Sorrisi di gioventù/Commiato
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COMMIATO.
I miei Sorrisi potevano essere, ed erano veramente di più. Ma questo avvenne, che appena avevo finito di raccoglierli, una parte ebbe fretta di uscire, foggiata in un volume da sè, per le nozze d’argento del Regno italiano con Roma1. Sarebbe stato ora il caso di aggiunger dell’altro, se non avessi pensato che nei libri è gran pregio, in mancanza di meglio, esser brevi, e che nelle relazioni civili non bisogna abusare di nulla, neppur di sorrisi. Infine, se a questi sarà fatto buon viso, chi sa? la materia non manca; e non sarò io certamente che mi lagnerò della vita. Oggi ancora, non sono senza sorrisi gli anni maturi: solo è da dire che il gaio sciame ha mutato luogo; stanchi della città, preferiscon la villa, anzi il folto dei boschi. Si soli dati alla macchia, i briganti:
castagni, faggi, abeti e querciole sono il fatto loro;
e non hanno meno in grazia i pini, i ginepri, i
corbezzoli. In fondo, pur che sia verde, la montagna
mi piace: ho caro che tra eriche nane, sassi
discreti e borraccina a tutto spiano, corra blandamente
serpeggiando un’acqua viva e sussurrona;
che ci sia quiete per me, poveraccio, e felicità per
tutte le bestie, creature del buon Dio al pari di me,
se anche, avendo studiato meno, ragionano in forma
più grossa; ma tanto più sbrigativa. Son poi felici,
le bestie? Su per giù come noi; con giorni
buoni, e con giorni cattivi; e, diversamente da
noi, si contentan di poco. Chiedetene alle lepri e
ai rigogoli: non domanderebbero altro che l’abolizione
delle licenze di caccia.
Assistevo, son pochi giorni passati, all’odissea campestre d’un grosso scarabèo; un lucanus, se le mie cognizioni entomologiche non fallano, qui volgarmente chiamato il diavolo, per certe coma in guisa di tanaglie, che porta gloriosamente in capo, come un cavalier medievale avrebbe portato sull’elmo un trofeo di giostra. U povero diavolo trascinava a fatica il suo corpo immane, reggendosi male su certe gambucce sottili, che parevano sempre lì lì per andarne scavezzate. Sotto il peso della gran corazza nera piegavano i fili d’erba, cedevano i fuscelli di paglia, si sfondavano le foglie secche, facendolo pencolare or da un lato, or dall’altro, ruzzolare, tombolare ad ogni tanto; ma senza levargli il coraggio, viva la faccia sua, perchè egli, rizzandosi alla meglio, si rimetteva tosto in cammino e tirava di lungo; non girando, ohibò, ma sormontando gli ostacoli, procedendo diritto davanti a sè, lento ma sicuro del fatto suo, come se avesse una meta da raggiungere, e tempo da farne scialo. Dove andasse, non so; forse non lo sapeva neppur lui chiaramente. “Ma è legge„ avrà detto, da quel diavolo filosofo che mi pareva; “è legge l’andare, andiamo dunque; cadere, rialzarsi, andar capo fitti, risalire, è tutta strada.„ Lo seguitai per un’ora, a dir poco; e mi parve una occupazione più seria di tante e tant’altre, nelle quali ho per uso d’impiegare il mio tempo. Fu inutile, soggiungerò, come tante e tant’altre; perchè tutto ad un tratto, senza ch’io ne afferrassi la ragione, il mio diavolo s’impuntò sulle sei zampettine sottili; scosse le rigide falde coriacee del suo soprabito nero; ne trasse fuori, sciorinandole al sole, due paia d’ali membranose e trasparenti, in quella guisa che un buon cittadino all’uscire in istrada schiude solennemente l’ombrello; e via ronzando per l’aria, difilato e leggero, che non pareva più lui.
Perchè non prima? Si era egli dunque seccato? O si rammentava soltanto allora di aver quegli arnesi in riserva? Forse pensò che dopo tanto terra terra un po’ di cielo agli scarabei fa bene. Anche noi, che pure non abbiamo un paio d’ali sotto le falde, anche noi, dopo esserci impietositi a freddo sulla grande miseria delle forme viventi e dopo aver meditato per uso dei salotti eleganti un dotto volume sull’eterno dolore, leviamo qualche volta lo sguardo al sereno dei cieli, donde il sole amico risplende per tutti, e ci adattiamo a riconoscere che tutto non è tenebre e gelo nel mondo. Bel mondo, se luce, azzurro e verde lo assistano! E la sera, poi, che buon fantasticare si fa, con quella dolce atmosfera turchina, su cui veleggia in così mutevoli aspetti, ma tutti cari, l’argentea luna; mentre dal fondo occhieggiano, palpitando luce d’amore, migliaia e migliaia di stelle, annunzio e promesse dette miriadi che andremo poi con altre ali visitando, per mezzo allo sterminato anello della Via lattea! Sarà un delizioso viaggio, per la conoscenza più intima del fiammante Aldebaran, della nitida Capra, del fulgido Sirio, delle due Orse vaganti, del membruto Orione, non più costretto in caccia malinconica sui prati d’asfodelo. Io mi son già fissato per la mite costellazione d’Andròmeda; non per disegno di arcani corteggiamenti, Dio guardi, ma per assister di là, spettatore dei primi posti, al brulichio luminoso di un altro mondo, che è in fabbricazione da quelle parti. Curiosità, questa, che è ragionevole in sè; com’è ragionevole che tutta quella roba non sia posta a caso, per far piacere a Democrito; com’è ragionevole che noi non siamo nati a caso intelligenti, per vederla di fuga, e non saperne più altro, quasi occhi dischiusi un istante, e poi subito richiusi, annientati nel buio. Sarà, dico, un delizioso viaggio; e il pensarci, e il dispormi, sia pur senza fretta, a prendere il biglietto d’andata senza ritorno, fa sì ch’io non mi guasti il sangue con anticipate querele; mentre non è senza gaudio ripensar qui tutte le cose che ho viste, intese, sentite, e sopra tutto conciliate nell’anima mia, dove si trovano bene.
Tre cose belle ha il mondo: conoscere, amare, sperare. Sia tutto il resto per il buon peso. Anche la nostra vita, quant’è lunga, può dirsi una gioventù. Sorridiamo.
FINE.
Note
- ↑ Con Garibaldi alle porte di Roma. Milano, Fratelli Treves. L. 4.