Storia d'Italia/Libro IX/Capitolo XVI
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XVI
Il quale non aveva in questo tempo, per le cose che si trattavano attenenti alla pace, deposti i pensieri della guerra: perché di nuovo tentava l’espugnazione della bastia del Genivolo, avendo preposto a questa impresa Giovanni Vitelli. Ma essendo, per la strettezza de’ pagamenti, il numero de’ fanti molto minore di quel che aveva disegnato, ed essendo per le pioggie grandi, e perché quegli che erano nella bastia aveano rotto gli argini del Po, inondato il paese all’intorno, non si faceva progresso alcuno: e per acqua vi erano superiori le cose d’Alfonso da Esti; perché avendo con una armata di galee e di brigantini assaltata appresso a Santo Alberto l’armata de’ viniziani, quella, spaventata perché mentre combattevano si scoperse una armata di legni minori che veniva da Comacchio, si rifuggí nel porto di Ravenna, avendo perduto due fuste tre barbotte e piú di quaranta legni minori. Onde il papa, perduta la speranza di pigliare la bastia, mandò quelle genti nel campo che alloggiava al Finale, diminuito molto di fanti perché strettissimamente erano pagati. Creò nel tempo medesimo il pontefice otto cardinali, parte per conciliarsi gli animi de’ príncipi, parte per armarsi, contro alle minaccie del concilio, di prelati dotti ed esperimentati e di autoritá nella corte romana, e di persone confidenti a sé, tra’ quali fu l’arcivescovo d’Iorch (diconlo i latini eboracense) imbasciadore del re di Inghilterra, e il vescovo di Sion: questo come uomo importante a muovere la nazione de’ svizzeri; quello perché ne fu ricercato dal suo re, il quale aveva giá non piccola speranza di concitare contro a’ franzesi. E per dare arra quasi certa della medesima degnitá a Gurgense, e renderselo con questa speranza piú facile, si riservò, col consentimento del concistorio, facoltá di nominarne un altro riservato nel petto suo.
Ma inteso che ebbe, Gurgense avere consentito di andare a lui, disposto a onorarlo sommamente, e parendogli niuno onore potere essere maggiore che il pontefice romano farsegli incontro, e oltre a questo dargli maggiore comoditá d’onorarlo il riceverlo in una magnifica cittá, andò da Ravenna a Bologna; dove, il terzo dí dopo l’entrata sua, entrò il vescovo Gurgense, ricevuto con tanto onore che quasi con maggiore non sarebbe stato ricevuto re alcuno: né si dimostrò da lui pompa e magnificenza minore; perché, venendo con titolo di luogotenente di Cesare in Italia, aveva seco grandissima compagnia di signori e di gentiluomini, tutti colle famiglie loro, vestiti e ornati molto splendidamente. Alla porta della cittá se gli fece incontro, con segni di grandissima sommissione, l’imbasciadore che ’l senato viniziano teneva appresso al pontefice: contro al quale egli, pieno di fasto inestimabile, si voltò con parole e gesti molto superbi, sdegnandosi che uno che rappresentava gli inimici di Cesare avesse avuto ardire di presentarsi al cospetto suo. Con questa pompa accompagnato insino al concistorio publico, ove con tutti i cardinali l’aspettava il pontefice, propose con breve ma superbissimo parlare, Cesare averlo mandato in Italia per il desiderio che aveva di conseguire le cose sue piú tosto per la via della pace che della guerra; la quale non poteva avere luogo se i viniziani non gli restituivano tutto quello che in qualunque modo se gli apparteneva. Parlò dopo l’udienza publica col pontefice privatamente, nella medesima sentenza e con la medesima alterezza: alle quali parole e dimostrazioni accompagnò, il seguente dí, fatti non meno superbi. Perché avendo il pontefice, con suo consentimento, diputati a trattare seco tre cardinali, San Giorgio, Regino e quel de’ Medici, i quali aspettandolo all’ora che erano convenuti di essere insieme, egli, come se fusse cosa indegna di lui trattare con altri che col pontefice, mandò a trattare con loro tre de’ suoi gentiluomini, scusandosi di essere occupato in altre faccende: la quale indegnitá divorava insieme con molt’altre il pontefice, vincendo la sua natura l’odio incredibile contro a’ franzesi.
Ma nella concordia tra Cesare e i viniziani, della quale cominciò a trattarsi prima, erano molte difficoltá. Perché se bene Gurgense, il quale aveva dimandato prima tutte le terre, consentisse alla fine che a loro rimanessino Padova e Trevigi con tutti i loro contadi e appartenenze, voleva che in ricompenso dessino a Cesare quantitá grandissima di danari; che da lui in feudo le riconoscessino, e le ragioni dell’altre terre gli cedessino: le quali cose erano nel senato ricusate; ove tutti unitamente conchiudevano piú utile essere alla republica (poi che aveano talmente fortificate Padova e Trevigi che non temevano di perderle) conservarsi i danari; perché, se mai passava questa tempesta, potrebbe offerirsi qualche occasione che facilmente recupererebbono il loro dominio. Da altra parte il pontefice ardeva di desiderio convenissino con Cesare, sperando che da questo avesse a succedere che egli si alienasse dal re di Francia; però gli stimolava, parte con prieghi parte con minaccie, che accettassino le condizioni proposte. Ma era minore appresso a loro la sua autoritá, non solamente perché conoscevano da quali fini procedesse tanta caldezza ma perché, sapendo quanto gli fusse necessaria la compagnia loro in caso non si riconciliasse col re di Francia, tenevano per certo che mai gli abbandonerebbe. Pure, da poi che fu disputato molti dí, rimettendo il vescovo Gurgense qualche parte della sua durezza e i viniziani cedendo piú di quel che aveano destinato alla instanza ardentissima del pontefice, interponendosi medesimamente gli oratori del re d’Aragona, che a tutte le pratiche intervenivano, pareva che finalmente fussino per convenire; pagando i viniziani, per ritenersi con consentimento di Cesare Padova e Trevigi, ma in tempi lunghi, quantitá grandissima di danari.
Rimaneva la causa della riconciliazione tra ’l pontefice e il re di Francia, tra i quali non appariva altra controversia che per le cose del duca di Ferrara; la quale Gurgense per risolvere (perché Cesare senza questa aveva deliberato non convenire) andò a parlare al pontefice, al quale rarissime volte era stato; persuadendosi, per le speranze avute dal cardinale di Pavia e dagli oratori del re cattolico, dovere essere materia non difficile, perché da altra parte sapeva, il re di Francia, avendo minore rispetto alla degnitá che alla quiete, essere disposto a consentire molte cose di non piccolo pregiudicio al duca. Ma il pontefice, interrompendogli quasi nel principio del parlare il ragionamento, cominciò per contrario a confortarlo che, concordando co’ viniziani, lasciasse pendenti le cose di Ferrara; lamentandosi che Cesare non conoscesse l’occasione paratissima di vendicarsi, con l’altrui forze e danari, di tante ingiurie ricevute da’ franzesi, e che aspettasse d’essere pregato di quel che ragionevolmente doveva con somma instanza supplicare. Alle quali cose Gurgense poi che con molte ragioni ebbe replicato, né potendo rimuoverlo dalla sentenza sua, gli significò volersi partire senza dare altrimenti perfezione alla pace co’ viniziani; e baciatigli secondo il costume i piedi, il dí medesimo, che fu il quintodecimo dalla venuta sua a Bologna, se ne andò a Modona; avendo invano il pontefice mandato a richiamarlo subito che fu uscito della cittá: onde si indirizzò verso Milano, lamentandosi in molte cose del pontefice, e specialmente che, mentre che per la venuta sua in Italia erano quasi sospese l’armi, avesse mandato secretamente per turbare lo stato di Genova... vescovo di Ventimiglia figliuolo giá di Paolo cardinale Fregoso. Dell’andata del quale essendo penetrata notizia a’ franzesi, lo feciono, cosí incognito come andava, pigliare nel Monferrato; onde condotto a Milano manifestò interamente le cagioni e i consigli della sua andata.
Ricercò Gurgense, quando partí da Bologna, gli imbasciadori aragonesi (i quali, essendosi per quel che appariva affaticati molto per la pace comune, si dimostravano sdegnati della durezza del pontefice) che facessino ritornare nel reame di Napoli le trecento lancie spagnuole; il che essi prontamente acconsentirono. Donde ciascuno tanto piú si maravigliava che, nel tempo che si trattava del concilio, e che si credeva dovere essere potenti in Italia, con la presenza d’amendue i re, l’armi franzesi e tedesche, il pontefice, oltre all’inimicizia del re di Francia, si alienasse Cesare e si privasse degli aiuti del re cattolico. Dubitavano alcuni che in questo come in molte altre cose fussino diversi i consigli del re d’Aragona dalle dimostrazioni, e che altro avessino in publico operato gli oratori suoi altro in secreto col pontefice; perché avendo provocato il re di Francia con nuove offese, e per quelle risuscitata la memoria delle antiche, pareva che dovesse temere che la pace di tutti gli altri non producesse gravissimi pericoli contro a sé, rimanendo indeboliti di stato di danari e di riputazione i viniziani, poco potente in Italia il re de’ romani e vario instabile e prodigo piú che mai: altri, discorrendo piú sottilmente, interpretavano potere per avventura essere che il pontefice, quantunque il re cattolico gli protestasse d’abbandonarlo e richiamasse le sue genti, confidasse che egli, considerando quanto nocerebbe a sé proprio la sua depressione, avesse sempre ne’ bisogni maggiori a sostenerlo.