tedeschi di Brunsvich e di Antonio de Leva, nel quale i tedeschi nuovi riportorono piccola laude.
Ma tra’ tedeschi era giá entrata la peste; e anche essendo carestia nello esercito, molti partendosi ritornavano, per le terre de’ svizzeri e de’ grigioni, alle patrie loro. A che non faceva molto diligenza in contrario Enrico duca di Brunsvich loro capitano; perché avendo in Germania, per l’esempio de’ fanti condotti da Giorgio Fronspergh, conceputo grandissime speranze, gli riuscivano in Italia le cose piú difficili che non si aveva immaginato; ed essendogli mancati i denari, gli restava quasi impossibile tenere i fanti fermi intorno a Lodi non che condurgli nel regno di Napoli. Né Antonio de Leva gli somministrava denari, anzi gliene toglieva ogni speranza querelandosi sempre della povertá di Milano; perché, poiché ebbe perduto la speranza di ottenere Lodi, non pensava né attendeva ad altro che a dare loro causa di andarsene, dubitando non si fermassino in quello stato, e cosí avervi compagni al governo e alle prede: e aveva atteso, mentre che loro perdevano tempo, a fare battere i grani e le biade per tutto lo stato di Milano e portare le ricolte a Milano. Finalmente, dovendosi a’ tredici di luglio dare nuovo assalto a Lodi, i tedeschi si ammutinorno e mille se ne andorono verso Como; gli altri, restati in grandissimo disordine, allargorono l’artiglieria da Lodi. Per il che temendosi che non se ne tornassino in Germania, il marchese del Guasto, avuto licenza da Andrea Doria per dieci dí, sopra la fede, andò a Milano per persuadere a Brunsvich che non ritornasse in Germania; ma non si potendo intrattenere con le parole, se ne andorono per via di Como, restandone di loro con Antonio da Leva, al quale si era in quegli dí arrenduta Mortara, circa dumila: essendo cosa certa che se fussino soprastati qualche dí piú lo pigliavano per mancamento di vivere. Nella quale espedizione fu desiderato da molti la prontezza del duca d’Urbino, di essersi, quando il campo era intorno a Lodi, accostato o a Crema o a Pizzichitone, o almeno tenutovi qualche somma di cavalli leggieri per infestargli; benché, quando erano nel bresciano, gli avesse qualche volta costeggiati, ma non sí accostando mai a loro piú di tre miglia e procedendo sicuramente: nondimeno, contento di difendere lo stato de’ viniziani, non passò mai il fiume dell’Oglio. Non essendo anche stata piú pronta la passata di San Polo; il quale, non ostante tutti i disegni e le promesse fatte dal re di mandare per interesse suo gente contro a’ tedeschi, non arrivò in Piemonte se non in tempo che giá i tedeschi se ne andavano, e anche con numero di gente molto minore che non avevano publicato.
Non restavano perciò i collegati di fare di nuovo instanza col pontefice che si dichiarasse per loro, e che procedendo contro a Cesare con l’armi spirituali lo privasse dello imperio e del reame di Napoli. Il quale, poi che si fu scusato che, dichiarandosi, non sarebbe piú mezzo opportuno alla pace, che la dichiarazione sua susciterebbe maggiore incendio tra príncipi cristiani senza utilitá de’ collegati, per la povertá e impotenza sua, e la privazione di Cesare solleverebbe la Germania, per sospetto che e’ non volesse applicare a sé la autoritá di eleggere, ed eleggesse il re di Francia; dimostrava il pericolo imminente da’ luterani, i quali ampliavano: finalmente, non potendo piú resistere, si offerse parato a entrarvi se i viniziani gli restituivano Ravenna, condizione proposta da lui come impossibile; offerendo anche a obligarsi a non molestare lo stato di Firenze. Però, il vigesimo dí di giugno, arrivorno a Vinegia il visconte di Turrena e oratori del re di Inghilterra a instare con quel senato: promettendo per lui l’osservanza delle promesse; ma non avendo potuto ottenerne altro partirono male sodisfatti.
Ricuperò in questi tempi il pontefice la cittá di Rimini; la quale, tentata prima invano da Giovanni da Sassatello, si arrendé finalmente con patti che fussino salve le robe e le persone. Ma giá cominciavano a non si potere piú dissimulare i suoi piú profondi e piú occulti pensieri, dissimulati prima con molte arti: perché essendogli infissa nell’animo la cupiditá di restituire alla famiglia sua la grandezza di Firenze, si era sforzato, publicando efficacissimamente il contrario, persuadere a’ fiorentini niuno pensiero essere piú alieno da lui; né desiderare se non che quella republica lo riconoscesse solamente, secondo l’esempio degli altri príncipi cristiani, come pontefice e che nelle cose private non perseguitassino i suoi, né l’onore, le insegne e gli ornamenti propri della sua famiglia. Con le quali commissioni avendo, come fu liberato, mandato a Firenze uno prelato fiorentino per imbasciadore, né essendo stato udito, aveva molto instato, e per mezzo anche del re di Francia, che mandassino a lui uno imbasciadore; sforzandosi, con levare loro il sospetto e col dimesticarsi con loro, rendergli piú opportuni alle sue insidie. Ma tentate invano queste cose, si sforzò di persuadere a Lautrech che, essendo quegli che reggevano in Siena dependenti da Cesare, era espediente alle cose sue rimettervi Fabio Petrucci; il che, benché gli fusse capace, se ne astenne per la contradizione de’ fiorentini. Non gli succedendo per questa via, operò occultamente che Pirro da Castel di Piero, pretendendo querele contro a’ sanesi, occupò con ottocento fanti, per mezzo di alcuni fuorusciti di Chiusi, quella terra, per travagliare con questo mezzo il governo di Siena; ma avendo i fiorentini fatto capace il visconte di Turrena, oratore del re di Francia, il papa non tendere ad altro fine che di perturbare con l’opportunitá di Siena le cose di Firenze, il visconte procurò col pontefice che ’l movimento di Chiusi si posasse. Il quale, nella venuta de’ tedeschi, aveva, con l’aiuto del marchese di Mantova, guardato Parma e Piacenza.