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commiato 263

in cammino e tirava di lungo; non girando, ohibò, ma sormontando gli ostacoli, procedendo diritto davanti a sè, lento ma sicuro del fatto suo, come se avesse una meta da raggiungere, e tempo da farne scialo. Dove andasse, non so; forse non lo sapeva neppur lui chiaramente. “Ma è legge„ avrà detto, da quel diavolo filosofo che mi pareva; “è legge l’andare, andiamo dunque; cadere, rialzarsi, andar capo fitti, risalire, è tutta strada.„ Lo seguitai per un’ora, a dir poco; e mi parve una occupazione più seria di tante e tant’altre, nelle quali ho per uso d’impiegare il mio tempo. Fu inutile, soggiungerò, come tante e tant’altre; perchè tutto ad un tratto, senza ch’io ne afferrassi la ragione, il mio diavolo s’impuntò sulle sei zampettine sottili; scosse le rigide falde coriacee del suo soprabito nero; ne trasse fuori, sciorinandole al sole, due paia d’ali membranose e trasparenti, in quella guisa che un buon cittadino all’uscire in istrada schiude solennemente l’ombrello; e via ronzando per l’aria, difilato e leggero, che non pareva più lui.

Perchè non prima? Si era egli dunque seccato? O si rammentava soltanto allora di aver quegli arnesi in riserva? Forse pensò che dopo tanto terra terra un po’ di cielo agli scarabei fa bene. Anche noi, che pure non abbiamo un paio d’ali sotto le falde, anche noi, dopo esserci impietositi a freddo sulla grande miseria delle forme viventi e dopo aver meditato per uso dei salotti eleganti un dotto volume sull’eterno dolore, leviamo qualche volta lo sguardo al sereno dei cieli, donde il sole amico