Storia d'Italia/Libro XIX/Capitolo III
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III
Procedevano in questi tempi le cose del reame di Napoli variamente. Perché era venuto di Sicilia in Calavria il conte Burella con mille fanti, e unitosi con gli altri; e da altra parte Simone Romano aveva ottenuto con le mine la fortezza di Cosenza a discrezione (benché l’esservi stato ferito di uno archibuso nella spalla ritardò in qualche parte il corso della vittoria) e unitosi poi col duca di Somma, il quale con fanti del paese assediava Catanzaro, terra molto forte ma in necessitá di vettovaglie, nella quale era il genero di Alarcone con dugento cavalli e mille fanti; la quale ottenendo restavano signori di tutto il paese insino alla Calavria soprana; ma la necessitá gli costrinse a volgersi contro alle genti unitesi col soccorso venuto di Sicilia, le quali avevano giá fatto qualche progresso. Ma essendo stato Simone abbandonato da una parte de’ suoi fanti paesani, fu necessitato a ritirarsi nella rocca di Cosenza; gli altri fanti suoi, con morte di qualcuno, si risolverono; i corsi si andavano ritirando verso l’esercito: restando non solo la Calavria in pericolo ma temendosi che i vincitori non si indirizzassino verso Napoli. Ma per contrario ebbono nello Abruzzi prosperitá le cose de’ franzesi; perché essendosi appropinquato a dodici miglia all’Aquila il vescovo Colonna per sollevare lo Abruzzi fu rotto e morto dallo abate di Farfa, morti quattrocento fanti e circa ottocento prigioni. Intorno a Gaeta quegli di dentro, per la giunta del principe di Melfi, si andavano ritirando; e quelli di Manfredonia, per la poca virtú delle genti viniziane, facevano danno assai.
Perseverava in questo tempo il pontefice nella deliberazione di non dichiararsi per alcuno, ma, perché teneva diverse pratiche, giá sospetto al re di Francia; né anche grato a Cesare, se non per altro perché aveva destinato legato in Inghilterra il cardinale Campegio, per trattare in quella isola la causa delegata a lui e al cardinale eboracense. Perché instando quel re per la declarazione della invaliditá del primo matrimonio, il pontefice, il quale si era molto allargato di parole co’ ministri suoi, perché trovandosi in piccola fede appresso agli altri si sforzava di conservarsi il suo patrocinio, fece secretissimamente una bolla decretale declaratoria che il matrimonio fusse invalido; la quale dette al cardinale Campegio e gli commesse che, mostratala al re e al cardinale eboracense, dicesse avere commissione di publicarla se nel giudicio la cognizione della causa non succedesse prosperamente; acciocché piú facilmente consentissino che la causa si conoscesse giuridicamente, e tollerassino con animo piú equo la lunghezza del giudicio, il quale aveva commesso al cardinale Campegio che allungasse quanto potesse, né desse la bolla se prima non aveva nuova commissione da lui; ma si sforzò di persuadergli (come anche è verisimile che allora avesse in animo) la intenzione sua essere che finalmente s’avesse a dare. Della quale destinazione del legato e delegazione della causa facevano querela grave in Roma gli imbasciadori cesarei, ma con minore autoritá per la difficoltá che avevano le cose di Cesare nel regno napoletano.
Ma intorno a Napoli si scoprivano, per l’una parte e per l’altra, molte difficoltá; ma tali che, raccolte tutte le ragioni, si sperava piú presto la vittoria per i franzesi, ritardata dalla virtú e dalla ostinazione degli inimici. Perché in Napoli augumentava giornalmente la carestia, massime di vino e di carne, non vi entrando piú per mare cosa alcuna; con ciò sia che le galee de’ viniziani, in numero ventidue, fussino, pure dopo sí lunga espettazione, giunte a’ dieci dí di giugno nel golfo di Napoli: perché se bene i cavalli di dentro uscendo continuamente, non verso l’esercito ma in quelle parti nelle quali credevano potere trovare vettovaglie, riportassino quasi sempre prede, massime di carnaggi, nondimeno, benché giovassino molto, non erano tante che, privati della comoditá del mare, potessino lungamente sostentarsi. Affliggevagli la peste grande, il mancamento de’ danari, la difficoltá di sostenere i fanti tedeschi, ingannati molte volte da vane speranze e promesse, e de’ quali qualcuno alla sfilata andava nello esercito inimico: benché a ritenergli potesse molto la grazia e l’autoritá che aveva appresso a loro il principe di Oranges, restato per la morte di don Ugo con autoritá di viceré: il quale fece prigione il capitano Catte guascone, delle reliquie del duca di Borbone, con molti de’ suoi; e poco dipoi, per sospetto vano, fece il simigliante di Fabrizio Maramaus, benché presto lo liberasse. Da altra parte, nell’esercito franzese augumentavano continuamente le infermitá; le quali erano cagione che Lautrech, per non avere a guardare tanto, non procedesse alla perfezione delle ultime trincee, le quali, anche per l’impedimento di certe acque tagliate, avevano difficoltá di finirsi. Era anche nello esercito carestia, piú per poco ordine che per altro. Nondimeno Lautrech sperava piú nelle necessitá che erano in Napoli che non temeva delle sue difficoltá; e o per questa cagione, persuadendosi aversi presto a finire, o per mancamento di denari non faceva nuovi fanti, come da tutto lo esercito si desiderava per la diminuzione grande, per i morti e per gli infermi non solamente nelle genti basse e ne’ soldati privati ma giá nelle persone grandi e di autoritá; perché il quintodecimo dí erano morti... nunzio del pontefice e Luigi Pisano proveditore viniziano. Sperava anche di fare passare all’esercito tutti o la maggiore parte de’ fanti tedeschi, pratica nella quale, prima il marchese di Saluzzo e dappoi egli, avevano lungo tempo vanamente confidato. Le medesime cagioni, e la speranza che gli era data di fare passare all’esercito alcuni cavalli leggieri che erano in Napoli, lo ritenevano da soldare cavalli leggieri, sommamente necessari; i quali, se pure n’avesse soldati almeno quattrocento, gli sarebbeno stati di grandissima utilitá. Però scorrevano i cavalli di dentro piú liberamente; benché, ritornando uno giorno a Napoli con uno grosso bottino di bestiame, rincontrate le bande nere che erano il nerbo dello esercito, e senza le quali non si sarebbe stato intorno a Napoli, lo tolsono loro con perdita di forse sessanta cavalli; non ostante che gli spagnuoli uscissino tutti di Napoli, ma tardi, per soccorrergli. Sperava Lautrech che gli inimici fussino necessitati a partirsi presto da Napoli; e perciò, volendo privargli della facoltá di ritirarsi in Gaeta, ordinò fusse guardata Capua e Castello a mare di Volturno. E per tôrre anche loro la facoltá di ritirarsi in Calavria, oltre al fare tagliare certi passi, ricominciò a fare lavorare alla trincea ricordata piú volte ma intermessa per vari dispareri; ripigliandola tanto alto che l’acque che impedivano restassino di sotto. E disegnava anche di mettere in fortezza uno casale molto vicino a Napoli e guardarlo con mille fanti, che per questo voleva soldare; favorendosi eziandio delle galee viniziane sorte al diritto della trincea: la quale serviva ancora a fare venire piú facilmente allo esercito le vettovaglie dalla marina, e a tagliare la strada agli inimici quando tornavano con le prede per quel cammino, perché, per i fossi grandi e l’acque tagliate di Poggioreale, si andava dallo esercito al mare per circuito grande e pericoloso. Sforzavansi gli imperiali impedire quegli che lavoravano alla trincea; alla quale essendo usciti uno dí molto grossi i guastatori, per ordine di Pietro Navarra, il quale sollecitava questa opera, si rifuggirono; in modo che seguitandogli incautamente gli imperiali furono condotti in una imboscata, e ne fu tra morti e feriti piú di cento. Nondimeno la trincea non era ancora ammezzata, quando per mancamento de’ guastatori quando per altra cagione; perché la negligenza interrompeva spesso gli ordini buoni che spesso si facevano: ne’ quali, per essere la strettezza di Napoli grandissima, se si fusse continuato, è giudicio di molti che Lautrech arebbe indubitatamente ottenuta la vittoria.
Succedette, ne’ dí medesimi, occasione di grandissimo momento se tali fussino stati gli esecutori quali furono gli ordinatori: ma è infelicitá eccessiva di uno principe quando, come spesso accade al re di Francia co’ suoi franzesi, la negligenza e piccola cura de’ suoi ministri perverte i consigli buoni. Presentí Lautrech che i soldati di Napoli erano, per predare, usciti fuora per la via di Piè di Grotta molto grossi; però, per opprimergli, mandò, la notte de’ venticinque dí di giugno, i fanti delle bande nere i cavalli de’ fiorentini e settanta lancie franzesi e una banda di svizzeri, tedeschi e guasconi alla volta di Belvedere e di Piè di Grotta per incontrargli; e per impedire loro il ritirarsi ordinò che il capitano Buria co’ fanti guasconi, postosi in sul monte eminente alla Grotta, scendesse subito levato il romore, per impedire che gli inimici non potessino entrare nella Grotta. Succedette il principio di questa fazione felicemente, perché le genti di Lautrech avendogli incontrati gli combatterno e messeno in fuga; avendo tra morti e presi piú che trecento uomini e cento cavalli utili e moltissime bagaglie. Fu scavalcato nel combattere don Ferrando da Gonzaga e fatto prigione, ma la furia de’ tedeschi lo riscattò. Ma il capitano Buria, o per negligenza o per timore, non si rappresentò al luogo destinato; il che se avesse fatto si crede sarebbeno periti tutti. Aveva anche Lautrech mandato a Gaeta sei galee de’ viniziani, e due ne erano restate alla bocca del Garigliano, per dare favore al principe di Melfi; e perché le galee non potevano proibire che con le fregate non entrasse in Napoli qualche rinfrescamento, messe in mare certe piccole barchette per impedirle; ordinò anche che i bestiami si discostassino, per tutto, quindici miglia da Napoli, perché non fussino cosí facili a essere tolti dagli imperiali. I quali in tutte le scaramuccie ricevevano danno, quando non si facevano nel forte loro.