Sopra le vie del nuovo impero/Le due giornate del trionfo nazionale

Le due giornate del trionfo nazionale

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Prefazione Il dramma dei tre popoli
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Le due giornate
del trionfo nazionale.


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Roma, 24 Febbraio 1912.

La nuda cronaca di ieri e di ier l’altro ha in sè la sua storia e la sua poesia. Nulla è da aggiungere alla nuda cronaca dei due giorni in cui il parlamento ha approvato il decreto per l’annessione della Libia. Fu approvato un decreto? Si discusse di Tripoli e dell’impresa? Si celebrò piuttosto la nuova apoteosi della nazione nella nuova concordia di tutta la patria: del governo col parlamento, del parlamento col paese; nella nuova concordia di tutta la famiglia italiana, consacrata nel sangue de’ figli che combattono in Affrica. Non furono due giorni di discussione, furono due giorni di felicità nazionale, epica, prorompente dall’epica della guerra e della conquista.

La cronaca è breve.

Ier l’altro, quando il ministero con alla [p. 4 modifica]testa l’on. Giolitti apparve nell’aula, tutta l’assemblea, tutte le tribune balzarono in piedi e scoppiarono in una acclamazione che durò minuti e minuti. Così la nazione diceva al governo che aveva fatto bene a muover guerra alla Turchia; e il decreto d’annessione era già solennemente approvato, e quanto seguì ier l’altro e ieri, non fu se non la serie di cerimonie che accompagnano un rito.

Parlarono il presidente della camera onorevole Marcora per celebrare il valore dei soldati e dei marinai; il decano della camera Lacava per lo stesso scopo; il ministro della guerra per ringraziare a nome dell’esercito, e quello della marina per ringraziare a nome dell’armata la nazione e la sua rappresentanza; parlò il presidente del consiglio per presentare il decreto d’annessione e proporre una commissione per riferirvi sopra, e di nuovo tutta l’assemblea, tutte le tribune balzarono in piedi come un uomo solo e fu una nuova acclamazione che durò minuti e minuti. Nel ministro della guerra, nel ministro della marina, nel Marcora, nel Lacava, acclamati periodo per periodo, si portarono in trionfo dalla gratitudine e dall’amore della nazione l’esercito e l’armata, i vivi e i morti vincendo.

Ieri la grandiosità epica del parlamento [p. 5 modifica]contenne anche un dramma, l’ultimo atto d’un dramma con la sua catastrofe. Tripoli, la guerra, il decreto d’annessione furono quasi direi il tema esteriore, ma il dramma, l’ultimo atto del dramma fu tra alcuni uomini e la volontà nazionale. Fu, più che l’ultimo atto, l’ultima scena; più che l’ultima scena, l’ultima frase; più che l’ultima frase, l’ultimo grido di chi finalmente cadde sotto chi finalmente trionfò. Quei pochi uomini sino a qualche anno fa, sino forse a qualche mese fa condottieri di folle, apparvero ieri finalmente soli. Combatterono, o meglio, s’illusero di combattere, ma in realtà quando comparvero sull’agone parlamentare, erano già stati vinti fuori. Non combatterono, ma si dibatterono. E forse s’illusero di battersi contro un ministero, contro una maggioranza, contro la guerra di Tripoli; ma in realtà si dibatterono sotto ben altro nemico che finalmente li aveva atterrati e afferrati alla gola. Il nemico era la stessa Italia, una nuova Italia sorta, cresciuta fattasi grande negli ultimi anni.

Ho parlato di uomini, ma è più esatto parlare di un uomo solo. Perchè un solo uomo veramente «rappresentativo» ebbe ieri nel parlamento italiano il socialismo contrario all’impresa di Tripoli, e quell’uomo fu Filippo Turati. Fra quanti presero la [p. 6 modifica]parola, fra i Sonnino, i Ciccotti, i Mosca, i Bissolati, gli Alessio, i Turati, i Chiesa, i Ferri, i Barzilai, tre differenti tipi si mostrarono: Barzilai, Bissolati, Turati. Il primo fu l’italiano, tutto quanto liberato dalla ragione di parte per la ragione della patria. Egli, repubblicano, fu l’interprete del sentimento di tutti gli italiani che erano nell’aula e fuori, e perciò il suo discorso breve prese fuoco nell’acclamazione dell’assemblea dalla prima all’ultima parola. Così nel socialismo, pienamente rinnovato apparve Enrico Ferri. Con l’agilità sua egli s’è rifatto anche il vocabolario e almeno stando al discorso di ieri, sembra non parli più di «proletariato», di «classi proletarie» e simili, ma parli di «popolo» e di «popolo italiano». Enrico Ferri, come i lettori sanno, uscendo fuori della patria ritrovò la patria, e in terre di emigrazione ritrovò la giustificazione delle colonie di dominio nazionale. E ieri parlò come un nazionalista quasi perfetto, e sarebbe stato perfetto, se non avesse fatto cenno di condannare certe altre guerre possibili, nel quale solo punto si levò qualche rumore, tanto erano perfettamente nazionaliste assemblea e tribune. Ma il Bissolati, il secondo tipo d’uomo di parte apparso ieri nel discutersi del decreto d’annessione, parla ancora di «proletariato» e [p. 7 modifica]di «classi proletarie»; e come nel suo vocabolario c’è ancora qualche traccia di ciò che fu, così nella sua anima non si mostra ancora la liberazione piena. E infatti l’assemblea fu con lui a volta a volta concorde e discorde. Il socialismo tiene la sua anima (a fatica, sembra) con gli ultimi vincoli. Ma Leonida Bissolati alla fine del suo discorso italianamente disse con voce forte: «Sappiano a Costantinopoli coloro che tendono le orecchie alle nostre voci, e intendono approfittarsi delle nostre opposizioni, sappiano che in nessun caso verrà meno in noi il pensiero dei supremi interessi della patria». Tutta l’assemblea e tutte le tribune si levarono in una acclamazione senza fine, perchè in quel momento il Bissolati diventava pienamente liberato, pienamente redento: l’uomo di parte si ricongiungeva con la nazione.

Il solo Turati restò solo. Restò il solo «uomo rappresentativo» del socialismo ostinato a morire prima di uscire da se medesimo. Ettore Ciccotti, pure avversario dell’impresa di Tripoli, non ebbe pari accento di ostinatezza. Un che di quasi cordiale lo ravvicinava in qualche modo a noi. Accanto a tanti fenomeni d’evoluzione nazionale, un solo fenomeno apparve d’involuzione socialista, e fu quello dell’onorevole Filippo [p. 8 modifica]Turati: involuzione socialista dell’ultima ora, di questa ora di Tripoli, in un uomo che prima e più d’ogni altro suo compagno uguale e minore s’era mostrato propenso a tante evoluzioni borghesi, o per lo meno ministeriali. Egli parlò ieri, dopo la guerra vittoriosa e la conquista necessaria, con la stessa mentalità, con le stesse visioni nere, con cui, or fanno sedici anni, parlò dopo la conquista non necessaria dell’Eritrea e la disfatta d’Adua, male da lui ricordata.

Perciò egli fu solo. Fu solo in mezzo ai suoi e contro agli altri. Sull’emiciclo parlamentare, con le spalle al suo scanno, mentre parlava e si dibatteva e si contorceva, con una voce che ora pareva cercare la via del cuore, ora con certo artifizio scattava, il vecchio condottiere di folle apparve solo in tutta l’Italia e contro tutta l’Italia. E nessuno voleva ascoltarlo. L’urlo implacabile rompeva i suoi periodi, lacerava le sue parole. Finchè nella tribuna dei giornalisti, nel cuore di qualcuno sorse il proposito di gridare viva l’Italia contro di lui. Una Nemesi storica, nata più di quindici anni fa, cresciuta giorno per giorno, ora per ora, nel profondo della vita pubblica, suggerì quel grido contro l’uomo di parte. E dieci, venti, nella tribuna dei giornalisti s’alzarono in piedi e gridarono viva l’Italia. Tutta la [p. 9 modifica]tribuna s’alzò e gridò viva l’Italia. Tutte le tribune e tutta l’assemblea gridarono in piedi viva l’Italia. L’uomo di parte sotto l’immenso clamore restò minuti e minuti immobile, le spalle allo scanno, gli occhi atterrati. Cessando quello, volle ricominciare a parlare, ma di nuovo tutta l’aula rintronò di viva l’Italia. Per la terza volta volle parlare e per la terza volta fu fatto tacere dallo stesso grido. Allora l’uomo rimasto solo contro mille, «rappresentativo» di poche migliaia rimaste sole e ostili contro tutto un popolo di tanti milioni di viventi; allora l’uomo a cui si buttava in faccia l’evviva all’Italia, come i soldati gridano Savoia contro il nemico quando vanno all’attacco, non parlò più. Abbozzò una conclusione qualunque di poche parole e cadde a sedere.

Or mentre questo succedeva nell’aula, mentre altri parlavano, mentre il presidente del consiglio rispondeva alle opposizioni fattegli, ed il suo semplice, chiaro, solido discorso era acclamato periodo per periodo; mentre il decreto d’annessione era approvato da più di quattrocento e trenta deputati contro due o tre diecine; fuori cinquantamila persone si radunavano tra Piazza Montecitorio e Piazza Colonna. Così Roma madre s’era improvvisamente levata a celebrare l’ora in cui i rappresentanti del popolo [p. 10 modifica]italiano sancivano l’annessione delle due grandi province d’Affrica all’Italia.

Fu il trionfo romano. Quando uscimmo dal palazzo del parlamento, tutta l’immensa conca che porta l’obelisco d’Augusto e la colonna trionfale d’Antonino, mareggiava d’una moltitudine che acclamava. E apparivano sul mare delle teste le bandiere, e lungo il Corso e su per le altre vie che sboccano al Corso, apparivano i primi lumi di festa improvvisamente accesi al primo incominciar della notte. E quando l’onorevole Giolitti con gli altri ministri comparve, ebbe nell’unione del governo col parlamento, nella nuova unione del governo e del parlamento con tutto il popolo, ebbe, quell’uomo assuefatto a vincere soltanto assemblee chiuse, con maggioranze faticosamente elaborate e faticosamente tenute, ebbe sotto il gran cielo di Roma il trionfo romano e dovette parlare alla moltitudine. E certo egli e gli altri ministri, mentre questo improvvisamente e inopinatamente accadeva loro, dovettero pensare che non lo stesso avrebbero ottenuto, non tanta unione di popolo italiano sarebbero riusciti a comporre, se avessero continuato nella politica delle riforme soltanto, soltanto nella politica interna, del monopolio e del suffragio universale. Tripoli di là dal mare ricompensava [p. 11 modifica]il suo ultimo convertito, il capo del governo.

Poi la moltitudine delle cinquantamila persone si mosse, attraversò il Corso, salì per tutti i vicoli, andò a salutare il re, incarnazione della patria vittoriosa. E la conducevano con i loro vessilli e le loro grida i giovani, l’ultima generazione degli italiani che ora s’è fatta nuova avvanguardia della patria, i giovani delle scuole, promotori della grande festa. E giunsero in Piazza del Quirinale e acclamarono il re, e il re apparve, apparve veramente il re. Roma sembrò fatta più grande nella nuova conquista e nella vittoria; tutte le grandi linee dei monumenti romani sembrarono superarsi, tutte le grandi salite romane che portarono i trionfi, sembrarono lanciarsi con maggiore impeto verso il cielo. Col saluto che proruppe su verso il re, fu salutata la nuova unità della patria italiana, della nazione italiana, l’unità del popolo e del re, del re, del popolo e del suo governo. Tripoli conquistata creava quella sublime unità.

Così Roma ieri celebrò l’annessione della Libia al Regno d’Italia. E anch’essa, ieri, Roma madre si redense.

Perchè come ieri e ier l’altro furono due giorni gloriosi, così un anno ci fu in Roma un giorno infame: ci fu il Cinque Marzo [p. 12 modifica]infame dopo la battaglia d’Adua che ora ben si può ricordare. In quel giorno le ragioni di parte sopraffecero le ragioni della patria, e i demagoghi e le loro turbe, in parlamento, per Roma, in ogni città e borgo d’Italia, orrendamente celebrarono la loro vittoria riddando intorno alla sconfitta della patria.

Oggi un periodo storico è chiuso, Oggi la parte è sconfitta e la patria trionfa. Oggi i demagoghi allora vittoriosi sono lasciati soli. Oggi tutto è rinnovato, liberato, redento, purificato. È redento il popolo, il governo, le turbe, la gioventù, il re, Roma, l’Italia.