Storia d'Italia/Libro VII/Capitolo X

Capitolo X

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X

Timori de’ veneziani. Discussione intorno alla politica da seguire. Deliberazioni prese e risposta agli ambasciatori di Massimiliano.

Nelle quali agitazioni e apparati non era minore perplessitá nelle menti del senato viniziano che negli altri, e per essere di grandissimo momento la loro deliberazione, grandissime erano le diligenze e l’opere che si facevano da ciascuno per congiugnergli a sé. Perché Cesare v’aveva insino da principio mandato tre oratori, uomini di grande autoritá, a fare instanza che gli concedessino il passo per il territorio loro; anzi, non contento a questa dimanda, gl’invitava a fare seco [p. 218 modifica]piú stretta congiunzione con patto che partecipassino de’ premi della vittoria, e per contrario dimostrando essere in facoltá sua di concordarsi col re di Francia, con quelle condizioni a pregiudicio loro che tante volte in diversi tempi gli erano state proposte: da altra parte il re di Francia, con gli imbasciadori suoi appresso a quel senato e con lo imbasciadore viniziano che risedeva appresso a lui, non cessava di fare ogni opera per disporgli a opporsi con l’armi alla venuta di Cesare, come perniciosa a l’uno e l’altro, offerendo al medesimo tutte le forze sue e di conservare con loro perpetua confederazione. Ma non piaceva al senato viniziano, in questo tempo, che la quiete d’Italia si perturbasse; né gli moveva a desiderare nuovi tumulti la speranza proposta della ampliazione dello imperio, avendo per la esperienza conosciuto che l’acquisto di Cremona non era contrapeso pari a’ sospetti e pericoli ne’ quali erano continuamente stati, poiché avevano avuto il re di Francia tanto vicino. Volentieri si sarebbano risoluti alla neutralitá, ma stretti e infestati da Cesare erano necessitati a negargli o concedergli il passo: negandolo temevano di essere i primi molestati, concedendolo offendevano il re di Francia, perché nella confederazione che era tra loro espressamente si proibiva il concedere passo agli inimici l’uno dell’altro; e conoscevano che, cominciando a offenderlo, sarebbe imprudenza, passato che fusse Massimiliano, stare oziosi a vedere l’esito della guerra, e aspettare la vittoria di coloro de’ quali l’uno sarebbe inimicissimo al nome viniziano, l’altro, non avendo ricevuto altra sodisfazione che d’essere lasciato passare, non sarebbe loro molto amico. Per le quali ragioni ciascuno di quel senato affermava essere necessario aderirsi scopertamente a una delle parti, ma a quale si avessino a aderire erano in causa tanto grave molto diverse le sentenze; e poiché ebbeno allungato il farne deliberazione quanto potevano, non si potendo piú sostenere la instanza che ogni dí ne era loro fatta, ridottisi finalmente a farne nel consiglio de’ pregati ultima determinazione, Niccolò Foscarini parlò in questa sentenza: [p. 219 modifica]

— Se e’ fusse in nostra potestá, prestantissimi senatori, di fare deliberazione mediante la quale, ne’ movimenti e travagli che ora si apparecchiano, si conservasse in pace la nostra republica, io sono certissimo che tra noi non sarebbe varietá alcuna di pareri; e che nessuna speranza che ci fusse proposta ci farebbe inclinare a una guerra di tanta spesa e pericolo quanta si dimostra avere a essere la presente. Ma poiché, per le ragioni le quali in questi dí sono state tante volte allegate tra noi, non si può sperare di conservarsi in questa quiete, io mi persuado che la principale ragione in su la quale abbiamo a fondare la nostra deliberazione sia il fermare una volta in noi medesimi, se noi crediamo che tra il re di Francia e il re de’ romani, disperato che sará dell’amicizia nostra, sia per nascere unione, o se pure l’inimicizia che è tra loro sia sí potente e sí ferma che impedisca non si congiunghino: perché quando fussimo sicuri di questo pericolo, io senza dubbio approverei il non partire dall’amicizia del re di Francia, perché congiunte con buona fede le forze nostre con le sue alla difesa comune difenderemmo facilmente lo stato nostro, e perché sarebbe con piú onore continuare la confederazione che abbiamo seco che partircene senza evidente cagione, e perché con piú laude e favore di tutto il mondo sarebbe l’entrare in una guerra che avesse titolo di volere conservare la pace d’Italia che congiugnersi con quelle armi che manifestamente si conosce che si prendono per fare grandissime perturbazioni; ma quando si presupponesse pericolo di questa unione, non credo che sia nessuno che negasse che fusse da prevenire, perché sarebbe senza comparazione piú utile unirsi col re de’ romani contro al re di Francia che aspettare che l’uno e l’altro si unisse contro a noi. Ma quale di questo abbia a essere è difficile fare giudicio certo, perché depende non solo dalle volontá d’altri ma ancora da molti accidenti e da molte cagioni che appena lasciano questa deliberazione in potestá di chi l’ha a fare: nondimeno, per quel che si può asseguire con le congetture, e per quello che del futuro insegna l’esperienza del passato, a me pare sia cosa molto pericolosa e da starne con [p. 220 modifica]grandissimo timore. Perché dalla parte del re de’ romani non è verisimile che abbia avere molta difficoltá, per l’ardente desiderio che gli ha di passare in Italia; e poterlo difficilmente fare se non si congiugne o col re di Francia o con noi: e se bene desideri piú la congiunzione nostra, chi può dubitare che escluso da noi si congiugnerá per necessitá col re di Francia? non gli restando altro modo da pervenire a i disegni suoi. Dalla parte del re di Francia appariscono a questa unione maggiori difficoltá, ma non però a giudicio mio tali che possiamo promettercene sicurezza alcuna; perché a questa deliberazione lo possono indurre il sospetto e l’ambizione, stimoli potentissimi, e soliti ciascuno per sé a fare movimenti molto maggiori. Ègli nota l’instanza che fa il re de’ romani della nostra unione; e benché falsamente, pure misurando la mente e gli appetiti nostri da se stesso, può dubitare che la suspicione che noi abbiamo di non essere prevenuti da lui ci induca a prevenire, sapendo massime esserci noto quel che tanto tempo hanno trattato insieme contro a noi: può ancora temere che l’ambizione ci muova, perché non dubiterá esserci offerti partiti grandissimi; e da questo timore che mezzo è bastante ad assicurarlo? non essendo cosa alcuna naturalmente piú sospettosa che gli stati. Può oltre al sospetto muoverlo l’ambizione, per il desiderio che sappiamo che ha della cittá di Cremona, accendendolo a questo gli stimoli de’ milanesi, e non meno lo appetito di occupare tutto lo stato vecchio de’ Visconti, nel quale come nel resto del ducato di Milano pretende titolo ereditario; e a questo non può sperare di pervenire se non si unisce col re de’ romani, perché la republica nostra è potente per se medesima, e assaltandoci il re di Francia da sé solo sarebbe sempre in potestá nostra congiugnerci con Massimiliano: e che questi pensieri possino essere anzi sempre sieno stati in lui, ne fa fede manifesta che mai ha ardito di tentare d’opprimerci senza questa unione; la quale essendo il cammino unico che può condurlo al fine desiderato, perché non dobbiamo noi credere che finalmente vi si abbia a disporre? Né ci assicuri da questo timore il [p. 221 modifica]considerare che a lui sarebbe inutile deliberazione, per acquistare due o tre cittá, mettere in Italia il re de’ romani inimico naturale suo, e dal quale sempre alla fine ará molestie e guerre né mai amicizia se non incerta, e che cosí incerta gli bisognerá comperare e sostenere con somma infinita di denari: perché, se ha sospetto che noi non ci uniamo col re de’ romani, gli parrá che il prevenire non lo metta in pericolo ma lo assicuri; anzi, quando bene non temesse di questa unione, giudicherá forse necessario confederarsi seco per liberarsi dai travagli e pericoli che potesse avere da lui, o con l’aiuto della Germania o con altre aderenze e occasioni; e con tutto che potessino succedergli maggiori pericoli se il re de’ romani cominciasse a fermare piede in Italia, è natura comune degli uomini temere prima i pericoli piú vicini e stimare piú che non conviene le cose presenti, e tenere minore conto che non si debbe delle future e lontane, perché a quelle si possono sperare molti rimedi dagli accidenti e dal tempo. Dipoi, quando bene il fare questa unione non fusse utile per il re di Francia, non siamo però sicuri che egli non l’abbia a fare. Non sappiamo noi quanto ora la paura ora la cupiditá acciecano gli uomini? non conosciamo noi la natura de’ franzesi, leggieri a imprese nuove, e che non hanno mai la speranza minore del desiderio? non ci sono noti i conforti e l’offerte, bastanti ad accendere ogni animo quieto, con le quali è stimolato contro a noi da’ milanesi dal papa da’ fiorentini dal duca di Ferrara e dal marchese di Mantova? Gli uomini non sono tutti savi, anzi sono pochissimi i savi; e chi ha a fare pronostico delle deliberazioni d’altri debbe, non si volendo ingannare, avere in considerazione non tanto quello che verisimilmente farebbe uno savio quanto quale sia il cervello e la natura di chi ha a deliberare. Però, chi vuole giudicare quello che fará il re di Francia, non avvertirá tanto a quello che sarebbe ufficio della prudenza quanto che i franzesi sono inquieti e leggieri, e soliti a procedere spesso piú con caldezza che con consiglio. Considererá quali sieno le nature de’ príncipi grandi, che non sono simili alle nostre, né resistono sí [p. 222 modifica]facilmente agli appetiti loro come fanno gli uomini privati; perché assuefatti a essere adorati ne’ regni suoi, e intesi e ubbiditi a cenni, non solo sono elati e insolenti ma non possono tollerare di non ottenere quello che gli pare giusto (e giusto pare ciò che desiderano), persuadendosi di potere spianare con una parola tutti gli impedimenti e superare la natura delle cose; anzi si recono a vergogna il ritirarsi per le difficoltá dalle loro inclinazioni, e misurano comunemente le cose maggiori con quelle regole con le quali sono consueti a procedere nelle minori, consigliandosi non con la prudenza e con la ragione ma con la volontá e alterezza: de’ quali vizi comuni a tutti i príncipi, non sará giá alcuno che dica che i franzesi non partecipino. Non vedemmo noi frescamente l’esempio del regno di Napoli? che dal re di Francia, indotto da ambizione e da inconsiderazione, fu consentita la metá al re di Spagna per avere egli l’altra metá; non pensando quanto indebolisse la sua potenza, unica prima tra tutti gl’italiani, il mettere in Italia un altro re, eguale a lui di potenza e d’autoritá. Ma che andiamo noi per congetture in quelle cose delle quali abbiamo la certezza? Non è egli cosa notissima quel che trattò il cardinale di Roano, con questo medesimo Massimiliano, a Trento, di dividersi il nostro stato? non si sa egli che poi a Bles fu conchiusa tra loro la medesima pratica, e che ’l medesimo cardinale, andato in Germania per questo, ne riportò la ratificazione e il giuramento di Cesare? Non ebbono effetto questi accordi, io lo confesso, per qualche difficoltá che sopravenne; ma chi ci assicura, che poiché la intenzione principale è stata la medesima, che non si possi trovare mezzo alle difficoltá che hanno disturbato il desiderio comune? Però considerate diligentemente, dignissimi senatori, i pericoli imminenti, e il carico e infamia che appresso a tutto il mondo oscurerá il nome chiarissimo della prudenza di questo senato se, misurando male la condizione delle cose presenti, permetteremo che altri si faccia formidabile, a offesa nostra, di quell’armi che ci sono offerte a sicurtá e augumento nostro; e vogliate, in beneficio della patria vostra, considerare quanta [p. 223 modifica]differenza sia dal muovere la guerra ad altri ad aspettare che la sia mossa a noi, trattare di dividere lo stato d’altri o aspettare che sia diviso il nostro, essere accompagnati contro a uno solo o rimanere soli contro a molti compagni: perché se questi due re si uniscono insieme contro a noi gli seguiterá il pontefice per conto delle terre di Romagna, il re d’Aragona per i porti del reame di Napoli, e tutta Italia, chi per ricuperare chi per assicurarsi. È noto a tutto il mondo quel che tanti anni ha trattato il re di Francia con Cesare contro a noi: però se ci armeremo contr’a chi ci ha voluto ingannare niuno ci chiamerá mancatori di fede, niuno se ne maraviglierá, ma da tutti saremo riputati prudenti; e con nostra somma laude sará veduto in pericolo chi si sa per ciascuno che ha cercato fraudolentemente mettervi noi. —

Ma in contrario fu per [Andrea Gritti] parlato cosí:

— Se e’ fusse conveniente in una medesima materia rendere sempre il voto nel bossolo de’ non sinceri, io vi confesso, clarissimi senatori, che io in altro bossolo non lo renderei; perché questa consultazione ha da ogni parte tante ragioni che io spesso mi confondo: nondimeno, essendo necessario il risolversi, né potendo farsi con fondamenti o presuppositi certi, bisogna, pesate le ragioni che contradicono l’una a l’altra, seguitare quelle che sono piú verisimili e che hanno piú potenti congetture. Le quali quando io esamino, non mi può in modo alcuno essere capace che il re di Francia, o per sospetto di non essere prevenuto da noi o per cupiditá di quelle terre che appartenevano giá al ducato di Milano, si accordi col re de’ romani a farlo passare in Italia contro a noi, perché i pericoli e i danni che gliene seguiterebbono sono senza dubbio maggiori e piú manifesti che non è il pericolo che noi ci uniamo con Cesare, o che non sono i premi che e’ potesse sperare di questa deliberazione; atteso che, oltre alle inimicizie e ingiurie gravissime che sono tra loro, ci è la concorrenza della dignitá e degli stati, solita a generare odio tra quegli che sono amicissimi. Però, che il re di Francia chiami in Italia il re de’ romani, non vuole dire altro che in [p. 224 modifica]luogo d’una republica quieta e stata sempre in pace seco, e che non pretende con lui alcuna differenza, volere per vicino uno re ingiuriato, inquietissimo, e che ha mille cause di contendere seco d’autoritá, di stato e di vendetta. Né sia chi dica che per essere il re de’ romani povero, disordinato e mal fortunato, non sará temuta dal re di Francia la sua vicinitá; perché per la memoria delle antiche fazioni e inclinazioni d’Italia, le quali ancora in molti luoghi sono accese, e specialmente nel ducato di Milano, non ará mai uno imperadore romano sí piccolo nidio in Italia che non sia con grave pericolo degli altri; e costui massimamente, per lo stato che ha contiguo a Italia, per essere riputato principe di grande animo e di grande scienza ed esperienza nelle cose della guerra, e perché può avere seco i figliuoli di Lodovico Sforza, instrumento potente a sollevare gli animi di molti: senza che, in ogni guerra che avesse col re di Francia può sperare d’avere l’aderenza del re cattolico, se non per altro, perché tutti due hanno una medesima successione. Sa pure il re di Francia quanto è potente la Germania, e quanto sará piú facile a unirsi, tutta o parte, quando sará giá aperto l’adito in Italia, e la speranza della preda sará presente. E non abbiamo noi veduto quanto egli ha temuto sempre de’ moti de’ tedeschi e di questo re, cosí povero e disordinato come è? il quale se fusse in Italia, sarebbe certo non potere avere altro seco che o guerra pericolosa o pace infedelissima e di grandissima spesa. Può essere che abbia desiderio di recuperare Cremona, e forse l’altre terre; ma non è giá verisimile che per cupiditá di acquisto minore si sottoponga a pericolo di danno molto maggiore, ed è piú credibile che abbia a procedere in questo caso con prudenza che con temeritá: massimamente che, se noi discorriamo gli errori i quali si dice avere commessi questo re, non hanno avuto origine da altro che da troppo desiderio di fare le imprese sicuramente. Perché, che altro lo indusse al dividere il regno di Napoli, che altro a consentire Cremona a noi, se non il volere fare piú facile la vittoria di quelle guerre? Dunque è piú credibile che, medesimamente [p. 225 modifica]ora, seguiterá i consigli piú savi e la sua consuetudine che i consigli precipitosi; massime che per questo non resterá privato al tutto di speranza di potere ad altro tempo, con sicurtá maggiore e con occasione migliore, conseguire lo intento suo: cose che gli uomini sogliono promettersi facilmente, perché manco erra chi si promette variazione nelle cose del mondo che chi se le persuade ferme e stabili. Né mi spaventa quello che si dice essere stato altre volte trattato tra questi due re, perché è costume de’ príncipi della nostra etá intrattenere artificiosamente l’uno l’altro con speranze vane e con simulate pratiche; le quali, poiché in tanti anni non hanno avuto effetto, bisogna confessare o che siano state finzioni o che abbino in sé qualche difficoltá che non si possa risolvere: perché la natura delle cose repugna a levare la diffidenza tra loro, senza il quale fondamento non possono venire a questa congiunzione. Non temo adunque che per cupiditá delle nostre terre il re di Francia si precipiti a sí imprudente deliberazione; e manco, a mio giudizio, vi si precipiterá per sospetto che abbia di noi, perché oltre alla esperienza lunga che ha veduto dell’animo nostro, non ci essendo mancati molti stimoli e molte occasioni di partirci dalla sua confederazione, le ragioni medesime che assicurano noi di lui assicurano medesimamente lui di noi; perché nessuna cosa ci sarebbe piú perniciosa che l’avere il re de’ romani stato in Italia, sí per l’autoritá dell’imperio, l’augumento del quale ci ha sempre a essere sospetto, sí per conto della casa d’Austria che pretende ragione in molte terre nostre, sí per la vicinitá della Germania, le inondazioni della quale sono troppo pericolose al nostro dominio: e abbiamo pure nome per tutto di maturare le nostre deliberazioni, e peccare piú tosto in tarditá che in prestezza. Non nego che queste cose possono succedere diversamente dalla opinione degli uomini, e però, che quando si potesse facilmente assicurarsene sarebbe cosa laudabile; ma non si potendo, senza entrare in grandissimi pericoli e difficoltá, è da considerare che spesso sono cosí nocivi i timori vani come sia nociva la troppa confidenza: [p. 226 modifica]perché, se noi ci confederiamo col re de’ romani contro al re di Francia, bisogna che la guerra si cominci e si sostenga co’ danari nostri, co’ quali aremo a supplire eziandio a tutte le prodigalitá e disordini suoi; altrimenti o si accorderá con gl’inimici o si ritirerá in Germania, lasciando a noi soli tutti i pesi e pericoli. Arassi a fare la guerra contro a uno re di Francia potentissimo, duca di Milano, signore di Genova, abbondante di valorose genti d’arme, e instrutto, quanto alcuno altro principe, di artiglierie; e al nome de’ danari del quale concorrono i fanti di qualunque nazione. Come adunque si può sperare che tale impresa abbia facilmente ad avere successo felice? potendosi anche non vanamente dubitare che tutti quegli d’Italia che o pretendono che noi occupiamo il suo o che temono la nostra grandezza si uniranno contro a noi; e il pontefice sopra gli altri, al quale, oltre agli sdegni che ha con noi, non piacerá mai la potenza dello imperadore in Italia, per la inimicizia naturale che è tra la Chiesa e lo imperio, per la quale i pontefici non temono manco degli imperadori nelle cose temporali che e’ temino de’ turchi nelle spirituali. E questa congiunzione ci sarebbe forse piú pericolosa che non sarebbe quella di che si teme tra il re di Francia e il re de’ romani, perché dove si accompagnano piú príncipi che pretendono d’essere pari nascono facilmente tra loro sospetti e contenzioni; donde spesso le imprese, cominciate con grandissima riputazione, caggiono in molte difficoltá, e finalmente diventano vane. Né è da mettere in ultima considerazione che, quando bene il re di Francia abbia tenute pratiche contrarie alla nostra confederazione, non si sono però veduti effetti per i quali si possa dire averci mancato: però, il pigliargli guerra contro non sará senza nota di maculare la nostra fede, della quale questo senato debbe fare precipuo capitale per l’onore e per l’utilitá de’ maneggi che tutto dí abbiamo avere con gli altri príncipi; né ci è utile augumentare continuamente l’opinione che noi cerchiamo di opprimere sempre tutti i vicini, che noi aspiriamo alla monarchia d’Italia. Volesse Dio che per l’addietro si fusse proceduto in questo con [p. 227 modifica]maggiore considerazione! perché quasi tutti i sospetti che noi abbiamo al presente procedono dall’avere per il passato offesi troppi; né si crederá che a una nuova guerra contro al re di Francia, nostro collegato, ci tiri il timore ma la cupiditá di ottenere, congiugnendoci col re de’ romani, una parte del ducato di Milano contro a lui, come congiunti seco ottenemmo contro a Lodovico Sforza: al quale tempo se ci fussimo governati con piú moderazione, né temuto troppo i sospetti vani, non sarebbano le cose d’Italia nelle presenti agitazioni, e noi, conservatici con fama di piú modestia e gravitá, non saremmo ora necessitati a entrare in guerra con questo o con quello principe piú potenti di noi. Nella quale necessitá poiché siamo, credo sia piú prudenza non partire dalla confederazione del re di Francia che, mossi da timore vano o da speranza di guadagni incerti e dannosi, abbracciare una guerra la quale soli non saremmo potenti a sostenere, e i compagni che noi aremmo ci sarebbano alla fine di maggiore peso che profitto. —

Vari furono in tanta varietá di ragioni i pareri del senato; ma alla fine prevalse la memoria della inclinazione la quale sapevano avere sempre avuta il re de’ romani di recuperare, come n’avesse occasione, le terre tenute da loro, quali pretendeva appartenersi o allo imperio o alla casa d’Austria: però fu la loro deliberazione di concedergli il passo venendo senza esercito, negargliene se venisse con armi. La quale conclusione, nella risposta feciono a’ suoi oratori, si sforzorono di persuadere quanto potettono che fusse mossa piú da necessitá, per la confederazione che avevano col re di Francia, e dalle condizioni de’ tempi presenti che da volontá che avessino di dispiacergli in cosa alcuna: aggiugnendo essere sforzati dalla medesima confederazione di aiutarlo alla difesa del ducato di Milano col numero di gente espresso in quella, ma che in questo procederebbono con somma modestia, non trapassando in parte alcuna le loro obligazioni; ed eccettuato quello che fussino costretti di fare in questo modo per la difesa del ducato di Milano, non si opporrebbono ad alcuno altro progresso suo; come quegli che non erano, in quel che consistesse in [p. 228 modifica]potestá loro, per mancare mai di quegli uffici e di quella reverenza che convenisse al senato viniziano di usare verso uno tanto principe, e col quale non avevano mai avuto altro che amicizia e congiunzione. Né per questo procederono col re di Francia a nuove confederazioni e obligazioni, desiderando mescolarsi il meno potevano nella guerra tra loro, e sperando che forse Massimiliano, per non si accrescere difficoltá, lasciati stare in pace i confini loro, volterebbe l’armi sue o nella Borgogna o contro allo stato di Milano.