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262 | commiato |
boschi. Si soli dati alla macchia, i briganti: castagni, faggi, abeti e querciole sono il fatto loro; e non hanno meno in grazia i pini, i ginepri, i corbezzoli. In fondo, pur che sia verde, la montagna mi piace: ho caro che tra eriche nane, sassi discreti e borraccina a tutto spiano, corra blandamente serpeggiando un’acqua viva e sussurrona; che ci sia quiete per me, poveraccio, e felicità per tutte le bestie, creature del buon Dio al pari di me, se anche, avendo studiato meno, ragionano in forma più grossa; ma tanto più sbrigativa. Son poi felici, le bestie? Su per giù come noi; con giorni buoni, e con giorni cattivi; e, diversamente da noi, si contentan di poco. Chiedetene alle lepri e ai rigogoli: non domanderebbero altro che l’abolizione delle licenze di caccia.
Assistevo, son pochi giorni passati, all’odissea campestre d’un grosso scarabèo; un lucanus, se le mie cognizioni entomologiche non fallano, qui volgarmente chiamato il diavolo, per certe coma in guisa di tanaglie, che porta gloriosamente in capo, come un cavalier medievale avrebbe portato sull’elmo un trofeo di giostra. U povero diavolo trascinava a fatica il suo corpo immane, reggendosi male su certe gambucce sottili, che parevano sempre lì lì per andarne scavezzate. Sotto il peso della gran corazza nera piegavano i fili d’erba, cedevano i fuscelli di paglia, si sfondavano le foglie secche, facendolo pencolare or da un lato, or dall’altro, ruzzolare, tombolare ad ogni tanto; ma senza levargli il coraggio, viva la faccia sua, perchè egli, rizzandosi alla meglio, si rimetteva tosto