Adone/Canto VI: differenze tra le versioni

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====Allegoria====
IL GIARDINO DEL PIACERE. Sotto la figura del giardino ci vien rappresentato il Piacere. Nelle cinque porte si sottointendono i cinque sentimenti del corpo. Nel cristallo e nel zaffiro della prima porta si significa la materia dell’occhio, ch’è l’organo della vista. Nel cedro della seconda il senso dell’odorato. Nella favoletta del pavone si dinota la maravigliosa fabrica del fermamento. Ama la colomba, percioché sicome in effetto questi due uccelli, secondo i naturali, si amano insieme, così tutte le luci superiori sono mosse e regolate dal divino amore. È trasformato da Giove, perché dal sommo artefice Iddio ebbe quello, come ogni altro cielo, la materia e la forma. Fingesi servo d’Apollo e da lui gli sono adornate le penne della varietà di tanti occhi, per essere il sole vivo fonte originale di tutta la luce, che poi si communica alle stelle. Ne’ diversi oggetti, passatempi e trattenimenti piacevoli si adombrano le voluttà sensuali.
 
====Argomento====
<poem>
''Al giardin del Piacer col giovinetto''
''sen va la dea del’amorosa luce.''
''Per le porte de’ sensi indi il conduce''
''di gioia in gioia al’ultimo diletto.''
</poem>
 
====Canto sesto====
<poem>
Armi il petto di gel chi vede Amore {{R|1ª ottava}}
saettar foco e ferir l’alme a morte,
e dela rocca fragile del core
difenda pur le malguardate porte;
né del crudele e perfido signore
v’introduca giamai le fiere scorte,
ch’insidiose a chi non ben le serra
sotto vista di pace apportan guerra.
Chi da quest’empio e dala carne infida {{R|2ª ottava}}
condur si lascia infra perigli errante,
è qual cieco che’l can prenda per guida,
segue del senso le fallaci piante;
s’avien poi ch’egli caggia o che l’uccida
chi per torto sentier lo scorse avante,
non si lagni d’altrui che di sestesso,
che’l fren d’ogni sua voglia in man gli ha messo.
È ver, che da sé sola a ciò non basta {{R|3ª ottava}}
nostra natura inferma e’ndebolita,
quand’anco il gran dottor, l’anima casta,
delo spirto di Dio tromba gradita,
per schermirsi da tal che ne contrasta,
ebbe mestier di sovrumana aita;
né degli assalti suoi può fedel alma
senza grazia divina acquistar palma.
Ma vuolsi ancor con studio e con fatica {{R|4ª ottava}}
schivar quel dolce invito, esca de’ sensi,
perché dela domestica nemica
sol con la fuga la vittoria ottiensi
e chi fuggir non sa questa impudica
a rischio va di precipizi immensi,
dove caduta poi l’anima sciocca
d’una in altra follia sempre trabocca.
Questa è la donna, ch’importuna e tenta {{R|5ª ottava}}
Adam per far che gusti esca interdetta;
la meretrice, che’n prigion tormenta
Giuseppe il giusto ed a peccar l’alletta;
questa è colei, che Sisara addormenta,
e per tradirlo sol seco il ricetta;
la disleal, che pria lusinga e prega
il malcauto Sansone e poi lo lega.
Questa è la Bersabea, per cui s’inchina {{R|6ª ottava}}
il buon re d’Israele ad opra indegna;
questa è di Salomon la concubina,
che follemente idolatrar gl’insegna,
l’infame Circe, la proterva Alcina,
l’Armida, che sviar l’alme s’ingegna,
la Vener, che lontan dala ragione
al giardin del piacer conduce Adone.
Infiora il lembo di quel gran palagio {{R|7ª ottava}}
spazioso giardin, mirabil orto.
Miseria mai né mai v’entrò Disagio,
v’han Delizie ed Amori ozio e diporto.
Colà, senza temer fato malvagio,
Venere bella il bel fanciullo ha scorto,
cangiando il ciel con quel felice loco,
che sembra il cielo o cede al ciel di poco.
- Non pensar tu che senza alto disegno {{R|8ª ottava}}
(disse volto Mercurio al bell’Adone)
fondata abbia Ciprigna entro il suo regno
questa sì vaga e florida magione,
ch’intelletto divin, celeste ingegno
nulla a caso giamai forma o dispone;
misterioso il suo edificio tutto
a sembianza del’uomo è qui costrutto.
Del corpo uman la nobile struttura {{R|9ª ottava}}
in semedesma ha simmetria cotanta,
ch’è regola infallibile e misura
di quanto il ciel con l’ampio tetto ammanta.
Tal fra gli altri animali il fè Natura,
che solo siede e sol dritto si pianta
e, come l’alma eccede ogni altra forma,
così d’ogni altro corpo il corpo è norma.
Le meraviglie che comprende e serra {{R|10ª ottava}}
non son possenti ad agguagliar parole;
né nave in onda, né palagio in terra,
né teatro, né tempio è sotto il sole,
né v’ha machina in pace, ordigno in guerra,
che non tragga il model da questa mole;
trovano in sì perfetta architettura
il compasso e lo squadro ogni figura.
Miracol grande, in cui con piena intera {{R|11ª ottava}}
Giove de’ doni suoi versò l’eccesso,
dela divinità sembianza vera,
imagin viva e simulacro espresso.
Quasi in angusta mappa immensa sfera,
fu l’universo epilogato in esso;
tien sublime la fronte, alte le ciglia,
sol per mirar quel ciel che l’assomiglia.
È distinto in tre parti il maggior mondo: {{R|12ª ottava}}
l’una è de’ sommi dei, che’n alto stassi;
dele sfere rotanti hanno il secondo
loco le belle e ben disposte classi;
ritien l’ultimo sito e più profondo
la region degli elementi bassi.
E quest’altro minor, ch’ha spirti e sensi,
ben di proporzion seco conviensi:
sostien la vece del sovran motore {{R|13ª ottava}}
nel capo eccelso la virtù che’ntende;
stassi a guisa di sol nel mezzo il core,
loqual pertutto il suo calor distende;
il ventre nela sede inferiore,
qual corpo sublunar, varia vicende.
Così in governo e nutrimento e vita,
questa casa animata è tripartita.
Son cinque corpi il cielo e gli elementi {{R|14ª ottava}}
e pur de’ sensi il numero è sì fatto:
l’orbe stellato di bei lumi ardenti
è dela vista un natural ritratto;
son poi tra lor conformi e rispondenti
l’udito al’aere ed ala terra il tatto,
né par che meno in simpatia risponda
l’odorato ala fiamma, il gusto al’onda.
Potea ben la divina onnipotenza, {{R|15ª ottava}}
con quell’istesso suo benigno zelo
con cui pose nel’uom tanta eccellenza,
donargli ancora incorrottibil velo
e di quel puro fior di quinta essenza,
onde non misto è fabricato il cielo,
come simile al ciel la forma veste
di materia comporlo anco celeste;
ma però ch’egli a specolare è nato {{R|16ª ottava}}
e convien ch’ogni specie in lui riluca
e ch’al chiaro intelletto, ond’è dotato,
i fantasmi sensibili conduca,
non devea d’altra tempra esser formato,
che del’elementar, benché caduca,
per far di quanto intende e quanto sente
prima il senso capace e poi la mente.
Di tutto il bel lavor che con tant’arte {{R|17ª ottava}}
orna del’uomo il magistero immenso,
sono i nervi istromenti, onde comparte
lo spirto ai membri il movimento e’l senso:
altri molli, altri duri, in ogni parte
ciascun è sempre al proprio ufficio intenso,
né può senz’essi alcuno atto esseguire
la facoltà del moto o del sentire.
Or tratti avante e ne vedrai gli effetti, {{R|18ª ottava}}
e dirai ch’a ragion Vener si mosse
a far che’l loco sacro a’ suoi diletti
del’essempio del tutto essempio fosse.-
Qui tacette Cillenio e con tai detti
dalo stupore il giovane riscosse,
che del’orto gioioso era in quel punto
già nel primo sogliare entrato e giunto.
Nel’orto, in cinque portici diviso, {{R|19ª ottava}}
dan cinque porte al peregrin l’entrata
e da un custode insu la soglia assiso
la porta d’ogni portico è guardata.
S’entra per ogni porta in paradiso
là dove un giardinetto si dilata,
talché di spazio egual tra sé vicini
contiene un sol giardin cinque giardini.
Cinque giardin la dilettosa reggia {{R|20ª ottava}}
nele sue cinque torri inclusi abbraccia,
siché da’ suoi balcon lunge vagheggia
differente un giardin per ogni faccia.
Confine un muro ogni giardino ombreggia,
che stende linea infuor di mille braccia.
Questo in quadro si chiude e in mezzo lassa
porte, onde l’un giardin nel’altro passa.
Ciascun canton de’ quattro innanzi sporge {{R|21ª ottava}}
una torre angolare insu la punta,
e la quinta tra lor nel mezzo sorge
sì ch’oltre il muro la cornice spunta;
e, come dissi, a dritto fil si scorge
torre da torre egualmente disgiunta;
e con giusta misura arte leggiadra,
i’ non so come, ogni giardino inquadra.
Dela porta del portico primiero, {{R|22ª ottava}}
ch’è di cristallo e di zaffir contesta,
vivace e nobil giovane è l’usciero,
di diverso color sparso la vesta.
Un avoltoio in pugno ed un cerviero
si tiene a piè da quella parte e questa,
un specchio ha innanzi e nelo scudo incisa
la generosa che nel sol s’affisa.
Ai duo felici amanti immantenente {{R|23ª ottava}}
fecesi incontro il giardinier cortese
e, con sembiante affabile e ridente,
Adon raccolse e per la mano il prese.
- Ben venga (disse) il vivo sole ardente,
ch’ala nostra reina il core accese.
Dritto fia ben che degli alberghi nostri
nulla si celi a lui, tutto si mostri. -
- Dimmi (al nunzio di Giove Adon converso) {{R|24ª ottava}}
dimmi (disse) ti prego, o cara scorta,
con l’animal di vaghe macchie asperso
che vuol dir questa guardia e questa porta?
quel famelico augel, quel vetro terso
e quel vario vestir, che cosa importa?
Suo stranio arnese e sua sembianza ignota
i’ saprei volentier ciò che dinota. -
Risponde l’altro: - Le più degne e prime {{R|25ª ottava}}
parti di tutta la sensibil massa,
l’occhio, sicome principe sublime,
in gloria eccede, in nobiltà trapassa,
ché, posto dela rocca insu le cime
ogni membro vulgar sotto si lassa
e, dove il tutto regge e’l tutto vede,
tra la plebe de’ sensi altero siede.
Siede eminente e d’ogni senso è duce {{R|26ª ottava}}
e certo il gran fattor tale il compose,
ch’è tra quelli il miglior, sì per la luce,
ch’è tra le qualità più preziose,
sì per la tanta e tal, ch’ognor produce,
varietà di colorate cose,
sì per lo modo ancor spedito e presto
del’operazion ch’intende a questo.
Perché senza intervallo o mutar loco {{R|27ª ottava}}
giunge in instante ogni lontano oggetto,
talché negli atti suoi si scosta poco
dala perfezzion del’intelletto;
onde se quel, vie più che vento o foco
rapido e vago, occhio del’alma è detto,
questo, ch’è di Natura opra sì bella,
intelletto del corpo anco s’appella.
Per l’occhio passa sol, per l’occhio scende {{R|28ª ottava}}
qualunque l’alma imagine riceve
e di quant’ella vede e quanto intende
quasi l’obligo tutto al’occhio deve.
L’occhio, com’ape suol, che coglie e prende
i più soavi fior leggiadra e lieve,
scegliendo il bel dela beltà che scorge,
al’interno censor l’arreca e porge.
Dale fonti del cerebro natie, {{R|29ª ottava}}
ond’hanno i nervi origine e radice,
un sol principio per diverse vie
di duo stretti sentier sue linee elice.
Quindi del tutto esploratori e spie
traggono gli occhi ogni virtù motrice;
e quindi avien, come per prova è noto,
che move ambo in un punto un steso moto.
Lubrico e di materia umida e molle {{R|30ª ottava}}
questo membro divin formò Natura,
perché ciascuna impression che tolle,
possa in sé ritener sincera e pura.
Perché volubil sia, donar gli volle
orbicolare e sferica figura,
oltre che’n forma tal può meglio assai
franger nel centro e rintuzzare i rai.
Gli spirti unisce ala pupilla e spira {{R|31ª ottava}}
dala gemina sfera il raggio vivo,
che’n piramide aguzza, ovunque il gira,
si stende fuor del circolo visivo.
La specie intanto in sé di quelche mira
ritrae, come suol ombra o specchio o rivo;
così nel’occhio, mentre il guardo vago
esce dala potenzia, entra l’imago.
O quanto studio o quanta industria mise {{R|32ª ottava}}
qui l’eterno maestro, o quante accoglie
vene, arterie, membrane e’n quante guise
sottile aragne e dilicate spoglie.
Per quanti obliqui muscoli divise
passano e quinci e quindi e fila e foglie,
quante corde diverse e quanti e quali
versano l’occhio ed angoli e canali!
Di tuniche e d’umori in vari modi {{R|33ª ottava}}
havvi contesto un lucido volume
ed uva e corno e con più reti e nodi
vetro insieme congiunge, acqua ed albume;
che son tutti però servi e custodi
del cristallo, onde sol procede il lume;
ciascun questo difende e questo aiuta,
organo principal dela veduta.
L’immortal providenza, accioch’esposto {{R|34ª ottava}}
sia meno ai danni del’offese esterne,
gli ha dato, in un ricovero riposto
sotto l’arco del ciglio, ime caverne;
per siepi e propugnacoli v’ha posto
palpebre infaticabili ed eterne,
sol perché’l batter lor continuo e ratto
dagli umani accidenti il serbi intatto.
Ed a guisa di sole, accioch’aprisse, {{R|35ª ottava}}
emulo al’altro, al picciol mondo il giorno,
qual corona di raggi anco v’affisse
sottilissime sete intorno intorno.
Nel curvo globo l’iride descrisse,
ch’ha di smalti celesti un fregio adorno
e, temprati di limpidi zaffiri,
vi dipinse nel mezzo i sommi giri.
Questi del’alma son balconi e porte, {{R|36ª ottava}}
indici fidi, oracoli veraci,
dela dubbia ragion secure scorte
e del’oscura mente accese faci.
Son lingue del pensier pronte ed accorte
e del muto desir messi loquaci;
geroglifici e libri, ov’altri pote
de’ secreti del cor legger le note.
Vivi specchi sereni, onde traspare {{R|37ª ottava}}
quanto il cupo del petto in sé ristringe
e dove in guise manifeste e chiare
ogni suo affetto l’anima dipinge;
i ridenti piacer, le doglie amare
vi scopre, or d’ira or di pietà gli tinge
e, ciò ch’è più, visibilmente in essi
son del foco d’amor gl’incendi espressi.
E perché’l primo stral, ch’aventi l’arco {{R|38ª ottava}}
di quell’alato arcier, dagli occhi viene,
per questo il primo grado, il primo varco
del giardino d’Amor la vista ottiene.
Quinci potrai, già d’ogni dubbio scarco,
il mistero, cred’io, comprender bene
del ministro gentil che guarda il vallo,
degli augei, dela fera e del cristallo. -
Ciò detto, per incognito sentiero, {{R|39ª ottava}}
là dove altrui vestigio il suol non serba,
ma serba il prato entro’l suo grembo intero
intatto il fiore, inviolata l’erba,
colà dentro lo scorge, ov’al verziero
fa corona il gran muro alta e superba,
e di pietre sì lucide la tesse,
che tutto il bel giardin, si specchia in esse.
Per lungo tratto a guisa di corona {{R|40ª ottava}}
da ciascun fianco il bel giardin si spande,
dove in ogni stagion Flora e Pomona
guidano danze e trecciano ghirlande.
Il muro principal che l’imprigiona
tetto ricopre a meraviglia grande,
sostenuto da un ordine leggiadro
d’alte colonne e compartito in quadro.
Da quattro galerie per quattro grate, {{R|41ª ottava}}
che cancelli han d’or fin, s’esce negli orti,
dove prendono ognor schiere beate
di ninfe e di pastor vari diporti
e, passando in piaceri un’aurea etate,
fanno giochi tra lor di tante sorti
quante suol forse celebrarne apena
nele vigilie sue la bella Siena.
Forman parte di lor, sedendo sotto {{R|42ª ottava}}
gran tribuna di fronde, un cerchio lieto,
e l’un al’altro sussurrando un motto
dentro l’orecchie, taciturno e cheto,
de’ suoi chiusi pensier non interrotto
scopre a chi più gli piace ogni secreto.
Con questa invenzion chieste e concesse
si patteggian d’amor varie promesse.
Parte in gioco più strano e più diverso {{R|43ª ottava}}
dispensano del dì l’ore serene:
nel molle grembo il capo ingiù converso
vaga donzella d’un garzon si tiene;
ciascun altro la man, ch’egli a traverso
dopo’l tergo rivolge, a batter viene
né solleva ei giamai la testa china,
se chi battuto l’ha non indovina.
Odesi di lontan scoppio di riso, {{R|44ª ottava}}
quando per legge di colui che regna
di bella ninfa perditrice il viso,
che’n foco avampa, col carbon si segna.
Altri più dolci e con più saggio aviso
trar dal trionfo suo spoglie s’ingegna,
ché, con un bacio in bocca o su la gota,.
vuol che’l perduto pegno ella riscota.
Chi con le carte effigiate in mano {{R|45ª ottava}}
prova quanto fortuna in terra possa;
chi le corna agitate in picciol piano
fa ribalzar dele volubil ossa;
chi con maglio leggier manda lontano
l’eburnea palla ad otturar la fossa;
chi, poiché dal cannel le sorti ha tratte,
su tavolier le tavole ribatte.
Van le vergini belle a schiera sparte {{R|46ª ottava}}
scalze il piè, scinte il seno e sciolte il crine;
rozza incoltura in lor, beltà senz’arte
fa del’anime altrui maggior rapine.
Parte per l’erba va scherzando e parte
tra le linfe argentate e cristalline,
parte coglie viole ed amaranti
per farne dono ai fortunati amanti.
Quella danza tra’ fior, questa incorona {{R|47ª ottava}}
di rose il crine al favorito amico;
questi canta d’amor, quegli ragiona
con la sua donna in un boschetto aprico.
Alcun ven’ha che, scritto in Elicona,
legge amoroso alcun romanzo antico
e i versi espone in guisa tal, che quasi
sotto gli essempi altrui narra i suoi casi.
Altri nel cavriuol rapido e snello {{R|48ª ottava}}
al veloce levrier la lassa allenta;
altri, da’ geti sciolto e dal cappello,
contro la garza il girifalco aventa;
altri più lieve e più minuto augello
con più sottile insidia ingannar tenta,
tendendo, accioché preso e’ vi rimagna,
pania tenace o dilicata aragna.
Né vi manca però fra que’ diletti {{R|49ª ottava}}
chi nel margo palustre, ove si giace,
col cane assaglia o con lo stral saetti
anitra opima o foliga loquace;
né chi con nasse e vangaiuole alletti
la trutta pigra e’l carpion fugace,
né chi tragga dal’acque a cento a cento
orate d’oro e cefali d’argento.
Mentre sotto quel ciel che soli o piogge {{R|50ª ottava}}
non teme, arda quantunque o geli l’anno,
tra tali e tante feste in tante fogge
le brigate piacevoli si stanno,
Adone e Citerea per l’ampie logge
lastricate di gemme, intorno vanno,
mirando pur di que’ dipinti chiostri
l’artificio smarrito a’ giorni nostri.
Da tutti quattro i lati in ogni parte {{R|51ª ottava}}
il muro a varie imagini è dipinto.
Ciò che favoleggiar l’antiche carte
degli amori celesti, in esso è finto.
Gl’innamorati dei mirabil arte
v’ombreggiò sì, che’l ver dal’ombra è vinto
e, benché tutti mute abbian le lingue,
il silenzio e’l parlar vi si distingue.
Non son già corrottibili colori, {{R|52ª ottava}}
che le belle figure han colorite;
misture tali, incognite a’ pittori,
da macina mortal non fur mai trite:
son quinte essenze chimiche e licori
di gemme a lento foco intenerite,
minerali stillati, le cui tempre
mai non perdon vivezza e duran sempre.
Se sì perfetta grana, azzur sì fino {{R|53ª ottava}}
avesse alcuno artefice moderno,
ben v’ha tal che poria col legno e’l lino
far al secol migliore ingiuria e scherno.
Del secondo miracolo d’Arpino
quanto fora più chiaro il nome eterno?
dico di lui, che con la man far suole
quelche l’altro facea con le parole.
Il ligustico Apelle, il Paggi vanto {{R|54ª ottava}}
sommo e splendor dela città di Giano,
quanto di gloria accrescerebbe o quanto
ale fatiche dela nobil mano.
Il mio Castel, che del conquisto santo
fregia le carte al gran cantor toscano,
lasceria forse de’ suoi studi illustri
vie più salde memorie a mille lustri.
E tu Michel, di Caravaggio onore, {{R|55ª ottava}}
per cui del ver più bella è la menzogna,
mentre che creator più che pittore,
con l’angelica man gli fai vergogna;
e voi, Spada e Valesio, il cui valore
fa de’ suoi figli insuperbir Bologna;
e voi, per cui Milan pareggia Urbino,
Morazzone e Serrano e Procaccino;
e tu, che col pennel vinci gl’intagli, {{R|56ª ottava}}
e i duo vicini sì famosi e noti
di Verona e Cador, non pur agguagli,
Palma, ma lor di man la palma scuoti;
e tu, Baglion, che con la luce abbagli
del’ombre tue, ch’han sensi e spirti e moti,
con assai più lodate opre e pitture
avreste, ond’arricchir l’età future.
E voi, Bronzino e Pasignan, per cui {{R|57ª ottava}}
il prodigio tebano Arno rivede,
poiché gemino lume e quasi dui
novi soli d’onor v’ammira e crede.
Caraccio a Febo caro e tu con lui
Reni, onde’l maggior Reno al’altro cede,
alcun non temeria, che fusser poi
cancellati dagli anni i lavor suoi.
A contemplar la loggia e la parete {{R|58ª ottava}}
il portier del giardino Adone invita,
di mute poesie, d’istorie liete
imaginata tutta e colorita,
e del fanciul dal’arco e dala rete
i dolci effetti ad un ad un gli addita,
divisandogli a bocca or quelli, or questi
furtivi amori degli eroi celesti.
- Vedi Giove (dicea) là’ve s’aduna {{R|59ª ottava}}
schiera di verginelle ir con l’armento.
Vedi che scherza e la superba luna
crolla del capo e sfida a giostra il vento.
Tutto candido il pel, la fronte ha bruna,
dove in mezzo biancheggia un sol d’argento.
Già muggir sembra e sembra al suo muggito
muggir la valle intorno intorno e’l lito.
Ala ninfa gentil, che varie appresta {{R|60ª ottava}}
trecce di fiori ale sue trecce d’oro,
s’avicina pian piano e dela vesta
umil le bacia il vago lembo il toro.
Ella il vezzeggia e’ntesse al’aspra testa
di catenate rose alto lavoro;
ed egli inginocchion le terga abbassa
e dala bella man palpar si lassa.
Sovra gli monta la donzella ardita, {{R|61ª ottava}}
quel prende allor per entro l’acque il corso
e sì sen porta lei, che sbigottita
volgesi a tergo e’nvan chiede soccorso.
Cogliesi tutta e tutta in sé romita
l’una man stende al corno e l’altra al dorso.
Su’l mar piovono i fior nel grembo accolti,
scherzano i biondi crini al’aura sciolti.
Solca la giovinetta il salso regno, {{R|62ª ottava}}
sparsa il volto di neve, il cor di gelo,
quasi stanco nocchiero in fragil legno;
il tauro è nave e gli fa vela il velo.
Van guizzando i delfini e lieto segno
fanno di festa al gran rettor del cielo;
ridendo, Amor superbamente il mira
quasi per scherno e per le corna il tira.
Le sconsolate e vedove compagne {{R|63ª ottava}}
in atto di pietà stanno insu’l lido
additando la vergine che piagne,
credula, ahi troppo, al predatore infido.
Par che di lor per poggi e per campagne
"Europa ove ne vai?", risoni il grido;
par che l’arena intorno e l’aura e l’onda
"Europa ove ne vai?" mesta risponda.
Eccol vestito di canute piume {{R|64ª ottava}}
a bella donna intorno altrove il miri,
qual di Caistro o di Meandro al fiume,
rotar volando in spaziosi giri
e gorgogliar sovra’l mortal costume
canori pianti e musici sospiri,
temer del proprio folgore il baleno
e comporre il suo nido entro il bel seno.
Ecco d’Anfitrion prender la forma {{R|65ª ottava}}
e la casta moglier schernir si vede;
ecco Satiro poi pasce la torma
con corna in testa e con caprigno piede;
ecco due volte in aquila trasforma
la spoglia, inteso a due leggiadre prede;
ecco converso in foco arde e sfavilla,
ecco in grandine d’or si strugge e stilla.
Vedi lo schernitor del’aureo strale, {{R|66ª ottava}}
lo dio, che dela luce è tesoriero,
a cui del’arti mediche non vale,
né del’erbe salubri aver l’impero,
siché profonda al cor piaga mortale
non porti alfin dalo sprezzato arciero.
Ecco gl’incende il cor d’ardente face
la bella di Peneo figlia fugace.
Ed ecco, mentre l’amorosa traccia {{R|67ª ottava}}
segue anelante e giungerla si sforza,
degli occhi amati e del’amata faccia
repentino rigor la luce ammorza;
fansi radici i piè, rami le braccia,
imprigiona i bei membri ispida scorza;
gode egli almen le sue dorate e bionde
chiome fregiar dele già chiome, or fronde.
Volgiti poscia al vecchiarel Saturno, {{R|68ª ottava}}
tutto voto di sangue e carco d’anni,
come invaghito d’un bel viso eburno
in forma di destrier la moglie inganni.
Mira quel dal cappello e dal coturno,
ch’ha nel coturno e nel cappello i vanni;
quegli è il corrier di Giove e’n terra scende,
ché dela ninfa Maura Amor l’accende.
Pon mente là, dove la notte ha stese {{R|69ª ottava}}
l’ombre tacite intorno e’l mondo imbruna,
come per disfogar sue voglie accese,
le due disciolte trecce accolte in una,
si reca in braccio placida e cortese
al vago suo l’innamorata Luna
e fra’ poggi di Latmo al suo pastore
addormenta le luci e sveglia il core.
Mira il selvaggio dio non lunge molto, {{R|70ª ottava}}
ch’uscito fuor d’una spelonca vecchia,
di verdi salci e fresche canne avolto
le corna, i crini e l’una e l’altra orecchia,
al ciel leva le luci e nel bel volto
dela candida dea s’affisa e specchia,
e par la preghi in sì pietosi modi,
che vi scorgi il pensier, la voce n’odi.
L’argentata del ciel luce sovrana {{R|71ª ottava}}
deposta alfin la lusingata diva,
ale promesse dela bianca lana
dal suo chiaro balcon scender non schiva;
vedila, or chi dirà che sia Diana?
col rozzo amante in solitaria riva
e’n vece di lassù guidar le stelle,
su’l frondoso Liceo tonder l’agnelle.
Poi vedi Endimion dal’altro lato {{R|72ª ottava}}
quindi avampar d’un amoroso sdegno,
e col capo e col dito il nume amato
di rampognar, di minacciar fa segno:
"Perfida (par le dica in vista irato)
perfida, orché non celi il lume indegno?
perfida, avara e disleale amante,
più volubil nel cor, che nel sembiante."
Dela fiamma gentil, che nel mar nacque, {{R|73ª ottava}}
ecco poscia arde il mare, arde l’inferno;
arder quel dio si vede in mezzo l’acque,
che del’acque e del mar volge il governo;
arde per la beltà, che sì gli piacque,
il tiranno crudel del’odio eterno;
strugge ardore amoroso il cor severo
a quel signor, ch’ha degli ardori impero. -
Sì dice l’un, l’altro gli sguardi e l’orme {{R|74ª ottava}}
ale mura superbe intento gira
e, mentre queste ed altre illustri forme,
di cui son tutte effigiate, ammira,
sembra, né sa s’ei vegghia o pur s’ei dorme,
statua animata, imagine che spira,
anzi più tosto un’insensata e finta
tra figure spiranti ombra dipinta.
Non v’è dipinta di Ciprigna e Marte {{R|75ª ottava}}
l’istoria oscena troppo ed impudica,
perché’l zoppo marito il fece ad arte,
di cui fur quelle volte opra e fatica
e celar volse le vergogne in parte
del fiero amante e dela bella amica,
per non rinovellar l’onta de’ due,
e nele gioie lor l’ingiurie sue.
Sotto quest’archi, in queste logge ombrose, {{R|76ª ottava}}
che volte han le facciate ala verdura,
onde il giardin le chiome sue frondose
può vagheggiar nele lucenti mura,
specolando l’imagini amorose
stassene Adon del’immortal pittura,
mentre colui del sagittario cieco
va passo passo ragionando seco.
Venere allor così gli dice: - O cara {{R|77ª ottava}}
delizia del mio cor, dolce diletto,
deh de’ begli occhi tuoi la luce chiara
tanto omai non occupi un finto oggetto,
che de’ suoi raggi usurpatrice avara
parte a me neghi del bramato aspetto;
lascia ch’io possa almeno il foco, ond’ardo,
sorbir con gli occhi e depredar col guardo.
Non dee la vista tua fermarsi in cose {{R|78ª ottava}}
che sien di te men peregrine e belle.
Vedi che fai dolenti e tenebrose
a disagio per te languir le stelle.
Non tener più le luci al sole ascose,
le luci emule al sol, del sol gemelle.
Se pitture vuoi pur, vero e non finto
mira testesso in questo sen dipinto. -
Qui tace; ed ecco per l’erbosa chiostra {{R|79ª ottava}}
da lor non lunge, emulator del prato,
fa di sestesso ambiziosa mostra
l’occhiuto augel di più color fregiato
e, del bel lembo che s’indora e inostra
di fiori incorrottibili gemmato,
dilettoso spettacolo a chi’l mira,
un più vago giardin dietro si tira.
Per ventura in quel punto apunto avenne, {{R|80ª ottava}}
ch’ale leggiadre sue spoglie diverse
la bella coppia si rivolse e tenne
per vaghezza le luci in lui converse.
Ond’egli allor dele sue ricche penne
il superbo gemmaio in giro aperse
ed allargò, quasi corona altera,
de’ suoi tant’occhi la stellata sfera.
- Di quest’augel pomposo e vaneggiante {{R|81ª ottava}}
(disse Venere allor) parla ciascuno.
Dicon ch’ei fu pastor, che’n tal sembiante
cangiò la forma e così crede alcuno
che la giovenca del’infido amante
a guardar con cent’occhi il pose Giuno
e che, quantunque a vigilar accorto,
fu da Mercurio addormentato e morto.
Contan che gli occhi, onde sen giva altero, {{R|82ª ottava}}
nele piume gli affisse ancor Giunone,
ed è voce vulgar che’l suo primiero
nome fuss’Argo, ilqual fu poi Pavone.
Or dela cosa io vo’ narrarti il vero
diverso assai da questa opinione;
gli umani ingegni, quando più non sanno,
favole tali ad inventar si danno.
Era questi un garzon superbo e vano, {{R|83ª ottava}}
tutto d’ambizion colmo la mente,
cameriero d’Apollo e cortigiano,
che l’amò molto e’l favorì sovente.
Amor, ch’anch’egli è pien d’orgoglio insano,
ferigli il cor con aureo stral pungente,
facendo da’ begli occhi uscir la piaga
d’una donzella mia vezzosa e vaga.
Colomba detta fu questa donzella, {{R|84ª ottava}}
laqual veder ancor potrai qui forse,
che fu pur in augel mutata anch’ella,
ma per altra cagion questo l’occorse.
Pavon si nominò, Pavon s’appella
costui, ch’amando in folle audacia sorse.
Seben altro di lui dice la fama,
Pavon chiamossi ed or Pavon si chiama.
Oltre che di bei drappi e vestimenti {{R|85ª ottava}}
si dilettava assai per sua natura,
per farsi grato a lei ne’ suoi tormenti
s’abbellia, s’arricchia con maggior cura:
pompe, fogge, livree, fregi, ornamenti
variando ogni dì fuor di misura,
facea vedersi in sontuosa vesta
con gemme intorno e con piumaggi in testa.
Con tuttociò, da lei sempre negletto, {{R|86ª ottava}}
senza speme languia tra pene e doglie,
perché discorde l’un dal’altro petto
di qualità contraria avean le voglie.
Tutto era fasto e gloria il giovinetto
ne’ pensieri, negli atti e nele spoglie;
l’altra costumi avea dolci ed umili,
mansueti, piacevoli e gentili.
La servia, la seguia fuor di speranza {{R|87ª ottava}}
con sospir caldi e con preghiere spesse;
e perché, come pien d’alta arroganza,
pensava di poter quanto volesse,
ragionandole un dì prese baldanza
di farle troppo prodighe promesse;
tutto l’offrì ciò che bramasse al mondo
dal sommo giro al baratro profondo.
"Poiché tanto (diss’ella) osi e presumi, {{R|88ª ottava}}
voglio accettar la tua cortese offerta,
e del foco, ond’avampi e ti consumi,
giovami di veder prova più certa.
Recami alquanti de’ celesti lumi,
se vuoi pur ch’ad amarti io mi converta;
se servigio vuoi far che mi contenti,
dele stelle del cielo aver convienti.
Grande impresa fia ben quelch’io ti cheggio, {{R|89ª ottava}}
non difficile a te, s’ardir n’avrai,
poiché presso a colui tieni il tuo seggio
che le raccende con gli aurati rai.
Qualora scintillar lassù le veggio
di tanta luce io mi compiaccio assai
e bramo alcuna in mano aver di loro
sol per saper se son di foco o d’oro".
O volesse fuggir con questa scusa {{R|90ª ottava}}
quell’assalto importun ch’egli le diede,
o forse per non esserne delusa
esperienza far dela sua fede,
o perché pur la femina è sempr’usa
ingorda a desiar ciò ch’ella vede
ed, indiscreta, altrui prega e comanda
e le cose impossibili dimanda,
basta ch’egli in virtù di tai parole {{R|91ª ottava}}
ogni suo sforzo a cotant’opra accinse;
aspettò finché’l ciel, sicome suole,
di purpureo color l’alba dipinse
ed egli uscito in compagnia del sole,
che la lampa minor sorgendo estinse,
ale luci notturne e mattutine
accostossi per far l’alte rapine.
"Su mio cor (dicea seco) andianne audaci {{R|92ª ottava}}
l’oro a rubar del bel tesor celeste,
ch’un raggio sol di due terrene faci
val più che lo splendor di tutte queste.
Di stender non temiam le man rapaci
nele gemme ch’al ciel fregian la veste,
pur che’n cambio del furto abbiam poi quelle
dele stelle e del sol più chiare stelle".
Orbe del lume e dela scorta prive {{R|93ª ottava}}
fuggian le stelle in varie schiere accolte,
e sicome talor per l’ombre estive
quando l’aria è serena avien più volte,
sbigottite, tremanti e fuggitive
per fretta nel fuggir ne cadean molte.
Pavone allora il suo mantel distese
ed un groppo nel lembo alfin ne prese.
Giove, che vide il forsennato e sciocco {{R|94ª ottava}}
giovane depredar l’auree fiammelle,
sdegnossi forte e da grand’ira tocco
gli trasformò repente abito e pelle;
l’orgoglioso cimier divenne un fiocco
e nela falda gli restar le stelle;
Febo, che pietà n’ebbe e l’amò tanto,
per sempre poi gliele stampò nel manto.
Del ciel l’ambiziosa imperadrice {{R|95ª ottava}}
tosto che vide il non più visto augello
che’l pregio quasi toglie ala fenice,
il volubil suo carro ornò di quello;
poi le penne gli svelse e fu inventrice
d’un istromento insieme utile e bello
ond’ale mense estive han le sue serve
cura d’intepidir l’aura che ferve.
Ed io, che soglio ognor qualunque imago {{R|96ª ottava}}
scacciar dagli orti miei difforme e trista,
d’averlo ammesso qui godo e m’appago,
ché grazia il loco e nobiltà n’acquista,
perché natura in terra augel più vago
non credo ch’offerir possa ala vista,
né so cosa trovar fra quanti oggetti
invaghiscano altrui, che più diletti.
Vedilo là, ch’a’ più bei fior fa scorno {{R|97ª ottava}}
e ben d’altra pittura i chiostri onora,
con quanta maestà rotando intorno
di mirabil ghirlanda il palco infiora.
Perché crediam che sì si mostri adorno,
senon per allettar chi l’innamora
e per aprire ala beltà, che mille
fiamme gli aventa al cor, cento pupille?
Or che far dee, dolcissimo ben mio, {{R|98ª ottava}}
gentil petto, alto core e nobil voglia?
Qual da sì dolce universal desio
anima fia, che si ritragga o scioglia?
Ma che mirar, ma che curar degg’io
del bel pavon la ben dipinta spoglia,
s’aprono agli occhi miei le tue bellezze
altri fregi, altre pompe, altre ricchezze? -
Così ragiona e seco il trae pian piano {{R|99ª ottava}}
dove al’altr’uscio il guardian l’aspetta,
che con bei fasci di fioretti in mano
e varie ampolle di profumi alletta.
Garzon verde vestito e non lontano,
esplorator dela fiorita erbetta,
scaltro seguso e d’odorato acuto
tutto, dovunque va, cerca col fiuto.
Inestinguibilmente a piè gli bolle {{R|100ª ottava}}
infuso un misto d’odorate cose.
Con sangue di colombe e con midolle
di passere stemprò liquide rose
e col puro storace e l’ambra molle
il muschio dentro e l’aloè vi pose.
V’ha di Cirene il belgioin natio,
il cifo egizzio e’l mastice di Chio.
Vista costui da lunge avea la bella {{R|101ª ottava}}
coppia, ch’agli orti suoi l’orme volgea,
onde subito a sé Zefiro appella
che’n curva valle e florida sedea:
- O genitor dela stagion novella
(dice) vago forier di Citerea,
che con volo lascivo e lieve fiato
passeggiando il mio cielo, infiori il prato,
non vedi tu la graziosa prole {{R|102ª ottava}}
del gran motor che su le stelle regna,
come col vivo suo terreno sole
le nostre case d’onorar si degna?
Su su, studio a raccorla usar si vole,
tu tanta dea d’accarezzar t’ingegna.
Con la virtù che da’ tuoi semi avranno,
figli la terra e pargoleggi l’anno.
Quanto essalan di grato Ibla e Pancaia, {{R|103ª ottava}}
quanto l’Idaspe di lontan ne spira,
quanto n’accoglie giunto ala vecchiaia
l’arabo augel nel’odorata pira,
tutto qui spargi, accioché degno appaia
di lei ciò ch’ella sente e ciò che mira,
fa ch’animate di fiorita messe
godan del tuo favor le selci istesse.
Tutto per questi piani e questi poggi {{R|104ª ottava}}
prodigo il tuo tesor diffondi e sciogli,
e qual rupe più sterile fa ch’oggi
a’ tuoi fecondi spiriti germogli;
onde, nonch’ella volentier v’alloggi,
ma d’ordirvi ghirlande anco s’invogli
e i nostri fior da que’ celesti diti
possano meritar d’esser carpiti. -
Scote a quel dir le piume a più colori {{R|105ª ottava}}
tutto di fresco nettare stillante
dela vezzosa e leggiadretta Clori,
sorto dal seggio suo, l’alato amante:
Clori ninfa de’ prati e dea de’ fiori,
de’ lidi canopei grata abitante,
spargendo fior dala purpurea stola
sempre il segue costei dovunque ei vola.
La gonna che la copre è tutta ordita {{R|106ª ottava}}
d’un drappo che si cangia ad ora ad ora;
del’augel di Ciprigna il collo imita
quando ai raggi del sol si trascolora;
di simil manto comparir vestita
suole agli occhi d’april la bella Flora;
tal fra l’umide nubi il curvo velo
spande ale prime piogge Iride in cielo.
Volano a prova e con disciolti lembi {{R|107ª ottava}}
scorron del ciel le spaziose strade;
nubi accoglie quel ciel, gravide i grembi
di fini unguenti e d’ottime rugiade,
onde l’umor soave in puri nembi
da que’ placidi soffi espresso cade;
cade su l’erba e fiocca in larga vena
d’aromatici odor pioggia serena.
Ciò fatto, ei precursore, ella seguace, {{R|108ª ottava}}
l’ali battendo rugiadose e molli,
fan maritate con l’umor ferace,
le glebe partorir novi rampolli.
S’allarga l’aria in un seren vivace
e fioreggiano intorno i campi e i colli.
Vedresti, ovunque vanno, in mille guise
Primavera spiegar le sue divise.
Tornano al copular di due stagioni {{R|109ª ottava}}
i secchi dumi con stupor vermigli;
sbucciano fuor de’ gravidi bottoni
dele madri spinose i lieti figli.
Ricca la terra di celesti doni
par ch’al’ottavo ciel si rassomigli;
par che per vincer l’Arte abbia Natura
applicato ogni studio ala pittura.
Qual di splendor sanguigno e qual d’oscuro {{R|110ª ottava}}
tingonsi i fiori in quelle piagge e’n queste,
qual di fin oro e qual di latte puro,
qual di dolce ferrugine si veste.
Adone intanto nel secondo muro
con l’altro di beltà mostro celeste
per angusto sportel passa introdotto
ch’è di cedro odorato ed incorrotto.
Mercurio incominciò: - Tra quante abbraccia {{R|111ª ottava}}
maggior delizie il cerchio dela luna,
cosa non ha di cui più si compiaccia
Venere o’l figlio suo, che di quest’una,
né trov’io che più vaglia o che più faccia
lusingamento o tenerezza alcuna,
che la soavità de’ molli odori,
molto possenti ad allettar gli amori.
Ostie crudeli e sacrifici infausti, {{R|112ª ottava}}
miseri tori ed innocenti agnelle
offre la gente al ciel, tanto ch’essausti
restan gli armenti ognor di questi e quelle
e, sol per far salir d’empi olocausti
un fumo abominevole ale stelle,
aggiunto il foco ale svenate strozze,
arde agli eterni dei vittime sozze
e crede stolta ancor, che questi suoi {{R|113ª ottava}}
di sangue vil contaminati altari
aborriti lassù non sien da noi,
che siam pur sì pietosi, anzi sien cari;
com’uopo abbian di pecore e di buoi
cittadini del ciel beati e chiari
o le dolcezze lor sempre immortali
deggian cangiar con immondizie tali.
Doni i più preziosi, i più graditi {{R|114ª ottava}}
che possan farsi a quegli eccelsi numi,
di natural simplicità conditi
son frutti e fiori, aromati e profumi.
Ma sovra quanti mai più reveriti
rotano i raggi in ciel celesti lumi,
Adon, la bella dea, con cui tu vai,
di queste offerte si diletta assai,
e per questa cagion qui, dove torna {{R|115ª ottava}}
ella per uso ad albergar talora,
di tutto il bel che l’universo adorna,
scelse quanto diletta e quanto odora.
Or s’è ver, ch’a colei che qui soggiorna
ed a tutti gli dei che’l mondo adora,
soglion tanto piacer gli odori sparsi,
quanto denno dagli uomini pregiarsi?
Ben tirato un profil nel mezzo apunto {{R|116ª ottava}}
scolpì del volto uman la man divina,
che quindi con le ciglia ambe è congiunto
e col labro sovran quinci confina.
E perché di guardarlo abbia l’assunto,
d’osso concavo e curvo armò la spina,
che qual base il sostenta; e tutto il resto
di molli cartilagini è contesto.
E perché, se vien pur sinistro caso {{R|117ª ottava}}
una a turar dele finestre sue,
l’altra aperta rimanga ed abbia il naso
onde i fiati essalar, ne formò due;
e posta in mezzo al’un e l’altro vaso
terminatrice una colonna fue
tenera ma non fral, siché per questa
le sue piogge stillar possa la testa.
Ma benché oltre il decoro e l’ornamento {{R|118ª ottava}}
ed oltre ancor ch’al respirare è buono,
vaglia a purgar del capo ogni escremento,
pur l’odorato è principal suo dono.
E consiste nel moto il sentimento
di due mammelle che da’ lati sono,
e movon certi muscoli al’entrata,
de’ quali un si ristringe, un si dilata.
Quindi s’apre la porta e lo spiraglio {{R|119ª ottava}}
del senso interno al’ultime radici,
là dove a guisa di forato vaglio
una parte sovrasta ale narici.
L’altra è spugnosa e con sottile intaglio
è destinata a’ necessari uffici,
che qual pomice o fongo avendo i fori,
rompe l’aere alterato entro i suoi pori.
È la spugna del cranio umida e tale {{R|120ª ottava}}
che d’ogni arida cosa assorbe i fiati,
traendo a sé la qualità reale
degli oggetti soavi ed odorati.
Passa il caldo vapore e in alto sale
ai ventricoli suoi per duo meati,
che non si serran mai, talché con esso
l’aere insieme e lo spirto han sempre ingresso.
Ma tra risi e piacer frapor non deggio {{R|121ª ottava}}
di severa dottrina alti sermoni,
però ch’ala tua dea su i fianchi io veggio
di pungente desio fervidi sproni
e del mio dir questo fiorito seggio
soggiungerà la prova ale ragioni.
Senti auretta che spira. - In cotal guisa
l’arguto dio col bell’Adon divisa.
De’ fioriti viali in lunghi tratti {{R|122ª ottava}}
mirando van le prospettive ombrose,
ne’ cui margini a fil tirati e fatti
miniere di rubini apron le rose.
Stan disposti ne’ quadri i fiori intatti
con leggiadre pitture ed ingegnose,
e di forme diverse e color vari
con mille odori abbagliano le nari.
Trecce di canne e reti e gelosie {{R|123ª ottava}}
ale ben larghe alee tesson le coste
e dagli erbai dividono le vie
compassate a misura e ben composte,
le cui fabriche egregie e maestrie
la dea del loco addita al suo bell’oste,
movendo seco per quel suolo i passi,
fatto a musaico di lucenti sassi.
Amor con meraviglie inusitate {{R|124ª ottava}}
semplice qui conserva il suo diletto,
perché pon nele piante innamorate
ogni perfezzion senza difetto
e con foglie più spesse e più odorate,
quando la rosa espone il bel concetto,
o candida o purpurea o damaschina,
nascer fa solo il fior senza la spina.
Ciò ch’han di molle i morbidi Sabei, {{R|125ª ottava}}
gl’Indi fecondi o gli Arabi felici,
ciò che produr ne sanno i colli iblei,
le piagge ebalie o l’attiche pendici,
quanto mai ne nutriste orti panchei,
prati d’Imetto e voi campi corici,
con stella favorevole e benigna
tutto in quegli orti accumulò Ciprigna.
Vi suda il gatto etiope e ben discosto {{R|126ª ottava}}
lascia di sua virtù traccia per l’aura,
né vi manca per tutto odor composto
di pasta ispana o di mistura maura.
Casia, amaraco, amomo, aneto e costo
e nardo e timo ogni egro cor restaura,
abrotano, serpillo ed elicriso
e citiso e sisimbro e fiordaliso.
Havvi il baccare rosso, in piaggia aprica {{R|127ª ottava}}
nato a spedir le membra in lieve assalto;
havvi la spina arabica e la spica,
che più groppi di verghe estolle in alto;
d’Etiopia il balan qui si nutrica,
colà di Siria il virtuoso asfalto;
spunta mordace il cinnamomo altrove
e la pontica noce a piè gli piove.
Tra i più degni germogli il panaceo {{R|128ª ottava}}
le sue foglie salubri implica e mesce
e’l terebinto col dittamo ideo,
da cui medico umor distilla ed esce;
e col libico giunco il nabateo
e d’India il biondo calamo vi cresce.
Chi può la serie annoverar di tante,
ignote al nostro ciel, barbare piante?
Fumante il sacro incenso erutta quivi {{R|129ª ottava}}
d’alito peregrin grati vapori;
scioglie il balsamo pigro in dolci rivi
i preziosi e nobili sudori;
stilla in tenere gomme e’n pianti vivi
i suoi viscosi e non caduchi umori
Mirra, del bell’Adon la madre istessa,
e’l bel pianto raddoppia, orch’ei s’appressa.
Non potè far, che del materno stelo {{R|130ª ottava}}
non compiangesse il figlio il caso acerbo.
- Siati sempre (gli disse) amico il cielo,
tronco, che’n mezzo al cor piantato io serbo.
Le tue chiome non sfrondi orrido gelo,
le tua braccia non spezzi austro superbo
e quando ogni altra pianta i fregi perde,
in te verdeggi il fior, fiorisca il verde. -
Sì parla, ed ella la cangiata spoglia {{R|131ª ottava}}
dal sommo crine ala radice estrema
per la memoria del’antica doglia
tutta crollando allor, palpita e trema.
Com’abbracciar co’ verdi rami il voglia,
sestessa inchina e par languisca e gema
e, sparsi de’ suoi flebili licori,
fa lagrimar gl’innamorati fiori.
Ne’ fior ne’ fiori istessi amor ha loco, {{R|132ª ottava}}
amano il bel ligustro e l’amaranto
e narciso e giacinto, aiace e croco
e con la bella clizia il vago acanto.
Arde la rosa di vermiglio foco,
l’odor sospiro e la rugiada è pianto.
Ride la calta e pallida ed essangue
tinta d’amor la violetta langue.
Ancor non eri, o bell’Adone, estinto, {{R|133ª ottava}}
ancor non eri in novo fior cangiato.
Chi diria che di sangue, oimé! dipinto
dei di testesso in breve ornare il prato?
Presago già, benché confuso e vinto,
d’un tanto onor che gli destina il fato,
ciascun compagno tuo t’onora e cede,
t’ingemman tutti il pavimento al piede.
Havvi il vago tulippo, in cui par voglia {{R|134ª ottava}}
quasi in gara con l’Arte entrar Natura;
qual d’un bel riccio d’or tesse la foglia
ch’ai broccati di Persia il pregio fura;
qual tinto d’una porpora germoglia
che degli ostri d’Arabia il vanto oscura;
trapunto ad ago o pur con spola intesto
drappo non è che si pareggi a questo.
Ma più d’ogni altro ambizioso il giglio {{R|135ª ottava}}
qual re sublime in maestà sorgea
e, con scorno del bianco e del vermiglio,
in alto il gambo insuperbito ergea;
dolce gli arrise, indi di Mirra al figlio
segnollo a dito e’l salutò la dea:
- Salve (gli disse) o sacra, o regia, o degna
del maggior gallo e fortunata insegna.
Ti vedrà con stupor l’età novella {{R|136ª ottava}}
chiara quanto temuta e gloriosa;
ma quante volte di dorata e bella
diverrai poi purpurea e sanguinosa?
Non sol negli orti miei convien ch’anch’ella
ti ceda omai la mia superba rosa,
ma, fregiato di stelle, anco il tuo stelo
merita ben che si traspianti in cielo. -
Non so se v’era ancor la granadiglia, {{R|137ª ottava}}
ch’a noi poscia mandò l’indica piaggia,
di natura portento e meraviglia,
e ceda ogni altra pur stirpe selvaggia.
Al no più tosto il mio pensier s’appiglia,
né deve altro stimarne anima saggia,
ché star non può, né dee puro e sincero
tra l’ombre il sol, con le menzogne il vero.
Disse alcun, ch’a narrar le glorie e l’opre {{R|138ª ottava}}
del sempiterno lor sommo fattore
le stelle, onde la flotte il manto copre,
son caratteri d’oro e di splendore.
Or miracol maggior la terra scopre;
quasi bei fogli apre le foglie un fiore,
fiore, anzi libro, ove Gesù trafitto
con strane note il suo martirio ha scritto.
Benedicati il cielo e chi lo scrisse, {{R|139ª ottava}}
o sacro fior, che tanta gloria godi,
e i fiori, in cui de’ regi i nomi disse
leggersi antica musa, or più non lodi.
Chi vide mai, che’n prato alcun fiorisse
primavera di spine e lance e chiodi?
e che tra mostri al Redentor rubelli
pullulasser co’ fiori i suoi flagelli?
In India no, ma ne’ giardin celesti {{R|140ª ottava}}
portasti i primi semi a’ tuoi natali
tu, che del tuo gran Re tragici e mesti
spieghi in picciol teatro i funerali.
Nel’orto di Giudea, credo, nascesti
da que’ vermigli e tepidi canali
che gli olivi irrigaro, ov’egli essangue
angosciose sudò stille di sangue.
Ahi! qual pennello in te dolce e pietoso {{R|141ª ottava}}
trattò la man del gran pittore eterno?
e con qual minio vivo e sanguinoso
ogni suo strazio espresse ed ogni scherno?
di quai fregi mirabili pomposo
al sol più caldo, al più gelato verno
dentro le tue misteriose foglie
spieghi l’altrui salute e le sue doglie?
Qualor bagnato da’ notturni geli {{R|142ª ottava}}
con muta lingua e taciturna voce,
anzi con liete lagrime, riveli
de’ tuoi fieri trofei l’istoria atroce
e rappresenti ambizioso ai cieli
l’aspra memoria del’orribil croce,
per gran pietate il tuo funesto riso
dà materia di pianto al paradiso.
Vivi e cresci felice. Ove tu stai {{R|143ª ottava}}
Sirio non latri ed aquilon non strida,
né di profano agricoltor giamai
vil piè ti calchi o falce empia t’incida,
ma con chiar’onde e con sereni rai
ti nutrisca la terra, il ciel t’arrida,
Favonio ognor con la compagna Clori
dela bell’ombra tua gli odori adori.
Te sol l’aurora in oriente ammiri, {{R|144ª ottava}}
tue pompe invidi e tua beltà vagheggi;
in te si specchi, a te s’inchini e giri
stupido il sol da’ suoi stellanti seggi.
Ma né questi né quella al vanto aspiri
che di luce o color teco gareggi,
ché sol la vista tua può donar loro,
qual non ebber giamai, porpora ed oro.
Lagrimette e sospir calde e vivaci {{R|145ª ottava}}
d’aure in vece ti sieno e di rugiade;
angeli sien del ciel l’api predaci,
che rapiscan l’umor che da te cade
e, mille in te stampando ardenti baci
di devota dolcezza e di pietade,
dal fiel che ti dipinge amaro e grave,
traggano a’ nostri affanni il mel soave.
Tutto al venir d’Adon par che ridenti {{R|146ª ottava}}
rivesta il bel giardin novi colori;
umili in atto intorno e reverenti
piegan la cima i rami, ergonla i fiori;
vezzose l’aure e lusinghieri i venti
gli applaudon con sussurri adulatori;
tuttutti a salutarlo ivi son pronti
gli augei cantando e mormorando i fonti.
Con l’interne del cor viscere aperte {{R|147ª ottava}}
ogni germe villan fatto civile,
gli fa devoto affettuose offerte
di quanto ha di pregiato e di gentile;
dovunque il volto gira o il piè converte
presto si trova a corteggiarlo aprile;
aranci e cedri e mirti e gelsomini
spiran nobili odori e peregrini.
Qui di nobil pavon superba imago {{R|148ª ottava}}
il crespo bosso in ampio testo ordiva,
che nel giro del lembo altero e vago
ordin di fiori in vece d’occhi apriva.
Quivi il lentisco di terribil drago
l’effigie ritraea verace e viva
e l’aura, sibilando intorno al mirto,
formava il fischio e gl’infondea lo spirto.
Colà l’edra ramosa, intesta ad arte, {{R|149ª ottava}}
capace tazza al natural fingea,
dove il licor dele rugiade sparte
ufficio ancor di nettare facea;
con verdi vele altrove e verdi sarte
fabricava il timon nave o galea,
su la cui poppa i vaghi augei cantanti
l’essercizio adempian de’ naviganti.
La Gioia lieta e la Delizia ricca, {{R|150ª ottava}}
l’accarezza colei, costei l’accoglie.
La Diligenza i fior dal prato spicca,
l’Industria i più leggiadri in grembo toglie;
e la Fragranza i semplici lambicca,
e la Soavità sparge le foglie;
l’Idolatria tien l’incensiero in mano,
la Superbia n’essala un fumo vano.
La Morbidezza languida e lasciva, {{R|151ª ottava}}
la Politezza dilicata e monda,
la Nobiltà che d’ogni lezzo è schiva,
la Vanità che d’ogni odore abonda,
la Gentilezza affabile e festiva,
la Venustà piacevole e gioconda
e, con l’Ambizion gonfia di vento,
il Lusso molle e’l barbaro Ornamento.
Venner questi fantasmi ed, a man piene {{R|152ª ottava}}
su’l bel viso d’Adon spruzzando stille
d’odorifere linfe, entro le vene
gl’infuser sottilissime faville.
Poi con tenaci e tenere catene,
ch’ordite avean di mille fiori e mille,
trasser legati il giovane e la diva
là dove al’Ozio in grembo Amor dormiva.
O fusse degli odor l’alta dolcezza, {{R|153ª ottava}}
laquale il trasse a quel beato loco,
o pur che vinto alfin dala stanchezza
schermo cercasse dal’estivo foco,
quivi colui che l’universo sprezza
e del’altrui languir si prende gioco,
con un fastel di fior sotto la fronte
erasi addormentato a piè d’un fonte.
La pesante faretra e l’arco grave {{R|154ª ottava}}
sostiene un mirto e ne fa scherzo al vento;
l’ali non move già, che ferme l’have
un sonno dolce, a lusingarlo intento;
ma’l sonno lieve e’l venticel soave
fan con moto talor lascivo e lento
vaneggiar, tremolar, qual’onda in fiume,
le bionde chiome e le purpuree piume.
Quando la madre il cattivel ritrova {{R|155ª ottava}}
ch’al sonno i lumi inchina e i vanni piega,
tosto pian pian, pria che si svegli o mova,
per l’ali il prende e con la benda il lega.
Amor si desta e di campar fa prova
e si scusa e lusinga e piagne e prega;
non l’ascolta Ciprigna e, seben scherza,
simulando rigor, stringe la sferza.
- Tu piagni (gli dicea) tu crudo e rio, {{R|156ª ottava}}
che di lagrime sol ti pasci e godi?
E pur dianzi dormivi e pur, cred’io,
sognavi ancor dormendo insidie e frodi.
Tu che turbi i riposi al dormir mio
e m’inganni e schernisci in tanti modi,
tu, che’l sonno interrompi ai mesti amanti,
dormivi forse al mormorar de’ pianti? -
Così dice e’l minaccia e da’ bei rai {{R|157ª ottava}}
folgora di dispetto un lampo vivo;
ma’l suo vezzoso Adon, che non sa mai
il bei volto veder senon giolivo,
corre a placarla e - Serenate omai
quel sembiante (le dice) irato e schivo.
Vorrò veder, s’ad impetrar son buono
dal vostro sdegno il suo perdono in dono. -
Come veduto il pasto, in un momento {{R|158ª ottava}}
mordace can la rabbia acquetar suole
o come innanzi al più sereno vento
si dileguan le nubi e riede il sole,
così del’ira ogni furore ha spento
Venere ale dolcissime parole.
- Piace (risponde) a me, poich’a te piace,
per maggior guerra mia, dargli la pace.
Arbitro è il cenno tuo del mio consiglio, {{R|159ª ottava}}
quanto puoi nel’amor puoi nelo sdegno.
E che curar degg’io di cieco figlio?
Tu se’ il mio caro e prezioso pegno.
Porta Amor l’arco in man, tu nel bel ciglio;
tende Amor il lacciuol, tu se’ il ritegno;
Amor ha il foco e tu dai l’esca; Amore
m’uscì del seno e tu mi stai nel core.
Ma sappi, anima mia, che quale il vedi, {{R|160ª ottava}}
quel ch’or ti fa pietà, povero infante,
volge il mondo sossovra e sotto i piedi
ha con tutti i celesti il gran tonante.
Ben ten’accorgerai se tu gli credi;
ma non gli creda alcun accorto amante.
Scelerato, fellon, furia, non dio,
sì partorito mai non l’avess’io.
È cieco sì, non perché già gli strali {{R|161ª ottava}}
se ferir vuol, non veggia ove rivolga,
ch’ascoso il cor nel petto de’ mortali
trovar ben sa, senza che’l vel si sciolga.
Cieco ei s’infinge sol negli altrui mali,
né gli cal, ch’altri pianga o che si dolga;
e cieco è sol però ch’accieca altrui
per dar la morte a chi si fida in lui.
Fiero accidente e rapido volere, {{R|162ª ottava}}
desio che’nchina a partorir nel bello,
scende al cor per la vista e vuol godere,
cerca il diletto e sol s’acqueta in quello.
Ma poiché lusingato ha col piacere,
ai più fidi e devoti è più rubello.
Gli altri affetti del’alma, apena entrato
scaccia e s’usurpa quel che non gli è dato.
Sotto la sua vittoriosa insegna {{R|163ª ottava}}
piangon mill’alme afflitte i propri torti.
Mansueto e feroce, ama e disdegna,
prega e comanda, or pene or dà conforti.
Leggi rompe, armi vince e, mentre regna,
piega i saggi egualmente e sforza i forti.
Risse e paci compone, ordisce inganni,
sa far lieti i dolori, utili i danni.
Tenero come ortica e come cera {{R|164ª ottava}}
è duro, umil fanciullo e fier gigante.
Il disprezzo lo placa, e la preghiera
più terribile il rende e più arrogante.
Qual Proteo ha qualità varia e leggiera,
in tante forme si trasforma e tante.
Ha l’entrata ne’ cor pronta e spedita,
faticosa e difficile l’uscita.
Ha faci e reti e lacci ed arco e dardi, {{R|165ª ottava}}
quant’ha, tutto è veleno e tutto è foco.
Mostra viso benigno e dolci sguardi,
or salta, or vola e non ha stabil loco.
Forma falsi sospir, detti bugiardi,
spesso s’adira e volge in pianto il gioco.
Quelche giova non cura o quelche lice,
né teme genitor né genitrice.
La spada a Marte e la saetta a Giove {{R|166ª ottava}}
toglie di mano e sì l’aventa e vibra.
Repentino e furtivo assalti move,
né con scarse misure i colpi libra.
Fa piaghe inevitabili e là dove
passa, attosca gli spirti in ogni fibra.
Va per tutto e per tutto or cala, or poggia,
ma sol ne’ cori e non altrove alloggia.
Ciò che del mentitor l’arte richiede, {{R|167ª ottava}}
ciò ch’ai furti del’alme oprar bisogna,
dalo dio del’astuzie e dele prede
nelo studio imparò dela menzogna.
Non conoscer giustizia e romper fede,
schernir pietate e non stimar vergogna,
tutto apprese da lui; né scaltro e destro
il discepol fu poi men del maestro.
Consiglier disleal, guida fallace, {{R|168ª ottava}}
chiunque il segue di tradir si vanta.
Astuto uccellator, mago sagace,
i sensi alletta e gl’intelletti incanta.
Indiscreto furor, tarlo mordace,
rode la mente e la ragion ne schianta.
Passion violenta, impeto cieco,
tosto si sazia e’l pentimento ha seco.
Ceda del mar Tirren la fera infida {{R|169ª ottava}}
e del fiume d’Egitto il perfid’angue,
ehe forma a danni altrui canto omicida
e piange l’uom, poiché gli ha tratto il sangue;
questi toglie la vita e par che rida,
ferisce a morte e per pietà ne langue;
in gioconda prigion, di vita incerto
tiene altrui preso e mostra l’uscio aperto.
Non ebbe il secol mai moderno o prisco {{R|170ª ottava}}
mostro di lui più sozzo o più difforme,
ma perch’altri non fugga il laccio e’l visco,
non si mostra giamai nele sue forme;
Medusa al’occhio, al guardo è basilisco,
nel morso ala tarantola è conforme;
ha rostro d’avoltoio orrido e schifo,
man di nibbio, unghia d’orso e piè di grifo.
Non giova a fargli schermo arte o consiglio, {{R|171ª ottava}}
poiché per vie non conosciute offende.
Fere, ma non fa piaga il crudo artiglio,
o se pur piaga fa, sangue non rende,
se rende sangue pur, non è vermiglio,
ma stillato per gli occhi in pianto scende.
E così lascia in disusata guisa
senza il corpo toccar, l’anima uccisa.
Chi non vide giamai serpe tra rose, {{R|172ª ottava}}
mele tra spine o sotto mel veleno;
chi vuol veder il ciel, di nebbie ombrose
cinto quand’è più chiaro e più sereno,
venga a mirar costui, che tiene ascose
le graǺzie in bocca e porta il ferro in seno:
lupo vorace in abito d’agnello,
fera volante e corridore augello.
Lince privo di lume, Argo bendato, {{R|173ª ottava}}
vecchio lattante e pargoletto antico,
ignorante erudito, ignudo armato,
mutolo parlator, ricco mendico,
dilettevole error, dolor bramato,
ferita cruda di pietoso amico,
pace guerriera e tempestosa calma,
la sente il core e non l’intende l’alma.
Volontaria follia, piacevol male, {{R|174ª ottava}}
stanco riposo, utilità nocente,
desperato sperar, morir vitale,
temerario timor, riso dolente,
un vetro duro, un adamante frale,
un’arsura gelata, un gelo ardente,
di discordie concordi abisso eterno,
paradiso infernal, celeste inferno.
Era a gran pena dal mio ventre al sole {{R|175ª ottava}}
questo seme di vizi uscito fora,
né’l fianco a sostener la grave mole
dela faretra avea ben fermo ancora,
quando del fiero ingegno, acerba prole,
maturò le perfidie innanzi l’ora;
e seben l’ali ancor non gli eran nate,
con la malizia avantaggiò l’etate.
Iva ala scola, a quella scola in cui {{R|176ª ottava}}
virtù s’impara ed onestà s’insegna
e piangea nel’andar, come colui
che sì fatte dottrine aborre e sdegna;
e, com’è stil de’ coetanei sui,
perché’l digiuno a ristorar si vegna,
pien di poma portava un picciol cesto
che di fronde di palma era contesto.
Perché non si smarrisse o smarrit’anco {{R|177ª ottava}}
fusse ai tetti materni almen ridutto,
sospeso gli avev’io su’l tergo manco
di breve in forma un titolo costrutto;
eravi affiso un pergameno bianco
di minio e d’or delineato tutto
e scritto v’era di mia propria mano:
"Questi è di Vener figlio e di Vulcano."
Poco tardò, che di trovar gli avenne {{R|178ª ottava}}
la Vigilanza, ch’attendea tra via;
con l’Importunità l’Audacia venne,
poi la Consuetudine seguia.
Costoro in guisa tal ch’ebro divenne,
l’abbeverar del vin dela Follia;
ebro il tennero a bada, infinché tutti
del suo panier si divoraro i frutti.
Or, dov’altri donzelli in varie guise {{R|179ª ottava}}
de’ primieri elementi apprendean l’arte,
il malvagio scolar giunto s’assise
nela più degna ed onorata parte;
quindi poi sorto, a recitar si mise
la lezion su le vergate carte
e, quasi pur con indice o puntale,
la tabella scorrea con l’aureo strale;
ma peroché non ben del suo dettato {{R|180ª ottava}}
seppe le note espor, con scorni ed onte
ne fu battuto, ond’ei con l’arco aurato
al Senno precettor ruppe la fronte.
Così fuggissi ed al’albergo usato
non osando tornar, calò dal monte
e con la turba insana e fanciullesca
venne in desio d’essercitar la pesca,
e, mancandogli corda, agli aurei crini {{R|181ª ottava}}
svelle una ciocca e lungo fil ne stende
e, questo immerso entro i zaffir marini
in vece d’asta, ad una freccia appende.
Gittan lo stame ancor gli altri Amorini,
perde il tempo ciascuno e nulla prende;
solo il mio figlio a strana preda inteso
tragge carco il lacciuol di ricco peso.
Guizzava apunto in quella istessa riva, {{R|182ª ottava}}
dove i dolci de’ cor tiranni e ladri
intendeano a pescar, ninfa lasciva,
cui pari altra non ebbe occhi leggiadri;
mentre perle costei cogliendo giva
dal cavo sen dele cerulee madri,
vide folgoreggiar per entro l’onda
del pargoletto dio la treccia bionda.
Ala luce del’or, ch’alletta e’nganna, {{R|183ª ottava}}
s’accosta incauta e vi s’involve e gira;
tosto che sente Amor tremar la canna,
con l’aita degli altri a sé la tira;
presa è la ninfa e di dolor s’affanna,
giunge al’arena e si dibatte e spira;
apena al’aura è fuor del’acque uscita,
che’n acquistando il sol, perde la vita.
Tra questi indugi ecco la notte oscura, {{R|184ª ottava}}
ch’imbruna il cielo e discolora il giorno.
Allor ramingo e pien d’alta paura,
vassi lagnando e non sa far ritorno,
ma pur, riconosciuto ala scrittura,
è ricondotto al mio divin soggiorno.
Io per punirlo allor la verga prendo,
ed ei si scusa e supplica piangendo:
"Pietà (diceami) affrena l’ira alquanto, {{R|185ª ottava}}
pietà, madre, mercé, perdono, aiuto,
ch’anco staman, non senza affanno e pianto,
dal severo maestro io fui battuto.
E fors’egli miracolo cotanto,
che sia per poco un fanciullin perduto?
anco in più ferma età, né meraviglia,
perdé per sempre Cerere la figlia.
Se questa volta il rio flagel deponi, {{R|186ª ottava}}
vo’ che novo da me secreto impari;
insegnerotti, pur che mi perdoni,
a pescar cori, iquai ti son sì cari;
sappi, che non si fan tai pescagioni
senza l’esca del’or ne’ nostri mari;
pon l’oro in cima pur degli ami tuoi,
e se ne scampa alcun, battimi poi.
Nel mar d’Amor ciascun amante pesca {{R|187ª ottava}}
per trarre un cor fugace al suo desio.
Ma però che de’ cori è cibo ed esca
l’or, che del vulgo già s’è fatto dio,
chi vuol che’l duo lavor ben gli riesca,
usi quest’arte, che ti scopro or io:
qualor uom ch’ama a bella preda intende,
se l’esca non è d’or, l’amo non prende."
Con queste ciance, del suo fallo stolto {{R|188ª ottava}}
campò la pena il lusinghier crudele.
Ma per altra follia non andò molto,
ch’a me tornò con gemiti e querele;
vassene in un querceto ombroso e folto
ne’ giardini di Gnido a coglier mele
e seco a depredar gli aurei fialoni
van gli alati fratelli in più squadroni;
e perché’l dolce de’ licor soavi {{R|189ª ottava}}
orso o mosca non è che cotant’ami,
cerca de’ faggi opachi i tronchi cavi,
spia de’ frassini annosi i verdi rami;
e nel pedal d’un elce, ecco duo favi
vede coverti di pungenti essami;
vulgo d’api ingegniere accolto in quella
sta sussurrando a fabricar la cella.
Chiama i compagni e lor la cova addita {{R|190ª ottava}}
che la ruvida scorza in sé ricetta;
corre dentro a ficcar la destra ardita,
ma la ritira poi con maggior fretta;
folle chi cani attizza o vespe irrita,
ché non si sdegnan mai senza vendetta;
pecchia d’acuta spina armata il morse,
ond’ei forte gridando a me ricorse
e, dela guancia impallidito l’ostro, {{R|191ª ottava}}
di timor, di dolor palpita e langue:
"Madre madre ( mi dice) un picciol mostro,
e mi scopre la man tinta di sangue,
un che quasi non ha dente né rostro
e sembra d’or e punge a guisa d’angue,
minuto animaletto, alata serpe
hammi il dito trafitto in quella sterpe".
Io, che’l conosco e so di che fier aghi {{R|192ª ottava}}
s’armi sovente, ancorché vada ignudo,
mentre che i lumi rugiadosi e vaghi
gli asciugo e la ferita aspra gli chiudo,
"Che d’animal sì piccolo t’impiaghi
(rispondo) il pungiglion rigido e crudo,
da pianger figlio o da stupir non hai:
e tu, fanciullo ancor, che piaghe fai?"
L’Occasion, ch’è nel fuggir sì presta, {{R|193ª ottava}}
vide un giorno per l’aria ir frettolosa.
Suora minor dela Fortuna è questa
e tien le chiavi d’ogni ricca cosa;
l’ali ha su’l tergo e di vagar non resta,
sempre andando e tornando e mai non posa;
lungo, diffuso e folto il crine ha, salvo
verso la coppa ov’è schiomato e calvo.
Per poterla fermar, l’occhio e’l pensiero {{R|194ª ottava}}
molto attento ed accorto aver conviene,
ch’animal non fu mai tanto leggiero
e vuol gran senno a custodirla bene;
frutto di suo sudor non gode intero
chi la prende talor né la ritiene.
Egli appostolla e tante insidie tese,
che, mentr’ella volava, alfin la prese.
Ma poich’al laccio suo la giunse e colse {{R|195ª ottava}}
e la chioma fugace ebbe distretta,
di lentisco una gabbia intesser volse
per tenervela poi, chiusa e soggetta.
O poco cauto! Intanto ella si sciolse;
così perde piacer chi tempo aspetta:
mentr’era intento a que’ pensieri sciocchi,
gli uscì di mano e gli svanì dagli occhi.
Quante da indi in poi colpe diverse {{R|196ª ottava}}
da lui commesse, io qui trapasso e celo?
Taccio quando di neve il sen s’asperse
e si stracciò di su la fronte il velo;
lassa, allor per mio mal le luci aperse,
allora fu l’ardor suo misto di gelo;
l’iniqua Gelosia, che’l tolse in braccio,
gli sbendò gli occhi e l’attuffò nel ghiaccio.
Fuggì tremando assiderato e molle, {{R|197ª ottava}}
tutto stillante il sen pruine e brume,
al cieco albergo, ove lo Sdegno folle
tien di torbida fiamma acceso lume;
e però ch’appressar troppo si volle,
riscaldando le membra, arse le piume;
quindi tacito e mesto a casa venne
con la fascia squarciata e senza penne.
L’insolenza e l’ardir contar non voglio, {{R|198ª ottava}}
quando sotto le piante Onor si pose,
al cui saggio ammonir crebbe in orgoglio
con ingiurie villane ed oltraggiose.
E perché la Ragion, che’n alto soglio
siede reina a giudicar le cose,
citollo al tribunal del suo governo,
ricusando ubbidir, la prese a scherno,
anzi un regno per sé solo e diviso {{R|199ª ottava}}
a dispetto fondò dela Ragione;
volse anch’egli il suo inferno e’l paradiso
in disprezzo di Giove e di Plutone;
nel’un pose diletto e gioia e riso,
ma beate suol far poche persone;
l’altro tutto colmò di fiamme ardenti,
dove i dannati suoi stanno in tormenti.
Dele più chiare e più famose lodi {{R|200ª ottava}}
del mio folletto hai qualche parte intesa,
ma del gran fascio di cotante frodi
sappi, che quel ch’io narro, il men non pesa.
Di sue prodezze intempestive or odi
un’altra egregia e segnalata impresa:
la misera Speranza un giorno batte,
balia che lo nutrì del proprio latte.
Indi da me scacciato e’n faccia tinto {{R|201ª ottava}}
del color dela porpora e del foco
e dala Rabbia e dal Furor sospinto,
che l’accompagnan sempre in ciascun loco,
prese a giocar con l’Interesse e, vinto,
l’arco perdette e le quadrella in gioco;
costui, ch’ogni valor spesso gli toglie,
vinselo e trionfò dele sue spoglie.
Ma di nov’arco e di quadrella nove {{R|202ª ottava}}
poich’arciera Beltà l’ebbe fornito,
sen gio, ventura a ricercare, altrove,
insopportabilmente insuperbito;
e, mentre inteso a far l’usate prove,
scorrea l’onda e l’arena, il monte e’l lito,
tra i sepolcri di Menfi infausta sorte
guidollo a caso ad incontrar la Morte.
Quel teschio scarno e nudo di capelli, {{R|203ª ottava}}
quella rete di coste e di giunture,
dele concave occhiaie i voti anelli,
del naso monco le caverne oscure,
dele fauci sdentate i duo rastelli,
del ventre aperto l’orride fessure,
de’ secchi stinchi le spolpate fusa
Amor mirar non seppe a bocca chiusa;
non si seppe tener, che non ridesse {{R|204ª ottava}}
volto a schernirla, il garruletto audace,
onde pugna crudel tra lor successe,
vibrando ella la falce egli la face.
Ma si frapose e quel furor ripresse
componendogli insieme amica Pace
e, quella notte, in un medesmo tetto
abitanti concordi, ebber ricetto.
Levati la diman, l’armi scambiando, {{R|205ª ottava}}
l’un si prese del’altro arco e quadrella,
ond’adivenne poi, che saettando
fero effetti contrari e questi e quella.
L’uno uccidendo e l’altra innamorando
ancor serban quest’uso ed egli ed ella;
Morte induce ad amar l’alme canute,
Amor tragge a morir la gioventute.
Adon bella mia pena e caro affanno, {{R|206ª ottava}}
luce degli occhi miei, fiamma del core,
guardati pur da questo rio tiranno,
ch’alfin non sene trae, senon dolore. -
Così parla Ciprigna e’ntanto vanno
fuor del boschetto, ove trovaro Amore.
Amor si va le lagrime tergendo,
e con occhio volpin ride piangendo.
</poem>