Sorella di Messalina/Parte prima/II

II

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II.

— ... Non voglio chiamarvi «Alberto», — disse la signora, ricevendolo all’indomani in un salotto crepuscolare tappezzato di raso arancino. — Faccio troppa fatica a pronunciarlo. Vi chiamerò Giorgio.

— Sì, sì. Chiamatemi pure Giorgio, — fece Alberto che sentiva già di essere un altro uomo. — Ed io, come devo chiamarvi?

— Chiamatemi Raimonda, — disse la signora, offrendogli in una piccola tazza di giada un fluido rosato, di pungente effluvio e di una dolcezza d’idromele.

— Raimonda!... Che bel nome! — fece Alberto.

— Io non mi chiamo affatto così, — spiegò la signora; — ma cambio nome a seconda di chi è con me. Oh! quelle donne che sono sempre Maria, o Cecilia, o Caterina per tutti gli uomini indistintamente! Che banalità!... Io no. Io sono una donna diversa per ogni persona che mi avvicina. Per voi, io sono Raimonda. [p. 21 modifica]

Alberto trovò questa idea assai originale. E mentre beveva il liquido misterioso e gli sguardi anche più misteriosi che fluivano per lui dall’anfora di giada e dagli occhi chiari della dama, sentì che davanti a lui si schiudeva in un nuovo e deliziante aspetto il panorama dell’esistenza.

Ella frattanto gli esponeva le sue teorie sugli uomini e sulle cose, teorie che erano — o ad Alberto parevano — assai avventate e originali.

— Vorrei — disse Alberto chinando l’agile corpo in avanti e poggiando il gomito sul ginocchio — conoscere il vostro pensiero sull’amore e la vita...

— «L’amore e la vita», dite voi? — La donna tacque, tacque di proposito, un lungo momento, come tacciono le attrici sulla scena. Poi, alzando gli occhi in cui passavano dei bagliori verdi. — Ma io non comprendo che l’amore... e la morte.

— L’amore e la morte? Perchè?

— Perchè l’amore è una cosa eterna e terribile come la morte.

— Brrr!... — fece Alberto ostentando un brivido.

— Non ridete, non ridete! — ammonì lei, corrugando la sottile linea nera delle [p. 22 modifica] sopracciglia. — Io detesto che si rida delle cose gravi. E l’amore è una cosa grave; l’amore è una cosa tragica e solenne. Io non concepisco l’amore che comincia con un sorriso e termina con un sospiro.

— E come volete che termini? — azzardò il giovane.

Ella lo saettò con gli occhi.

— Non deve terminare, non può terminare, — esclamò. — Io non ammetto che un uomo, il quale oggi mi ama, possa un giorno lasciarmi, riprendere la sua vita come se nulla fosse, parlare, camminare, ridere, scordare... o peggio! ricordare!... Ah! — e la signora rabbrividì, — è un pensiero mostruoso, abominevole. — Abbassò la voce e fissò nel giovane quei suoi occhi chiari, quasi fosforescenti tra le ciglia socchiuse: — Aveva pur ragione Messalina!... o era la duchessa di Nesle?... che quando aveva finito di amare un uomo lo faceva strozzare e gettare nel pozzo!

— Deliziosa amante! — fece Alberto, non potendo trattenere il sorriso. — Voi dunque, fareste gettare nel pozzo l’uomo che vi avesse amata?

Ella gli fissò in viso quel suo sguardo strano, senza rispondere, e Alberto ripetè l’interrogazione, variandola un poco. [p. 23 modifica]

— Voi non ammettete che un uomo che vi ha amata, vi lasci?

— L’uomo che mi ha amata — disse lei con voce profonda, — non mi lascia... che per morire.

Alberto di nuovo sorrise a questa macabra dichiarazione.

— Misericordia! — esclamò. — Quale truce modo di amare!

— È l’unico modo, — ribattè lei, e la sua voce era bassa e calda nella bianca gola pulsante — l’unico! Badate ch’io non parlo nè della tenerezza, nè dell’amicizia, nè dell’affetto; parlo dell’amore: di questa cosa crudele spietata truculenta che esige l’inesorabile e l’eterno. E di inesorabile e d’eterno non vi è che la morte.

Queste teorie parvero ad Alberto alquanto eccessive ed esaltate. D’altronde, era in tutto bizzarra la sua nuova conoscenza. Alberto notò che si profumava il fazzoletto coll’etere.

Egli si compiacque di quest’atmosfera inusitata, ma non ne fu per nulla turbato. Accomiatandosi disse a lei che sarebbe tornato l’indomani; e a sè stesso disse che non sarebbe tornato più. Già, aveva molto da fare: doveva finire la Madonna per la chiesa di Laghet, e il ritratto della baronessa Ferrari; [p. 24 modifica] e poi quello dell’ex-sindaco di Chieri. Anche una «Danzatrice Araba» e una «Ebe Giovinetta» dovevano essere pronte per l’Esposizione1 di Venezia. No; non aveva davvero tempo da perdere.

— Addio, Raimonda.

— Giorgio!... Addio.