Storia d'Italia/Libro XIV/Capitolo V

Libro quattordicesimo
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V

Assedio di Parma; opere di preparazione per l’assalto. Gli assedianti occupano il Codiponte abbandonato dai francesi. Il Lautrech con le sue milizie a sette miglia da Parma. Imprese fortunate del duca di Ferrara nel modenese e milizie mandate contro di lui. Dubbi dei comandanti dell’esercito ispano—pontificio; discussione del commissario generale con loro. Si leva il campo da Parma.

Nel quale tempo, dimorando oziosamente l’esercito, non si faceva intorno a Parma altro che leggerissime battaglie. Finalmente il [terzodecimo] dí poi che erano alloggiati a San Martino, l’esercito, passato la notte di lá dal fiume della Parma, alloggiò in sulla strada romana, ne’ borghi della porta che va a Piacenza, che si dice di Santa Croce; i quali, il dí davanti, lo Scudo, presentendo la loro venuta, avea fatti abbruciare. Divide la cittá di Parma, non con tali acque che non si possa, eccetto che ne’ tempi molto piovosi, guadare, uno fiume del medesimo nome: la minore parte della quale, abitata da persone piú ignobili e che è circa la terza parte del tutto, detta dagli abitatori il Codiponte, rimane verso Piacenza. Elessono questo luogo i capitani per impedire piú facilmente che in Parma non entrasse soccorso, e molto piú perché la muraglia da quella parte era debole e situata in modo che non poteva percuotere per fianco. Aveva riferito il marchese, il quale il dí [p. 101 modifica]precedente era andato con alcuni capitani a speculare il luogo, che il dí medesimo si darebbe principio a battere la muraglia; ma essendo stato necessario, per levare le difese, battere prima, dal mezzo in su, una torre che era in sulla porta, di muro saldo e molto massiccia, si consumò tutto il dí intorno a questo, ove si roppe una colubrina grossa. Piantoronsi la notte seguente l’artiglierie alla muraglia, dalla mano sinistra della porta, secondo che si entra; ed era stato disegnato fare il medesimo dalla mano destra, mettendo con le batterie la porta in mezzo: perché, non si potendo, perché non erano stati condotti piú che sei cannoni e due colubrine grosse, piantare l’artiglierie in due luoghi separati, pareva che dal necessitare quegli di dentro a distendersi alla difesa per lungo spazio ne risultasse quasi il medesimo effetto. Ma questo non fu mandato a esecuzione, perché da quella parte era, a capo del fosso che circonda le mura, uno argine sí alto che se prima non si spianava o non si apriva (cosa da non si potere fare in tempo sí breve) impediva che l’artiglierie potessino percuotere la muraglia. Non resisteva il muro, per essere vecchio e molto debole, alla artiglieria, la quale avendo giá fatte due rotture di muro assai patenti, si ragionava tra i capitani dare il dí medesimo, benché non con ferma risoluzione, la battaglia. Ma avendo il marchese, che insieme co’ fanti spagnuoli aveva tutta la cura della batteria, mandato certi fanti ad affacciarsi alla rottura per vedere, se si poteva, come stessino dentro i ripari, quegli, come furono in sul muro rotto, cominciorono con alta voce a gridare che l’esercito si accostasse per entrare dentro, donde i fanti spagnuoli e italiani corsono tumultuosamente senza ordine alcuno alla muraglia; alla quale appresentatisi e giá cominciando a volere salire in sul muro rotto, i capitani, corsi al romore, considerando che uno assalto, anzi tumulto, debole e disordinato non poteva partorire frutto alcuno, gli feciono ritirare: il quale accidente o raffreddò il pensiero o dette scusa di non dare, il dí, ordinatamente la battaglia. Seguitossi il dí seguente a battere il muro rimasto intero in mezzo delle due rotture, e uno fianco fatto in su la torre della [p. 102 modifica]porta dal lato di dentro. Ma divulgandosi per l’esercito che per i ripari grandi fatti da’ franzesi sarebbe molto difficile con semplice assalto di espugnarla, mandorono i capitani due fanti di ciascheduna lingua ad affacciarsi alla rottura del muro; i quali, o occupati da troppo timore o da poca diligenza, o forse (come alcuni dubitorono) subornati da altri, riferirono restare dal muro battuto alla terra altezza di piú di cinque braccia, essere fatto dentro uno fosso profondo, e tali gli altri ripari che i capitani, diffidandosi di poterla espugnare altrimenti, determinorono che si facessino mine allato al muro rotto, che si tagliasse il muro contiguo con gli scarpelli e co’ picconi, per riempiere con quelle rovine il fosso che si diceva essere fatto di dentro e fare piú facile l’entrata: le quali opere come fussino condotte alla perfezione, che, aggiunti all’artiglieria che era nello esercito due cannoni i quali venivano da Mantova, si facesse un’altra batteria, ove il muro, distesosi per linea retta per lungo spazio, dalla parte destra della porta, volgendosi, fa angolo; al quale cantone, gittandosi in terra il muro, si potevano percuotere per fianco quegli che difendessino dal lato di dentro. Cosí, dalla parte dalla quale era stato battuto, si cominciò a lavorare una trincea e pochi dí poi un’altra, per gittare con le mine in terra il muro: ma andavano adagio le opere, sí perché, per avere avuto Prospero pensieri diversi, non erano ancora in campo tutte le provisioni necessarie a questi lavori, sí perché il terreno dove si cavava riusciva difficile e duro.

Alle quali opere mentre che si attende con intenzione di non assaltare la terra innanzi che l’opere fussino finite, Lautrech, il quale era tardato tanto a muoversi per la tarditá delle genti che venivano all’esercito, avendone giá insieme la maggiore parte, venne cinque miglia piú innanzi, pure lungo il fiume, avendo seco cinquecento lancie, circa settemila svizzeri, quattromila fanti che il dí medesimo avea condotto monsignore di San Valerio di Francia e, sotto Teodoro da Triulzi governatore de’ viniziani e Andrea Gritti proveditore, quattrocento uomini d’arme e quattromila fanti; e seguitavano [p. 103 modifica]questo esercito il duca di Urbino e Marcantonio Colonna, questo come soldato del re ma senza titolo e senza compagnia, l’altro dietro alle speranze comuni de’ fuorusciti. Aspettava ancora seimila svizzeri concedutigli da’ cantoni, che erano in cammino, ma secondo l’uso loro procedevano lentamente e con molte difficoltá; i quali come fussino uniti seco non arebbe, per soccorrere Parma, ricusato di tentare la fortuna della battaglia: però, sollecitandogli e aspettandogli, soggiornava per il cammino, non si discostando dalle ripe del Po. Ma dubitando che in questo mezzo il fratello non convenisse con gli inimici, avea mandato a scusare la tarditá, proceduta per aspettare maggiore numero di svizzeri, i quali erano giá propinqui, e perché quegli che erano seco aveano fatto difficoltá di passare il Po; nondimeno, che al piú lungo il quinto dí di settembre verrebbe in luogo vicino a Parma, e ne farebbe segno con piú tiri di artiglieria; e il dí seguente si accosterebbe piú presso agli inimici per combattergli, mandando qualche cavallo a scaramucciare, acciò che anche egli avesse facoltá di uscire a unirsi con loro: alla quale cosa lo Scudo lo sollecitava, affermando non potersi tenere piú che due o tre dí in quella parte della terra, e poi, di lá dal fiume, due altri dí; perché la terra era grande e debole, né gli restare piú di dumila fanti perché moltissimi ne erano partiti, né potere le genti d’arme, non essendo piú che trecento lancie, le quali portavano il peso di tutte le fatiche, resistere se fussino assaltate da piú parti. Venne di poi, il dí che aveva promesso di accostarsi agli inimici, a Zibello, castello vicino a Parma meno di venti miglia, onde mandò quattrocento cavalli a correre insino in su gli alloggiamenti degli inimici: l’opere de’ quali essendo condotte insino alla muraglia, e dipoi voltate al luogo nel quale si avea a dare il fuoco, il conte Guido Rangone co’ fanti italiani, de’ quali era capitano generale, cominciò a piantare l’artiglierie dall’altra parte della muraglia. Ma i franzesi, sentito lo strepito che si faceva nel maneggiarle, abbandonato due ore innanzi dí il Codiponte, si ritirorno ordinatamente e senza tumulto insieme con le loro artiglierie di lá dal fiume. [p. 104 modifica]La qual cosa conosciuta in sul fare del dí la mattina da quegli di fuora, entrorno dentro, parte per le aperture del muro parte per le scale; ricevuti da’ parmigiani, desiderosissimi di ritornare sotto il dominio ecclesiastico, con somma letizia: la quale presto si convertí in amaro pianto perché non altrimenti che di inimici furno saccheggiate le case loro. Né si dubitò che, se qualche dí prima si fussino piantate l’artiglierie nel luogo medesimo, arebbono i franzesi, nel modo medesimo, abbandonato il Codiponte. Dettesi poi opera ad aprire e rompere le porte, le quali erano atterrate, per le quali condotta l’artiglieria alla sponda del fiume si cominciò a battere il muro che fa sponda dall’altra parte; ma essendo giá sí tarda l’ora del dí che si conosceva non potersi, insino al prossimo dí, fare cosa di momento. Ma il dí medesimo Lautrech venne ad alloggiare in sul fiume del Taro, vicino a Parma a sette miglia; interpetrando alcuni che fusse venuto per combattere, altri persuadendosi per comporre col fratello (se piú non si poteva sostenere) che uscendo una notte di Parma con tutte le genti fusse raccolto da lui, o veramente perché, volendo convenire cogli inimici, ottenesse che con tutti i soldati potesse, salvo e senza alcuna obligazione, uscire di Parma: e giá alcuni dí prima Federico da Bozzole, il quale andando intorno a’ ripari era stato ferito di uno scoppietto nella spalla, aveva per mezzo del marchese cominciato a trattare; ma non era ancora il ragionamento proceduto tanto oltre che si potesse fare congettura certa della volontá dello Scudo. La veritá è, secondo le notizie che si ebbono poi, che Lautrech non aveva animo di combattere se non venivano i svizzeri; perché, con tutto che fusse alquanto superiore di numero e di bontá di gente d’arme e piú potente d’artiglierie, prevaleva di fanti l’esercito contrario: nel quale, calcolando i numeri veri, erano novemila tra tedeschi e spagnuoli duemila svizzeri e piú di quattromila italiani.

Ma consideri ciascuno da quanto piccoli accidenti dependino le cose di grandissimo momento nelle guerre. Accadde appunto che, la notte seguente al dí che l’esercito entrò nel [p. 105 modifica]Codiponte, sopravennono avvisi da Modena e da Bologna che Alfonso da Esti, uscito di Ferrara con cento uomini d’arme dugento cavalli leggieri e dumila fanti, tra’ quali ne erano mille tra corsi e italiani mandatigli da Lautrech, e con dodici pezzi di artiglierie, aveva preso allo improviso il castello del Finale e quello di San Felice, e si temeva non si facesse piú innanzi; il che turbò assai gli animi de’ capitani, ancora che molto prima, sapendosi la instanza che gli era fatta dai franzesi, si fusse temuto di questo movimento, e nondimeno non si fusse fatta a Modena tale provisione che bastasse in tale caso alla sicurtá di quella cittá: perché Prospero, avendo sempre difeso pertinacemente la contraria opinione, non aveva consentito che dello esercito si mandasse gente a Modena, o perché prestasse fede al duca amicissimo suo, col quale, eziandio per ordine del pontefice, si era interposto a trattare qualche accordo, o perché malvolontieri diminuisse il campo di gente, in tempo che si dubitava dell’approssimarsi degli inimici, essendo massime di natura di volere fare le cose sue sicuramente e però desiderando sempre avere forze superchie, o perché, se aveva altri fini occulti, non gli dispiacesse questa occasione. Ma la notte, avuto la nuova, congregati subito i capitani, fu deliberato che immediate vi andasse il conte Guido Rangone con dugento cavalli leggieri e ottocento fanti; i quali, aggiunti a settecento fanti che vi erano prima, parevano presidio piú che sufficiente contro alle forze di Alfonso. Ma ordinata questa espedizione, essendo ancora piú ore innanzi dí, ed essendo venuto poco prima avviso che la sera dinanzi Lautrech era alloggiato in sul Taro (ma mescolato la veritá con la falsitá, perché era stato riferito che il dí medesimo si erano uniti seco i svizzeri), né avendosi notizia che quegli che allora erano nello esercito, sforzati da lui con molti prieghi, non gli avevano promesso se non di venire insino in sul Taro, l’essere per altro congregati insieme i capitani, né avendo, per non essere ancora il dí, o occasione o necessitá di implicarsi separatamente in altre faccende, dette occasione che tra loro si cominciò, quasi oziosamente e non per via di consiglio, a [p. 106 modifica]discorrere in che stato sarebbono le cose per l’approssimarsi di Lautrech. Nel quale ragionamento pareva che le parole di Prospero del marchese di Pescara e di Vitello accennassino in questa sentenza: che difficilmente si piglierebbe Parma se dall’altra parte della cittá non si facesse anche una batteria, perché battuta la sponda dalla parte donde si era cominciato a battere il dí precedente restava non piccola salita dal letto del fiume alla riva, né quella potersi tentare senza grave pericolo perché l’artiglierie e gli scoppietti, distribuiti in su tre ponti che ha quel fiume e negli edifici circostanti, offenderebbono per fianco chi assaltasse. Discorrevano che la vicinitá di Lautrech, mettendosi in qualche alloggiamento propinquo di verso il Po, quando bene avesse l’animo alieno da tentare la fortuna, sarebbe causa che senza pericolo grande non si darebbe la battaglia; e doversi considerare che, per il sacco della parte presa di Parma, molti de’ fanti con la preda si erano partiti, un’altra parte essere piú intenta a salvare le cose rubate che a combattere; né potersi soprasedere quivi senza molte difficoltá e incomoditá, e anche senza pericolo, perché sarebbe necessario mandare ogni dí fuora grossissime scorte, non solo per sicurtá de’ saccomanni ma eziandio de’ danari e delle vettovaglie che giornalmente venivano, con circuito lunghissimo, intorno alle mura di Parma; le quali quando fussino fuora, potrebbe accadere che il resto del campo avesse in uno tempo medesimo a combattere con la gente franzese che era di fuora e con quegli che erano di dentro. Discorrevano anche che se il duca di Ferrara ingrossasse di gente sarebbe necessario levare di campo maggiori forze per la sicurtá di Modena e di Reggio, e che, eziandio correndo per il paese con le genti che aveva, potrebbe disturbare le vettovaglie; il che quando facesse sarebbe necessario levare il campo, ma forse che, riducendosi le cose tanto allo stretto, non si potrebbe fare senza pericolo: le quali ragioni, che mostravano inclinazione a levarsi, non si parlavano però in modo che alcuno scoprisse questo essere il suo consiglio. Finalmente, poiché fu parlato cosí per lungo spazio, il marchese di Pescara, [p. 107 modifica]parendogli avere giá compresa la mente degli altri, disse: — Io veggo che in tutti noi è il medesimo parere, ma ciascuno, pensando solamente a sé proprio, tace, aspettando che un altro se ne faccia autore: pure in me non potrá questo rispetto. A me pare che noi stiamo intorno a Parma con pericolo e senza speranza di fare frutto, e però, che per minore male debbiamo partircene. — Soggiunse Prospero: — Il marchese ha detto quello che, se egli non anticipava, avevo in animo di dire io —. Confermò Vitello il medesimo. Ma Antonio de Leva, approvando che quivi piú non si dimorasse, proponeva doversi considerare se fusse meglio andare ad assaltare Lautrech. Ma a questo si replicava che senza disavvantaggio grande non si potrebbe costrignere gli inimici a combattere: dimorarvi essere impossibile, perché le difficoltá che si consideravano nello stare intorno a Parma diventerebbeno molto maggiori; e potere facilmente essere che i duemila svizzeri non gli volessino seguitare, perché, oltre all’avere ricevuto, molti dí prima, comandamento da’ cantoni che si partissino dagli stipendi del pontefice, non pareva verisimile si disponessino a combattere contro a uno esercito nel quale militavano tanti fanti della medesima nazione; né si poteva negare che, per il sacco fatto il dí precedente, non fusse piú difficile il muovere la fanteria disordinata. Però, disprezzato questo consiglio, pareva che le sentenze di tutti i capitani concorressino a levarsi. Ma ristrettisi insieme Prospero e il Pescara, parlato che ebbono lungamente, dimandorono il commissario quello che credeva che dicesse il pontefice se si levavano, e dicendo il commissario al marchese: — Come non possiamo noi pigliare oggi Parma, secondo che iersera mi affermavate? — rispose il marchese con voci spagnuole: — Né oggi né domani né dopo domani. — Allora il commissario replicò non essere dubbio che il levarsi darebbe al pontefice grandissima turbazione, perché lo priverebbe totalmente della speranza della vittoria; ma il punto di questa deliberazione consistere nella veritá o nella falsitá de’ presuppositi fatti da loro: perché, se il soprasedere fusse con pericolo e senza speranza, non essere dubbio [p. 108 modifica]che sarebbe imprudenza non si levare, ma quando fusse altrimenti sarebbe il partirsi grandissimo disordine; però considerassino maturamente lo stato dello esercito e la importanza delle cose, contrapesando quale fusse maggiore, o il pericolo o la speranza. Alle quali parole replicando Prospero e il marchese, che tutte le ragioni della guerra consigliavano a ritirarsi, non avendo il commissario ardire di opporsi a capitani di tanta autoritá, si deliberò che il dí medesimo il campo si levasse, e che incontinente si ordinasse di fare discostare l’artiglierie dalla muraglia. La quale cosa, come fu publicata per il campo, era come troppo timida biasimata da tutti quegli che non erano intervenuti nel consiglio, in modo che il commissario e il Morone congiunti insieme si sforzorono di rimuovere Prospero da questa deliberazione. Il quale, non si mostrando alieno da consultarla di nuovo, anzi dicendo, con parole molto laudabili, e tanto piú quanto sono maggiori e piú savi quegli che le dicono, essere di natura che non si vergognava di mutare consiglio quando gli fussino dimostrate migliori ragioni, fece di nuovo chiamare quegli medesimi che si erano trovati a deliberare; ma il marchese di Pescara, occupato a ritirare le artiglierie e aborrente da mutare la prima conclusione, recusò di venirvi: in modo che, restando la cosa piú presto confusa che risoluta, si andò dietro a eseguire quel che prima era stato determinato. Cosí il dí medesimo, che fu il duodecimo poi che vi erano venuti a campo, ritornorno allo alloggiamento di San Lazzero; non senza pericolo di grandissimo disordine nel levarsi, perché i fanti tedeschi, dimandando circa i pagamenti condizioni sí inoneste che non si potevano concedere, ricusavano di seguitare l’esercito, e cassati i capitani vecchi che contradicevano aveano creato per capitano uno di loro, autore di questa sedizione; e si temeva non convenissino co’ franzesi. Pure finalmente, essendo giá partito l’esercito, e disperando ciascuno che avessino a mutare volontá, lo seguitorno. Nella quale confusione, essendo per la levata tanto subita e per il tumulto de’ tedeschi ripieno l’esercito di terrore, non è dubbio che se fusse sopravenuto Lautrech gli metteva facilissimamente in fuga.