Storia d'Italia/Libro VI/Capitolo X
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X
Ma ritornando al proposito della nostra narrazione, e alle cose che dopo l’essersi arrenduta agli spagnuoli Gaeta nell’anno mille cinquecento quattro succederono, le novelle della rotta ricevuta al Garigliano, e di tanti disordini che appresso seguitorono, empierono di lagrime e di pianti quasi tutto il regno di Francia, per la moltitudine de’ morti e specialmente per la perdita di tanta nobiltá; donde la corte tutta, con gli abiti e con molti altri segni di dolore, appariva piena di mestizia e di afflizione; e si sentivano per tutto il reame le voci degli uomini e delle donne che maladivano quel dí nel quale prima entrò ne’ cuori de’ suoi re, non contenti di tanto impero che possedevano, la sfortunata cupiditá di acquistare stati in Italia. Ma sopra tutto era tormentato l’animo del re per la disperazione d’avere piú a ricuperare uno regno sí nobile, e per tanta diminuzione della estimazione e autoritá sua: ricordavasi delle magnifiche parole le quali aveva dette tante volte contro al re di Spagna, e quanto si fusse vanamente promesso degli apparati fatti per assaltarlo da tante bande; ma accresceva il dolore e la indegnazione sua il considerare che, essendo state fatte da sé con somma diligenza e senza risparmio alcuno tante provisioni, e avendo guerra con inimici poverissimi e bisognosi di ogni cosa, fusse stato per la avarizia e per le fraudi de’ ministri suoi sí ignominiosamente superato. E però, esclamando insino al cielo, affermava con efficacissimi giuramenti che, poiché era con tanta negligenza e perfidia servito da’ suoi medesimi, che giammai commetterebbe piú guerra alcuna a’ suoi capitani ma andrebbe personalmente a tutte le imprese. Ma lo tormentava e cruciava ancora piú il conoscere quanto, per la perdita di uno tale esercito e per la morte di tanti capitani e di tanta nobiltá, fussino indebolite le forze sue; in modo che, se o da Massimiliano fusse stato fatto qualche movimento nel ducato di Milano o se l’esercito spagnuolo uscito del reame di Napoli fusse passato piú innanzi, diffidava esso medesimo sommamente di potere difendere quello stato, massime congiugnendosi ad alcuno di questi Ascanio Sforza lo imperio del quale era desiderato ardentemente da tutti i popoli.
Ma del re de’ Romani non si maravigliò alcuno che non si destasse a tanta opportunitá, essendo lo inveterato costume suo scambiare il piú delle volte i tempi e le occasioni. Ma di Consalvo si persuadeva ciascuno il contrario: donde stavano quelli che in Italia aderivano a’ franzesi in grandissimo terrore che egli, con la speranza che all’esercito vincitore non avessino a mancare danari né occasioni, senza dilazione seguitasse la vittoria, per sovvertire lo stato di Milano e mutare in cammino le cose di Toscana: il che se avesse fatto si credeva fermamente che il re di Francia, esausto di danari e sbattuto d’animo, arebbe senza fare alcuna resistenza ceduto a questa tempesta; essendo massime l’animo delle sue genti alienissimo dal passare in Italia e avendo quelle che tornorono da Gaeta passato i monti, sprezzati i comandamenti regi che furono presentati loro a Genova. E si vedeva chiaramente che il re, senza pensiero alcuno alle armi, era tutto intento a trattare concordia con Massimiliano; né meno intento a continuare le pratiche co’ re di Spagna, per le quali, non intermesse nell’ardore della guerra, erano stati sempre, e ancora erano, oratori spagnuoli nella sua corte. Ma Consalvo, che da qui innanzi chiameremo piú spesso il gran capitano, poiché con vittorie sí gloriose si aveva confermato il cognome datogli dalla iattanza spagnuola, non usò tanta occasione: o perché, trovandosi al tutto senza danari e debitore dell’esercito suo di molte paghe, gli fusse impossibile muovere con speranze di guadagni futuri o di pagamenti lontani le genti sue, che dimandavano danari e alloggiamenti, o perché fusse necessitato procedere secondo la volontá de’ suoi re o perché non gli paresse bene sicuro, se prima non cacciava gli inimici di tutto il regno di Napoli, levarne l’esercito; perché Luigi d’Ars uno de’ capitani franzesi, il quale dopo la giornata fatta alla Cirignola si era, con reliquie tali delle genti rotte che non erano in tutto da disprezzare, fermato a Venosa, e il quale mentre che gli eserciti stavano in sulle ripe del Garigliano aveva occupato Troia e San Severo, teneva sollevata tutta la Puglia; e alcuni de’ baroni angioini ritiratisi agli stati loro si difendevano, seguitando scopertamente il nome del re di Francia: e si aggiunse che poco dopo la vittoria si ammalò di pericolosa infermitá; per la quale non potendo andare in alcuna espedizione personalmente, mandò con parte delle genti l’Alviano a debellare Luigi d’Ars.
Per la quale sua o deliberazione o necessitá di non seguitare per allora, fuora del reame di Napoli, la vittoria restavano l’altre cose d’Italia piú presto in sospetto che in travaglio: perché i viniziani stavano, secondo l’usanza loro, sospesi ad aspettare l’esito delle cose; e a’ fiorentini pareva acquistare assai se, nel tempo che totalmente disperavano del soccorso del re di Francia, non fussino assaltati dal gran capitano; e il pontefice, differendo ad altro tempo i suoi vasti pensieri, si affaticava perché il Valentino gli concedesse le fortezze di Furlí di Cesena e di Bertinoro, che sole per lui si tenevano nella Romagna, perché Antonio degli Ordelaffi aveva, pochi dí innanzi, ottenuta con premi quella di Forlimpopolo dal castellano. Consentí Valentino dare al pontefice i contrasegni di quella di Cesena: con i quali andato Pietro d’Oviedo spagnuolo per riceverla in nome del pontefice, il castellano, dicendo essergli disonore ubidire al padrone suo mentre che era prigione, e meritare di essere punito chi avesse presunto di fargli tale richiesta, l’aveva fatto impiccare. Donde il pontefice, escluso dalla speranza di poterle ottenere senza la liberazione del Valentino, convenne seco (della quale convenzione fu espedita per maggiore sicurtá una bolla nel concistoro) che il Valentino fusse posto nella rocca di Ostia, in assoluta potestá di Bernardino Carvagial spagnuolo, cardinale di Santa Croce, di liberarlo ogni volta che avesse restituito al pontefice le fortezze di Cesena e di Bertinoro e che della rocca di Furlí avesse consegnati i contrassegni al pontefice, e data sicurtá di banchi in Roma per quindicimila ducati; perché quel castellano prometteva di restituirla ricevuti che avesse i contrassegni e la quantitá predetta, per sodisfazione delle spese le quali affermava d’avere fatte. Ma altra era la mente del pontefice; il quale, benché non volesse rompere palesemente la fede data, avea in animo di prolungare la sua liberazione, o per timore che, liberato, operasse che ’l castellano di Furlí di dare la rocca o per la memoria delle ingiurie ricevute dal padre e da lui o per l’odio che ragionevolmente gli portava ciascuno. Della qual cosa sospettando il Valentino, ricercò secretamente il gran capitano che gli desse salvocondotto di potere sicuramente andare a Napoli, e che gli mandasse due galee per levarlo da Ostia; le quali cose essendo consentite da Consalvo, il cardinale di Santa Croce, che avea il medesimo sospetto, subito che ebbe notizia che oltre alla sicurtá data in Roma de’ quindicimila ducati i castellani di Cesena e di Bertinoro aveano consegnato le fortezze, gli dette senza saputa del pontefice facoltá di partirsi. Il quale, non aspettate le galee che doveva mandargli il gran capitano, se ne andò occultamente per terra a Nettunno, onde in su una piccola barchetta si condusse alla rocca di Mondracone, e di quivi per terra a Napoli; ricevuto da Consalvo lietamente e con grande onore. In Napoli, stando spesso a segreti ragionamenti con Consalvo, lo ricercò che gli desse comoditá di andare a Pisa, proponendogli che, fermandosi in quella cittá, ne risulterebbe grandissimo beneficio alle cose de’ suoi re: il che dimostrando Consalvo di approvare, e offerendogli le galee per portarlo, e dandogli facoltá di soldare nel reame i fanti che e’ disegnava di condurre seco, lo nutrí in questa speranza insino a tanto che ebbe risposta da’ suoi re conforme a quello che avea disegnato di fare; consultando ciascuno dí con lui sopra le cose di Pisa e di Toscana, e offerendosi l’Alviano di assaltare nel tempo medesimo i fiorentini, per il desiderio che avea della restituzione de’ Medici in Firenze. Ma essendo preparate giá le galee e i fanti per partire il dí seguente, il Valentino, poiché la sera ebbe parlato lungamente con Consalvo, e da lui con dimostrazione grande di amore avuto licenza e abbracciato nel partirsi, procedendo con quella simulazione medesima che si diceva avere usata giá contro a Iacopo Piccinino Ferdinando vecchio d’Aragona, subito che uscí della camera fu per comandamento suo ritenuto nel castello, e mandato all’ora medesima alla casa dove alloggiava a tôrre il salvocondotto che, innanzi partisse da Ostia, gli avea fatto; con tutto che allegasse che, avendogli comandato i suoi re che lo facesse prigione, prevaleva il comandamento loro al suo salvocondotto, perché la sicurtá data di propria autoritá dal ministro non era valida piú che si fusse la volontá del signore. Soggiugnendo oltre a questo essere stata cosa necessaria il ritenerlo, perché, non contento di tante iniquitá che per l’addietro aveva commesse, procurava di alterare per l’avvenire gli stati d’altri, macchinare cose nuove seminare scandoli e fare nascere in Italia incendi perniciosi. E poco dipoi lo mandò in su una galea sottile prigione in Ispagna, non servito da altri de’ suoi che da uno paggio, ove fu incarcerato nella rocca di Medina del Campo.
Fecesi circa a questi tempi medesima tregua per terra e [per] mare, cosí per le cose d’Italia come di lá da’ monti, tra ’l re di Francia e i re di Spagna; alla quale, desiderata molto dal re di Francia, acconsentirno volentieri i re di Spagna perché giudicorno essere meglio stabilire per questo mezzo, con maggiore sicurtá e quiete, l’acquisto fatto che per mezzo di nuove guerre; le quali essendo piene di molestia e di spese hanno spesse volte fine diverso dalle speranze. Le condizioni furono che ciascuno ritenesse quello possedeva: fusse libero per tutti i regni e stati di ciascuna delle parti il commercio a’ sudditi loro, eccetto che nel reame di Napoli: con la quale eccezione ottenne per via indiretta il gran capitano quel che gli era proibito direttamente, perché nelle frontiere de’ luoghi tenute da’ franzesi, che erano solamente in Calavria Rossano, in Terra d’Otranto Oira e in Puglia Venosa, Conversano e Casteldelmonte, pose genti che proibissino che alcuno o de’ soldati o degli uomini di quelle terre non conversassino in luogo alcuno posseduto dagli spagnuoli; la quale cosa gli ridusse prestamente in tale strettezza che vedendo Luigi d’Ars e gli altri soldati e baroni di quelle terre che gli uomini, non potendo tollerare tante incomoditá, deliberavano d’arrendersi agli spagnuoli, se ne partirono. E nondimeno il reame di Napoli, benché per tutto ne fussino stati cacciati gli inimici, non godeva i frutti della pace. Perché i soldati spagnuoli, creditori giá delle paghe di piú di uno anno, non contenti che ’l gran capitano, perché si sostentassino insino che avesse proveduto a’ danari, gli aveva alloggiati in diversi luoghi ne’ quali vivevano a spese de’ popoli, ma prestate indiscretissimamente ad arbitrio loro (al che i soldati hanno dato nome di alloggiamento a discrezione), rotti i freni dell’ubbidienza erano, con grandissimo dispiacere del gran capitano, entrati in Capua e in Castell’a mare, onde recusando di partirsi se non si numeravano loro gli stipendi giá corsi, né a questo, perché importavano quantitá grandissima di danari, potendo provedersi senza aggravare eccessivamente il reame esausto per le lunghe guerre e consumato, erano miserabili le condizioni degli uomini, non essendo meno grave la medicina che la infermitá che si cercava di curare: cose tanto piú moleste quanto piú erano nuove e fuora degli esempli passati. Perché se bene dopo i tempi antichi, ne’ quali la disciplina militare s’amministrava severamente, i soldati erano stati sempre licenziosi e gravi a’ popoli, nondimeno, non disordinate ancora in tutto le cose, vivevano in gran parte de’ soldi loro né passava a termini intollerabili la loro licenza. Ma gli spagnuoli primi in Italia cominciorno a vivere totalmente delle sostanze de’ popoli, dando cagione e forse necessitá a tanta licenza l’essere dai suoi re, per l’impotenza loro, male pagati: dal quale principio ampliandosi la corruttela, perché l’imitazione del male supera sempre l’esempio come per il contrario l’imitazione del bene è sempre inferiore, cominciorno poi e gli spagnuoli medesimi e non meno gli italiani a fare, o siano pagati o non pagati, il medesimo; talmente che con somma infamia della milizia odierna, non sono piú sicure dalla sceleratezza de’ soldati le robe degli amici che degli inimici.