Al Sig. Conte
ORSO D’ELCI.

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Al Sig. Conte
ORSO D’ELCI.
XXIII XXV
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XXIV

AL SIG. CONTE ORSO D’ELCI.

     Oggi, che avete alle bell’onde d’Arno,
Dopo lungo cammin, fatto ritorno,
Deh ditemi, signor, di qual diletto
Più fortemente ha confortato il core
5Il nostro re, che sul fiorir degli anni
Prese per norma di Laerte il figlio
Peregrinando? ha trapassato l’Alpe,
Varcato ha l’Istro, e nella reggia altera
Ebbe a mirar la nobiltà germana,
10E pria mirò della bell’Adria in seno
La città sposa di Nettuno, ed ivi
L’adorno seggio delle leggi antiche,
Ove la cara libertà ripara.
Ma pria con meraviglia in val di Tebro
15Le dissipate, ed atterrate moli
Trasser sua mente ad estimar, siccome
Trascorre il vento degli umani orgogli;
Non per tanto colà santa si adora
L’eccelsa Sede del pastor Sovrano;
20E fiammeggia la croce, al cui fulgore
Sono vil cosa di Quirino i fasci,
E di Quirin le scure, arrogi l’ostro,
L’ostro non punto vile, e fra quell’ostro
Le chiome bianche, e la canuta neve
25Delle barbe severe, ampio Senato,
Scuola, dove s’affina il mortal senno.
Non sarà stato certamente in vano,
Volgendo diciott’anni il Signor nostro
Rimirar da vicin cotanti lumi.
30Sogliono i Grandi in tempo della vita
Ordinar sul mattin, non a gran giorno:
Ma non dobbiamo dispregiare i pregi,
Onde Roma s’adorna; i sacri tetti
Tutti di marmo lampeggianti, e d’oro,
35Che di là dalle nnbi han le lor cime,
I regii alberghi spaziosi, gli orti,
Mirabili soggiorni di Napee,
Le tante fonti strepitose, schermo
Contro l’ardente Sol, quand’egli vibra
40Accesi rai coll’Erigonia fera.
Mirabil Roma! ella è mirabil certo;
Non son ritroso, ma mio dir non vada
Condannato da te, come lusinga,
O splendore dell’Arbia, anzi l’ascolta,
45Siccome suono di verace lingua,
E porgimi l’orecchio. lo metto un grido,
Ed ardisco affermar, che Ferdinando
Oggi non meno ammirerà Firenze
Di quel, ch’ei l’ammirò sul dipartire;
50Oso affermarlo. È forse gita a terra
La macchina superba, onde combatte
Tutti i secoli antichi il Brunelleschi?
Son dileguati i Pitti? i nobil Ponti,
Su quali ogni ora si passeggia l’Arno
55Con cotant’agio, le marmoree vie?
Forse ad onta di agosto, e di gennajo
Non daranno a Firenze il pomo d’oro?
Non l’incoroneranno? Io ben mel credo.
Ora usciam dalle mura: ecco pendici
60Bel campo di levrieri, ed ecco poggi
Destinati ad amabile vendemmia,
Vendemmia cara ad ogni mese; piani,
Cui liberal Tritolemo trascorre;
Giardini, alme ricchezze di Pomona,
65E chi può numerar le stanze egregie
Con ricca man di Dedalo cosparse
Quivi d’intorno? Il Pratolino, il Poggio,
Il Trebbio, il Caffagioli; ove tralascio
La lietissima altezza d’Artemino?
70Che dirò di Castello? i cui cipressi
Ogni più fresca Najade trascorre,
Altercando co’ fischi delle fronde
I suoi non men dolcissimi susurri?
Ma ben per questa, che oggidì s’innalza,
75Villa, ed a nome Imperïal s’appella
Dall’alta donna d’Austria, han da tacersi
I celebrati onor del re Feace;
Ed io non mento. Ora dirammi un saggio,
Che gli anni consumò dentro al Liceo
80Lungo l’Ilisso: è vanto popolare
Il vantarsi per piante, e per muraglie,
Opre caduche: la cittade ha pregio,
Quand’ella rende i cittadin felici,
Per drittura di leggi, e di costumi.
85A questo dir non contraddico, o conte;
Ma certo del buon Cosmo il degno erede
Ha di che celebrare il padre, e gli avi:
Nè qui voglio accattar greci entimemi,
Nè chiamar meco quel d’Arpino: il Sole
90Per sè chiaro si fa: la veritate
Col suo proprio valor si manifesta.
Or dimmi: in quale parte oggi risplende
La candidezza della vera fede
Più puramente, e dove men s’arrischia
95Spander venen la perfida eresia?
In riva d’Arno Astrea stringe la spada,
Ed ella è di diamante, e non di piombo,
E via men d’oro: alla dimessa plebe
Non calpesta la fronte il grave orgoglio
100D’oltraggiosa ricchezza; ma ritorno
Al mio Parnaso, e non vo’ tesser inni.
Non elbe dunque, o conte, onde partirsi
Il signor nostro, e non per tanto affermo,
Che fu saggio consiglio il dipartirsi.
105Ha visti in strani regni i lumi altrui,
E vibrovvi non meno i lampi suoi,
Sicche fu glorïoso infra i lodati,
E s’era Ferdinando omai vicino
A signor farsi del paterno regno,
110E se reggere i regni ha del celeste,
Non dovea ricercar celeste aita
Per l’alta impresa? O su stellanti campi
Singolar di pietate imperatrice,
Dianzi agli altar della magion tua sacra
115Pregio eccelso d’Italia, il rimirasti,
Porgerti prieghi, e consacrarti voti,
Voti, e preghi non già, perchè al suo regno

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Cresca confin, ma perchè tua bontade
Sia sempre seco a sostener lo scettro,
120Sicchè siano felici i suoi fedeli,
Nè pietade immortale unqua disfida
Speranze umane. Or sian felici appieno,
Orso, l’alme stagion del suo ritorno:
Volino verso il ciel fumando incensi,
125E del bell’Arno la città festeggi:
Sempre lieta per lui sorga l’Aurora,
Nè rieda Espero mai, salvo sereno.
Larga messe ad ognor, larga vendemmia
Le brame adempia della plebe; ed egli
130Fermi in terra del cielo aurei decreti,
Vibrando rai fra lo splendor degli avi.