Storia d'Italia/Libro IX/Capitolo XV
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XV
Variavano in questo modo le cose dell’armi, non si vedendo ancora indizio da potere fondatamente giudicare quale dovesse essere l’esito della guerra. Ma non meno né con minore incertitudine variavano i pensieri de’ príncipi, principalmente di Cesare; il quale inaspettatamente deliberò di mandare il vescovo Gurgense a Mantova a trattare la pace. Erasi, come è detto di sopra, stabilito per mezzo del vescovo prefato tra ’l re di Francia e Cesare di muovere potentemente alla primavera la guerra contro a’ viniziani e che in caso che ’l pontefice non consentisse d’osservare la lega di Cambrai, di convocare il concilio: al quale Cesare molto inclinato, aveva dopo il ritorno di Gurgense chiamato i prelati degli stati suoi patrimoniali, perché trattassino in quali modi e in qual luogo si dovesse celebrare. Ma, come naturalmente era vario e incostante e inimico del nome franzese, avea dipoi prestato l’orecchie al re d’Aragona; il quale, considerando che l’unione di Cesare e del re, e la depressione con l’armi comuni de’ viniziani, medesimamente la ruina del pontefice per mezzo del concilio, accrescerebbeno immoderatamente la grandezza del re di Francia, si era ingegnato persuadergli essere piú a proposito suo la pace universale, pure che con quella conseguisse o in tutto o in maggiore parte quello che gli occupavano i viniziani; confortandolo che a questo effetto mandasse a Mantova una persona notabile con ampia autoritá e che operasse che il re di Francia facesse il medesimo, e che egli simigliantemente vi manderebbe; onde il pontefice non potrebbe dinegare di fare il simile, né finalmente deviare dalla volontá di tanti príncipi; dalla cui deliberazione dependendo la deliberazione de’ viniziani (perché per non rimanere soli erano necessitati seguitare la sua autoritá), potersi verisimilmente sperare che Cesare, senza difficoltá senza armi senza accrescere la riputazione o la potenza del re di Francia, otterrebbe con somma laude insieme con la pace universale lo intento suo. E quando pure non ne succedesse quel che ragionevolmente ne doveva succedere, non per questo rimanere privato della facoltá di muovere, al tempo determinato e coll’opportunitá medesime, la guerra: anzi, essendo egli il capo di tutti i príncipi cristiani e avvocato della Chiesa, augumentarsi molto le giustificazioni ed esaltarsi assai da questo consiglio la gloria sua; perché a tutto il mondo manifestamente apparirebbe avere principalmente desiderato la pace e l’unione de’ cristiani, ma averlo costretto alla guerra l’ostinazione e perversi consigli degli altri. Furno capaci a Cesare le ragioni addotte dal re cattolico, e perciò nel tempo medesimo scrisse al pontefice e al re di Francia. Al pontefice, avere deliberato di mandare il vescovo Gurgense in Italia, perché, come conveniva a principe religioso, e per la degnitá imperiale avvocato della Chiesa e capo di tutti i príncipi cristiani, aveva statuito procurare quanto potesse la tranquillitá della sedia apostolica e la pace della cristianitá; e confortare lui che, come apparteneva a vicario vero di Cristo, procedesse con la medesima intenzione, acciò che, non facendo quel che era ufficio del pontefice, non fusse costretto egli a pensare a’ rimedi necessari per la quiete de’ cristiani. Non approvare che e’ trattasse di privare i cardinali assenti della degnitá del cardinalato, perché non si essendo assentati per maligni pensieri né per odio contro a lui non meritavano tale pena; né appartenere al papa solo la privazione de’ cardinali. Ricordargli oltre a questo, essere cosa molto indegna e inutile creare in tante turbazioni cardinali nuovi, come similmente gli era proibito per i capitoli fatti da’ cardinali nel tempo della sua elezione al pontificato; esortandolo a riservare tal cosa a tempo piú tranquillo, nel quale non arebbe o necessitá o cagione di promuovere a tanta degnitá se non persone approvatissime per prudenza per dottrina e per costumi. Al re di Francia scrisse che, sapendo la inclinazione che sempre avea avuta alla pace onesta e sicura, avea deliberato di mandare a Mantova il vescovo Gurgense a trattare la pace universale, alla quale credeva con fondamenti non leggieri che il pontefice, l’autoritá del quale erano costretti a seguitare i viniziani, fusse inclinato; il medesimo prometterebbono gli oratori del re d’Aragona; e che perciò lo ricercava che egli similmente vi mandasse imbasciadori con ampio mandato: i quali come fussino congregati, Gurgense richiederebbe il pontefice che facesse il medesimo, e in caso lo denegasse se gli denunzierebbe in nome di tutti il concilio: mandando che per procedere con maggiore giustificazione e porre fine alle controversie di tutti, Gurgense udirebbe le ragioni di tutti; ma che, in qualunque caso, tenesse per certo che giammai co’ viniziani non farebbe concordia alcuna se nel tempo medesimo non si terminassino col pontefice le differenze sue.
Fu grata questa cosa al pontefice, non a fine di pace o di concordia ma perché, persuadendosi potere disporre il senato viniziano a comporsi con Cesare, sperava che Cesare liberato per questo mezzo dalla necessitá di stare unito col re di Francia si separerebbe da lui; onde agevolmente potrebbe contro al re nascere congiunzione di molti príncipi. Ma questa improvisa deliberazione fu molestissima al re di Francia; perché, non avendo speranza che ne avesse a risultare la pace universale, giudicava che il minore male che ne potesse succedere sarebbe interporre lunghezza all’esecuzione delle cose convenute da sé con Cesare. Temeva che il pontefice, promettendo a Cesare di aiutarlo acquistare il ducato di Milano e a Gurgense la degnitá del cardinalato e altre grazie ecclesiastiche, non l’alienasse da lui; o almeno, essendo mezzo che la composizione co’ viniziani non fusse piú favorevole a Cesare, mettesse lui in necessitá d’accettare la pace con inonestissime condizioni. Accrescevagli il sospetto l’essersi Cesare confederato di nuovo co’ svizzeri, benché solamente a difesa. Persuadevasi, il re cattolico essere stato autore a Cesare di questo nuovo consiglio; della cui mente sospettava grandemente per molte cagioni. Sapeva che l’oratore suo appresso a Cesare si era affaticato e affaticava scopertamente per la concordia tra Cesare e i viniziani: credeva che occultamente desse animo al pontefice, nell’esercito del quale erano state le genti sue molto piú tempo che quello che per i patti della investitura del regno di Napoli era tenuto: sapeva che, per impedire l’azioni sue, si opponeva efficacemente alla convocazione del concilio; e sotto specie d’onestá dannava palesemente che, ardendo Italia di guerre, e con la mano armata, si trattasse di fare una opera che senza la concordia di tutti i príncipi non poteva partorire altro che frutti velenosissimi: aveva notizia prepararsi da lui nuovamente in mare una armata molto potente, e con tutto che publicasse di volere passare in Affrica personalmente non si poteva però sapere se ad altri fini si preparava. Facevanlo molto piú sospettare le dolcissime parole sue colle quali pregava quasi fraternalmente il re che facesse la pace col pontefice, rimettendo eziandio, quando altrimenti fare non si potesse, delle sue ragioni, per non si dimostrare persecutore della Chiesa, contro all’antica pietá della casa di Francia, e per non interrompere a lui la guerra destinata per esaltazione del nome di Cristo contro a’ mori di Affrica, turbando in uno tempo medesimo tutta la cristianitá; soggiugnendo essere stata sempre consuetudine de’ príncipi cristiani, quando preparavano l’armi contro agli infedeli, domandare in causa tanto pia sussidio dagli altri, ma a lui bastare non essere impedito, né ricercarlo d’altro aiuto se non che consentisse che Italia stesse in pace. Le quali parole, benché porte al re dall’oratore suo e da lui proprio dette all’oratore del re risedente appresso a lui, molto destramente e con significazione grande di amore, pareva perciò che contenessino uno tacito protesto di pigliare l’armi in favore del pontefice: il che al re non pareva verisimile che ardisse di fare senza speranza di indurre Cesare al medesimo.
Angustiavano queste cose non mediocremente l’animo del re, e l’empievano di sospetto che il trattare la pace per mezzo del vescovo Gurgense sarebbe opera o vana o perniciosa a sé; nondimeno, per non dare causa di indegnazione a Cesare, si risolvé a mandare a Mantova il vescovo di Parigi, prelato di grande autoritá e dotto nella scienza delle leggi. In questo tempo medesimo significò il re a Gianiacopo da Triulzi, il quale fermatosi a Sermidi avea, per maggiore comoditá dell’alloggiare e delle vettovaglie, distribuito in piú terre circostanti l’esercito, essere la volontá sua che da lui fusse amministrata la guerra; con limitazione che, per l’espettazione della venuta di Gurgense, non assaltasse lo stato ecclesiastico: alla qual cosa repugnando anche l’asprezza inusitata del tempo, per la quale, con tutto che fusse cominciato il mese di marzo, era impossibile alloggiare allo scoperto.
Perciò il Triulzo, poi che non s’aveva occasione di tentare altro e che era ne’ luoghi tanto vicini, deliberò di tentare se si poteva offendere l’esercito inimico; il quale, allargatosi quando Ciamonte ritornò da Sermidi a Carpi, alloggiava al Bondino quasi tutta la fanteria, e la cavalleria al Finale e per le ville vicine. Però, ricevuta la commissione del re, andò il dí seguente alla Stellata e l’altro dí alquanto piú innanzi; ove distribuí al coperto per le ville circostanti l’esercito, e facendo gittare il ponte con le barche tra la Stellata e Ficheruolo in su tutto il fiume del Po: avendo ordinato che ’l duca di Ferrara ne gittasse un altro un miglio di sotto ove si dice la Punta, in su quello ramo del Po che va a Ferrara; e che con l’artiglierie venisse allo Spedaletto, luogo in sul Polesine di Ferrara che è di riscontro al Bondino. Ebbe in questo mezzo il Triulzio notizia dalle sue spie che molti cavalli leggieri, di quella parte dell’esercito de’ viniziani che era di lá dal Po, dovevano la notte prossima venire appresso alla Mirandola a ordinare certe insidie; perciò vi mandò occultamente molti cavalli: i quali giunti a Bellaere, palagio del contado mirandolano, vi trovorno fra’ Lionardo napoletano capitano de’ cavalli leggieri de’ viniziani, uomo chiaro in quello esercito, il quale non temendo dovessino venirvi gli inimici, smontato quivi con cento cinquanta cavalli ne aspettava molti altri che lo doveano seguitare; ma oppresso all’improviso, volendosi difendere, fu ammazzato con molti de’ suoi. Venne Alfonso da Esti, come era destinato, allo Spedaletto, e la notte seguente cominciò a tirare con l’artiglierie contro al Bondino; e nel tempo medesimo il Triulzio mandò Gastone monsignore di Fois, figliuolo di una sorella del re (il quale, giovanetto, era l’anno dinanzi venuto all’esercito), a correre, con cento uomini d’arme quattrocento cavalli leggieri e cinquecento fanti, insino alle sbarre dell’alloggiamento degli inimici: il quale messe in fuga cinquecento fanti destinati alla guardia di quella fronte; onde gli altri tutti, lasciato guardato il Bondino, si ritirorno di lá dal canale nel sito forte. Ma non succedette al Triulzo alcuna delle cose destinate; perché l’artiglieria piantata contro al Bondino, essendovi in mezzo il Po, faceva per la distanza del luogo piccolo progresso, e molto piú perché cresciuto il fiume, e tagliato l’argine da quegli che erano nel Bondino, allagò talmente il paese che dalla fronte degli alloggiamenti franzesi al Bondino non si poteva piú andare se non colle barche: di maniera che ’l capitano, disperato di potere piú condursi per quella via agli alloggiamenti degli inimici, chiamò da Verona dumila fanti tedeschi e ordinò si soldassino tremila grigioni, per accostarsi loro per la via di San Felice; in caso che, per opera del vescovo Gurgense, non si introducesse la pace.
La cui venuta era stata alquanto piú tarda perché a Salò, in sul lago di Garda, aveva aspettato piú dí invano la risposta del pontefice; il quale aveva per lettere ricercato che mandasse imbasciadori a trattare. Venne finalmente a Mantova, accompagnato da don Petro d’Urrea, il quale per il re d’Aragona risedeva ordinariamente appresso a Cesare ove pochi dí poi sopravenne il vescovo di Parigi; persuadendosi il re di Francia (il quale, per essere piú vicino alle pratiche della pace e a provedimenti della guerra, era venuto a Lione) che medesimamente il pontefice dovesse mandarvi. Il quale, da altra parte, faceva instanza che Gurgense andasse a lui; mosso non tanto perché gli paresse questo essere piú secondo la degnitá pontificale quanto perché sperava, e coll’onorarlo e col caricarlo di promesse, e con l’efficacia e autoritá della presenza, averlo a indurre nella sua volontá, alienissima piú che mai dalla concordia e dalla pace: il che per persuadergli piú facilmente procurò che andasse a lui Ieronimo Vich valenziano, oratore del re cattolico appresso a sé. Non negava Gurgense di volere andare al pontefice; ma diceva, essere richiesto di fare prima quel che era conveniente fare dipoi; affermando che piú facilmente si rimoverebbono le difficoltá se si trattasse prima a Mantova, con intenzione di andare poi al pontefice con le cose digerite e quasi conchiuse. Astrignerlo a questo medesimo non meno la necessitá che il rispetto della facilitá: perché come era egli conveniente lasciare solo il vescovo di Parigi, mandato dal re di Francia a Mantova per l’instanza fatta da Cesare? con che speranza potersi trattare da lui le cose del suo re? come conveniente richiederlo che andasse insieme con lui al pontefice? perché né secondo la commissione né secondo la degnitá del re poteva andare in casa dello inimico, se prima non fussino composte, o quasi composte, le differenze loro. In contrario argomentavano i due imbasciadori aragonesi, dimostrando che tutta la speranza della pace dipendeva dal comporre le cose di Ferrara; perché composte quelle, non rimanendo al pontefice piú causa alcuna di sostentare i viniziani, sarebbono essi del tutto necessitati di cedere alla pace con quelle leggi che volesse Cesare medesimo. Pretendere il pontefice che la sedia apostolica avesse in sulla cittá di Ferrara potentissime ragioni: riputare, oltre a questo, Alfonso da Esti avere usato seco grande ingratitudine, avergli fatte molte ingiurie; e per mollificare l’animo suo gravemente sdegnato essere piú conveniente e piú a proposito che il vassallo dimandasse piú tosto clemenza al superiore che disputasse della giustizia. Dunque, avendosi a impetrare clemenza, essere non solamente onesto ma quasi necessario il trasferirsi a lui; il che facendo non dubitavano che molto mitigato diminuirebbe il rigore; né essi giudicare essere utile che quella diligenza industria e autoritá che s’aveva a usare per disporre il pontefice alla pace si spendesse nel persuaderlo a mandare. Soggiugnevano, con parole bellissime, non si potere né disputare né terminare le differenze se non intervenivano tutte le parti, ma in Mantova non essere altri che una, perché Cesare il re cristianissimo e il re cattolico erano in tanta congiunzione di leghe, di parentadi e di amore che si dovevano riputare come fratelli, e che gli interessi di ciascuno di loro fussino comuni di tutti. Assentí finalmente Gurgense, con intenzione che ’l vescovo di Parigi, aspettando a Parma che partorisse l’andata sua, vi andasse anch’egli, se cosí piacesse al suo re, di andare al pontefice.XVI
Il quale non aveva in questo tempo, per le cose che si trattavano attenenti alla pace, deposti i pensieri della guerra: perché di nuovo tentava l’espugnazione della bastia del Genivolo, avendo preposto a questa impresa Giovanni Vitelli. Ma essendo, per la strettezza de’ pagamenti, il numero de’ fanti molto minore di quel che aveva disegnato, ed essendo per le pioggie grandi, e perché quegli che erano nella bastia aveano rotto gli argini del Po, inondato il paese all’intorno, non si faceva progresso alcuno: e per acqua vi erano superiori le cose d’Alfonso da Esti; perché avendo con una armata di galee e di brigantini assaltata appresso a Santo Alberto l’armata de’ viniziani, quella, spaventata perché mentre combattevano si scoperse una armata di legni minori che veniva da Comacchio, si rifuggí nel porto di Ravenna, avendo perduto due fuste tre barbotte e piú di quaranta legni minori. Onde il papa, perduta la speranza di pigliare la bastia, mandò quelle genti nel campo che alloggiava al Finale, diminuito molto di fanti perché strettissimamente erano pagati. Creò nel tempo medesimo il pontefice otto cardinali, parte per conciliarsi gli animi de’ príncipi, parte per armarsi, contro alle minaccie del concilio, di prelati dotti ed esperimentati e di autoritá nella corte romana, e di persone confidenti a sé, tra’ quali fu l’arcivescovo d’Iorch (diconlo i latini eboracense) imbasciadore del re di Inghilterra, e il vescovo di Sion: questo come uomo importante a muovere la nazione de’ svizzeri; quello perché ne fu ricercato dal suo re, il quale aveva giá non piccola speranza di concitare contro a’ franzesi. E per dare