Storia d'Italia/Libro VI/Capitolo I
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I
Pervenute al re di Francia le novelle di tanto danno, in tempo che piú poteva in lui la speranza della pace che i pensieri della guerra, commosso gravissimamente per la perdita di uno reame tanto nobile, per la ruina degli eserciti suoi ne’ quali era tanta nobiltá e tanti uomini valorosi, per i pericoli ne’ quali rimanevano l’altre cose che in Italia possedeva, né meno per riputarsi grandissimo disonore di essere vinto da’ re di Spagna senza dubbio meno potenti di lui, e sdegnato sommamente di essere stato ingannato sotto la speranza della pace, deliberava di attendere con tutte le forze sue a recuperare l’onore e il regno perduto e vendicarsi con l’armi di tanta ingiuria. Ma innanzi procedesse piú oltre si lamentò efficacissimamente con l’arciduca, che ancora non era partito da Bles, dimandandogli facesse quella provisione che era conveniente se voleva conservare la sua fede e il suo onore: il quale, essendo senza colpa, ricercava con grandissima instanza i suoceri del rimedio, dolendosi sopra modo che queste cose fussino cosí succedute, con tanta sua infamia, nel cospetto di tutto il mondo. I quali, innanzi alla vittoria, avevano con varie scuse differito di mandare la ratificazione della pace, allegando ora non trovarsi tutt’a due in uno luogo medesimo, come era necessario avendo a fare congiuntamente le espedizioni, ora di essere occupati molto in altri negozi; come quegli che erano mal sodisfatti della pace, o perché il genero avesse trapassato le loro commissioni o perché, dopo la partita sua di Spagna, avessino conceputo maggiore speranza dello evento della guerra, o perché fusse paruto loro molto strano ch’egli avesse convertita in se medesimo la parte loro del reame e senza avere certezza alcuna, per l’etá tanto tenera degli sposi, che avesse ad avere effetto il matrimonio del figliuolo: e nondimeno non negando, anzi sempre dando speranza di ratificare ma differendo, si avevano riservato libero, piú tempo potevano, il pigliare consiglio secondo i successi delle cose. Ma intesa la vittoria de’ suoi, deliberati di disprezzare la pace fatta, allungavano nondimeno il dichiarare all’arciduca la loro intenzione, perché quanto piú tempo ne stesse ambiguo il re di Francia tanto tardasse a fare nuove provisioni per soccorrere Gaeta e l’altre terre che gli restavano. Ma stretti finalmente dal genero, determinato di non partire altrimenti da Bles, vi mandorono nuovi imbasciadori; i quali, dopo avere trattato qualche giorno, manifestorono finalmente non essere la intenzione de’ loro re di ratificare quella pace, la quale non era stata fatta in modo che fusse per loro né onorevole né sicura: anzi, venuti in controversia con l’arciduca, gli dicevano essersi i suoceri maravigliati assai che egli nelle condizioni della pace la volontá loro trapassata avesse; perché, benché per onore suo il mandato fusse stato libero e amplissimo, che egli si aveva a riferire alle istruzioni, che erano state limitate. Alle quali cose rispondeva Filippo non essere state manco libere le istruzioni che il mandato; anzi, avergli alla partita sua efficacemente detto, l’uno e l’altro de’ suoceri, che desideravano e volevano la pace per mezzo suo, e avergli giurato, in sul libro dello evangelio e in su l’immagine di Cristo crocifisso, che osserverebbono tutto quello che da lui si conchiudesse; e nondimeno non avere voluto usare sí ampia e sí libera facoltá se non con partecipazione de’ due uomini che seco mandati avevano. Proposeno gli oratori con le medesime arti nuove pratiche di concordia, mostrandosi inclinati a restituire il regno al re Federigo; ma conoscendosi essere cose non solo vane ma insidiose, perché tendevano ad alienare dal re di Francia l’animo di Filippo intento a conseguire quel reame per il figliuolo, il re proprio, in publica udienza, fece loro risposta, denegando volere prestare orecchi in modo alcuno a nuovi ragionamenti se prima non ratificavano la pace fatta e facevano segni che fussino dispiaciuti loro i disordini seguiti; aggiugnendo parergli cosa non solo maravigliosa ma detestanda e abominevole che quegli re, che tanto d’avere acquistato il titolo di cattolici si gloriavano, tenessino sí poco conto dell’onore proprio, della fede data, del giuramento e della religione, né avessino rispetto alcuno all’arciduca, principe di tanta grandezza nobiltá e virtú, e figliuolo ed erede loro: con la quale risposta avendo il dí medesimo fattigli partire dalla corte, si volse con tutto l’animo alle provisioni della guerra; disegnando farle maggiori, e per terra e per mare, che giá gran tempo fa fussino state fatte per alcuno re di quel reame. Deliberò adunque di mandare grandissimo esercito e potentissima armata marittima nel regno di Napoli; e perché in questo mezzo non si perdesse Gaeta e le castella di Napoli, mandarvi con prestezza, per mare, soccorso di nuove genti e di tutte le cose necessarie; e per impedire che di Spagna non vi andasse soccorso, il che era stato causa di tutti i disordini, assaltare con due eserciti per terra il regno di Spagna, mandandone uno nel contado di Rossiglione, che è contiguo al mare Mediterraneo, l’altro verso Fonterabia e gli altri luoghi circostanti posti in sul mare Oceano; e con una armata marittima molestare, nel tempo medesimo, la costiera di Catalogna e di Valenza. Le quali espedizioni mentre che con grandissima sollecitudine si preparano, Consalvo, intento alla espugnazione delle castella di Napoli, piantò l’artiglierie contro a Castelnuovo alle radici del monte di San Martino, onde di luogo rilevato si batteva il muro della cittadella, la quale situata di verso il detto monte era di mura antiche fondate quasi sopra terra; e nel tempo medesimo Pietro Navarra faceva una mina per ruinare le mura della cittadella; e similmente si battevano le mura del castello dalla Torre di San Vincenzio, stata presa pochi dí prima da Consalvo. Era allora Castelnuovo in forma diversa dalla presente, perché ora, levata via la cittadella, comincia dove erano le mura di quella un circuito nuovo di mura che si distende per la piazza del castello insino alla marina; il quale circuito, principiato da Federigo e alzato da lui insino al bastione, fabbricato di muraglia forte e bene fondata, è molto difficile a minare, per essere contraminato bene per tutto e perché la sommitá dell’acqua è molto vicina alla superficie della terra. Ed era il disegno di Consalvo, presa che avesse la cittadella, accostandosi alla scarpa del muro del castello, sforzarsi di rovinarlo con nuove mine; ma dalla temeritá o dalla mala fortuna de’ franzesi gli fu presentata maggiore occasione. Perché, poi che alla mina condotta alla sua perfezione fu fatto dare il fuoco da Pietro Navarra, aperse l’impeto della polvere il muro della cittadella; e nel tempo medesimo i fanti spagnuoli che stavano in battaglia aspettando questo, parte per la rottura del muro parte salendo con le scale da piú bande, entrorono dentro: e da altra parte i franzesi, usciti del castello, per non gli lasciare fermare nella cittadella andorono incontro a loro: dalle forze de’ quali in poco tempo soprafatti, ritirandosi nel rivellino, gli spagnuoli alla mescolata con loro vi entrorono dentro, e spingendosi col medesimo impeto alla via della porta, dove non era allora il nuovo torrione il quale fece poi fabbricare Consalvo, accrebbono ne’ franzesi, giá inviliti, tanto il terrore che in meno d’una mezza ora, perduto al tutto l’animo, detteno il castello con le robe, delle quali vi era rifuggita quantitá grandissima, e persone loro, a discrezione: ove restò prigione il conte di Montorio e molti altri signori. E riuscí questo acquisto piú opportuno, perché il dí seguente arrivò per soccorrerlo, da Genova, una armata di sei navi grosse e di molti altri legni carichi di vettovaglie d’armi e di munizioni, e con dumila fanti. In su l’approssimarsi della quale, l’armata spagnuola che era nel porto di Napoli si ritirò a Ischia; dove, intesa che ebbe la perdita di Castelnuovo, la seguitò l’armata franzese: ma avendo la spagnuola, per non essere sforzata a combattere, affondato innanzi a sé certe barche, poiché s’ebbono tirato qualche colpo d’artiglieria, l’una andò a Gaeta, l’altra assicuratasi per la partita sua ritornò al molo di Napoli.
Espugnato Castelnuovo, Consalvo intento allo acquisto di tutto il reame, non aspettato l’esercito di Calavria, il quale per levarsi tutti gli impedimenti del venire innanzi s’era fermato a conquistare la valle d’Ariano, mandò Prospero Colonna nello Abruzzi; ed egli, lasciato Pietro Navarra alla espugnazione di Castel dell’Uovo, si dirizzò col resto dello esercito a Gaeta: nella espugnazione della quale consisteva la perfezione della vittoria, perché la speranza e la disperazione de’ franzesi dependeva totalmente dalla salvazione o dalla perdita di quella cittá, forte, marittima, e che ha porto tanto capace e sí opportuno alle armate mandate da Genova e di Provenza. Né erano perciò i franzesi ristretti in Gaeta sola, ma oltre a’ luoghi circostanti che si tenevano per loro tenevano nello Abruzzi l’Aquila la Rocca d’Evandro e molte altre terre: e Luigi d’Ars, raccolti molti cavalli e fanti e fattosi forte col principe di Melfi in Venosa, molestava tutto il paese vicino; e Rossano, Matalona e molte altre terre forti, che erano di baroni della parte angioina, si conservavano costantemente alla divozione del re di Francia.
Faceva in questo tempo Pietro Navarra certe barche coperte, con le quali, accostatosi al muro di Castel dell’Uovo piú sicuramente, fece la mina dalla parte che guarda Pizzifalcone, non s’accorgendo quegli che erano dentro dell’opera sua; per la quale, dato il fuoco, balzò con grande impeto in aria una parte del masso insieme con gli uomini che vi erano sopra; per il qual caso spaventati gli altri fu subito presa la fortezza, con tanta riputazione di Pietro Navarra e con tanto terrore degli uomini che (come sono piú spaventevoli i modi nuovi dell’offese perché non sono ancora escogitati i modi delle difese) si credeva che alle sue mine muraglia o fortezza alcuna resistere piú non potesse. Ed era certamente cosa molto orribile che con la forza della polvere d’artiglieria, messa nella cava o veramente nella mina, si gittassino in terra grandissime muraglie. La quale specie d’espugnazione era stata la prima volta usata in Italia da’ genovesi, co’ quali, secondo che affermano alcuni, militava per fante privato Pietro Navarra, quando l’anno mille quattrocento ottantasette s’accamporono alla rocca di Serezanello tenuta da’ fiorentini; ove con una cava fatta in simile modo aperseno parte della muraglia; ma non conquistando la rocca, per non essere la mina penetrata tanto sotto i fondamenti del muro quanto era necessario, non fu seguitato per allora l’esempio di questa cosa.
Ma approssimandosi Consalvo a Gaeta, Allegri, che aveva distribuito quattrocento lancie e quattromila fanti, di quegli che s’erano salvati della rotta, tra Gaeta, Fondi, Itri, Traietto e Rocca Guglielma, gli ritirò tutti in Gaeta; e vi entrorno insieme i príncipi di Salerno e di Bisignano il duca di Traietto il conte di Consa e molti baroni del regno, che prima si erano uniti con lui. Dopo la ritirata de’ quali, Consalvo, insignoritosi di tutte quelle terre e della rocca di San Germano, alloggiò col campo nel borgo di Gaeta, col quale, poco poi, avendo presa la valle d’Ariano, si uní l’esercito di Calavria; e piantate le artiglierie batté con impeto grande dalla parte del porto e dalla parte del monte detto volgarmente il Monte di Orlando, congiunto e supereminente alla cittá, e il quale, cinto dipoi di mura da lui, era stato allora con ripari e con bastioni di terra fortificato da’ franzesi: e avendo tentato invano, con due assalti non ordinati, di entrarvi, s’astenne finalmente di dare la battaglia ordinata, il dí che avevano determinato di darla, riputando la espugnazione difficile per il numero e virtú de’ difensori, e considerando che quando bene l’esercito suo fusse per forza entrato nel monte si riduceva in maggior pericolo, perché sarebbe stato esposto alle artiglierie piantate nel monasterio e altri luoghi rilevati che erano in sul monte. Continuava nondimeno di battere con l’artiglierie e molestare la terra: stretta similmente dalla parte del mare, perché innanzi al porto erano diciotto galee spagnuole, delle quali era capitano don Ramondo di Cardona. Ma pochi dí poi arrivò una armata di sei caracche grosse genovesi sei altre navi e sette galee, carica di vettovaglie e di molti fanti, in sulla quale era il marchese di Saluzzo, mandato, per la morte del duca di Nemors, per nuovo viceré dal re di Francia, sollecito quanto era possibile alla conservazione di Gaeta, e perciò, parte in su questi legni parte in su altri che giunsono poco poi, vi mandò in pochi dí mille fanti corsi e tremila guasconi: per la venuta della quale armata l’armata spagnuola fu costretta a ritirarsi a Napoli; e Consalvo, disperando di potere farvi piú frutto alcuno, ridusse le genti a Mola di Gaeta e al Castellone, donde teneva Gaeta come assediata di largo assedio; avendovi perduto, parte nello scaramucciare parte nel ritirarsi, molti uomini, tra’ quali fu ammazzato dall’artiglieria di dentro don Ugo di Cardona. Ma gli succedevano nel tempo medesimo prosperamente tutte le altre cose del regno: perché Prospero Colonna aveva preso la Rocca d’Evandro e l’Aquila, e tutte l’altre terre dello Abruzzi ridotte alla divozione spagnuola; e la Calavria quasi tutta la medesima ubbidienza seguitava, per l’accordo che nuovamente aveva fatto il conte di Capaccio con loro; né vi rimaneva altro che Rossano e Santa Severina, ove era assediato il principe di Rossano.